Il professor Frank Furedi spiega perché la guerra contro il passato minaccia la nostra identità.
Nel suo libro «La guerra contro il passato», Frank Furedi analizza gli effetti concreti della delegittimazione dell’identità occidentale. Il sociologo canadese mostra come la memoria storica venga trascurata nelle nuove generazioni, influenzando la formazione della soggettività e del pensiero critico. Nell’intervista a Krisis, illustra che cosa significa difendere il passato, sottolineando quali pericoli corrono le società che perdono contatto con le proprie radici culturali.
Abbattere le statue di Cristoforo Colombo, mettere da parte Platone e Kant, riscrivere Shakespeare, reinterpretare Giovanna d’Arco… Per Frank Furedi non si tratta solo di una moda passeggera, ma del sintomo di una malattia più profonda. Il sociologo canadese è convinto che l’Occidente abbia smarrito il proprio rapporto con il tempo. E lancia l’allarme: non è solo il passato a essere sotto attacco, ma la nostra capacità di essere adulti. Nato a Budapest nel 1947 e trasferitosi in Canada dopo l’insurrezione del 1956, Furedi è tra le voci più autorevoli della sociologia critica contemporanea. È noto per i suoi studi sulla paura e sul modo in cui le società occidentali gestiscono il cambiamento culturale. Nella sua ultima opera, La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica (Fazi editore, 2025) – di cui Krisis ha pubblicato l’introduzione a cura di Andrea Zhok – Furedi sostiene che l’Occidente è impegnato in una guerra non dichiarata contro il proprio passato. Un processo che non si limita alla rimozione di statue o alla riforma dei curricula scolastici, ma che mira a delegittimare, riscrivere o rendere imbarazzante la propria eredità storica e culturale. Secondo Furedi, quest’attacco sistematico mina non solo le istituzioni culturali ed educative, ma soprattutto l’identità personale dei giovani, la coesione sociale e la capacità di riflettere criticamente sull’esperienza storica.
Nel suo libro, lei descrive un processo di «separazione dei giovani dal passato», che definisce una forma di infantilizzazione culturale e narcisismo generazionale. Che cosa significa concretamente?
«Io penso che il primo compito dell’educazione sia conservare il passato, non per un gusto conservativo in sé, ma perché senza il passato non possiamo decidere cosa sia valido e cosa no, cosa portare avanti e cosa abbandonare. Eppure, le istituzioni educative sembrano aver fatto esattamente l’opposto: cercano di separare i giovani dai ricordi delle generazioni precedenti, trasmettendo l’idea che la saggezza dei genitori e dei nonni non debba essere presa sul serio, perché la nuova maniera di fare le cose sarebbe sempre migliore. Questo porta a un processo di infantilizzazione: i ragazzi vengono privati di quella conoscenza necessaria per diventare adulti e acquisire un’identità forte. Le scuole e le università finiscono così per produrre giovani che restano infantili, ma allo stesso tempo anche un po’ narcisisti, convinti che il mondo intero ruoti attorno a loro».

Perché questo distacco dal passato è così pericoloso?
«Perché oggi si ritiene di poterlo risolvere, come se fosse possibile affrontare i problemi del passato piuttosto che quelli del presente. Per esempio, ci sono persone che tornano a William Shakespeare e dicono di capirlo meglio di quanto fosse stato compreso allora, e quindi ne cambiano la lingua di conseguenza. Tornano al passato come a un territorio che può essere modificato e alterato. Questo è molto interessante perché mostra che abbiamo perso la capacità di distinguere la frontiera tra due momenti temporali: il passato e il presente. Il passato è il passato, il presente è il presente. Ma è come se si stesse colonizzando non solo il passato, ma anche il presente attraverso il passato. Io chiamo questo fenomeno “il paradosso del passato”: ci si riempie di riferimenti al passato, ma al tempo stesso si è ossessionati da cancellarlo. È un paradosso molto significativo.
In che misura la «cancel culture» contemporanea si differenzia da altre forme storiche di censura, iconoclastia o revisionismo? È utile parlare di continuità o è un fenomeno nuovo e specifico?
