Mario Lombardo
Con l’invio della Guardia Nazionale in alcune città americane, Donald Trump sta testando la tenuta delle garanzie costituzionali e il principio – già molto traballante – della separazione dei poteri negli Stati Uniti. Governatori e amministratori locali del Partito Democratico hanno scelto per lo più la strada delle cause legali per cercare di fermare l’uso dei militari a scopi di ordine pubblico, finora con risultati contraddittori. Nel caso della città di Portland, nell’Oregon, l’ordine di una giudice federale ha per il momento bloccato la decisione della Casa Bianca. A Chicago, in attesa delle udienze in tribunale, centinaia di uomini della Guardia Nazionale possono continuare invece a operare più o meno liberamente. È in ogni caso improbabile che il presidente repubblicano si faccia scoraggiare da sentenze contrarie, sempre che vengano alla fine emesse in tal senso, visto che potrà quasi certamente contare sull’appoggio finale di una Corte Suprema più che compiacente, mentre in parallelo sta preparando il terreno per il possibile ricorso al “Insurrection Act” del 1807.
Alla base del progetto di militarizzazione delle città americane c’è una tesi totalmente inventata dall’amministrazione Trump, ovvero che queste ultime sono letteralmente assediate da un’ondata criminale fuori controllo che, appunto, le autorità e le forze di polizia locali non sono in grado di contenere. In più, Trump sostiene che le operazioni degli agenti dell’immigrazione (ICE), fatte di arresti indiscriminati di lavoratori “irregolari” o presunti tali, sono messe in pericolo da proteste e azioni violente, così che l’impiego di militari della Guardia Nazionale a difesa degli edifici e degli impiegati federali sarebbe ampiamente giustificata.
Nella stragrande maggioranza dei casi sono tuttavia gli uomini della ICE a utilizzare metodi violenti, come confermano le uccisioni di migranti in presunti incidenti registrate solo nelle ultime settimane in varie località degli Stati Uniti. Le azioni violente contro gli agenti federali, a cui fa riferimento la Casa Bianca, sono invece per lo più proteste, nell’ultimo periodo ridotte fino a includere a volte poche decine di persone, contro i metodi da Gestapo della polizia migratoria federale. In tutti i casi, non ci sono evidenze che i dipartimenti locali di polizia non siano in grado di garantire l’ordine pubblico.
A una conclusione simile è arrivata la già citata giudice distrettuale alla cui attenzione è stata sottoposta la causa legale contro il dispiegamento di truppe della Guardia Nazionale a Portland. La giudice Karin Immergut, nominata dallo stesso Trump durante il suo primo mandato, ha usato parole molto dure nel denunciare la condotta dell’amministrazione repubblicana. Le motivazioni del governo, secondo la giudice, “se riconosciute, rischiano di confondere la linea di separazione tra i poteri”, portando alla conclusione che “il presidente ha facoltà di inviare truppe militari virtualmente ovunque [in territorio americano] e in qualsiasi momento”.
Per la giudice, le tesi della Casa Bianca non sono supportate dai fatti, ma essa stessa ha dovuto intervenire una seconda volta domenica per ribadire il suo ordine restrittivo, dal momento che Trump lo aveva ignorato, procedendo con lo spostamento di militari da destinare alla più grande città dell’Oregon. Le reazioni del presidente e, ancora di più, del suo consigliere, Stephen Miller, sono state fortemente indicative dei piani ultra-autoritari allo studio a Washington. Miller, le cui simpatie naziste sono ben note, ha