«Credo che i conflitti del passato fossero fondati su idee forti: la religione, le guerre di religione – cattolici contro protestanti, Islam contro cristianesimo – oppure l’ideologia – comunisti contro liberali o progressisti contro conservatori. Oggi, invece, ci troviamo davanti a una sorta di conflitto incoerente, quasi caratterizzato da un odio spontaneo nei confronti delle conquiste civili dell’umanità. Non è espresso in modo sistematico, ma qualsiasi cosa abbia radici nel passato viene comunque percepita in termini negativi. Trovo molto interessante che non si attacchino soltanto le filosofie, le religioni o gli avvenimenti del passato, ma anche la lingua, il modo stesso in cui parliamo. Si vogliono cambiare le parole perché, in qualche modo, si ritiene che rappresentino valori sbagliati. È una forma di conflitto incoerente ma molto forte, che nasce dal fatto che non esiste più un sistema chiaro di valori in contrapposizione tra loro».
Nei suoi lavori precedenti ha descritto le società contemporanee come dominate da una «cultura della paura», che spinge gli individui a percepirsi come fragili e bisognosi di protezione. Che relazione c’è tra cultura della paura e cancel culture?
«Credo che la cultura della paura riduca il significato stesso dell’essere umano. Perché trasmette l’idea che gli individui non siano capaci di affrontare difficoltà, che non debbano essere chiamati a correre rischi. In questo modo, la soggettività umana si indebolisce. La perdita di soggettività, prodotta dalla cultura della paura, fa sì che si perda anche il senso dell’umanità. Quando ciò accade, la cancel culture può adottare un orientamento che deumanizza le persone prese di mira. Non le considera semplicemente avversari, ma individui moralmente inferiori. Questo atteggiamento produce un processo di disumanizzazione. Abbiamo visto le conseguenze di questo nelle reazioni all’assassinio di Charlie Kirk, quando alcuni arrivarono perfino a ridere del suo assassinio, perché ai loro occhi non si trattava di un essere umano, ma di un individuo moralmente inferiore».

Dal punto di vista geopolitico, come si confronta la «guerra contro il passato» dell’Occidente con la gestione della memoria storica da parte di potenze come Russia, Cina o India? E quanto i dibattiti occidentali sulla cancel culture vengono sfruttati dai regimi autoritari per i loro scopi?
«Ho scritto un libro sulla guerra in Ucraina, in cui sostengo che l’Occidente soffra di analfabetismo geopolitico. Se perdiamo il contatto con il passato, perdiamo anche il contatto con le esperienze storiche che servono ad affrontare i conflitti. In Occidente la geopolitica è diventata quasi una parolaccia, associata a un pensiero del XIX secolo. Se guardiamo a come si conducono oggi gli affari internazionali, vediamo che i funzionari delle diplomazie occidentali non sono come quelli di una volta. In passato erano persone serie, che parlavano più lingue e avevano un forte senso della storia. Oggi somigliano più a operatori sociali che a veri diplomatici. Questo è un grande cambiamento. La differenza con Russia o Cina è evidente. Vladimir Putin, ad esempio, ha una forte consapevolezza storica, che utilizza per legittimare le sue azioni, anche quando manipola la storia. In Occidente questa consapevolezza è venuta meno. Per quanto riguarda i regimi autoritari, a Mosca o a Pechino la cancel culture viene percepita quasi come una barzelletta. Alcuni miei colleghi cinesi mi dicevano: “Gli occidentali sono degli idioti a prendersi sul serio in queste cose”. Per loro non è un problema rilevante. Ciò che per me è grave è che i Paesi occidentali si comportano in modo privo di sensibilità geopolitica. Pensiamo alle invasioni americane in Iraq, in Libia o in Afghanistan: errori colossali, frutto di ingenuità. E questa ingenuità è in parte collegata all’abbandono del passato».
Guardando avanti, quale futuro intravvede per le società occidentali se la guerra contro il passato non viene fermata?
«Viviamo in una cultura del “finismo”: la fine della storia, la fine delle frontiere, la fine degli autori. Questa proliferazione di “fini” indica qualcosa di molto significativo: un’incapacità immatura di capire le connessioni organiche tra passato e presente. Così viviamo in un mondo quasi autoimposto, astratto. Credo che a lungo termine le società occidentali rischino di implodere dall’interno. Non dobbiamo preoccuparci tanto dei conflitti con altre civiltà: i problemi più grandi emergono all’interno della stessa civiltà occidentale. Se non recuperiamo la capacità di riconoscere gli aspetti positivi della nostra eredità e di darle significato, continueremo a diventare i nostri peggiori nemici. Siamo già i nostri peggiori nemici. Dobbiamo imparare a crescere, a uscire da questa fase immatura e a comportarci come adulti, con un passato. Dobbiamo reimparare l’arte di trasmettere il passato».

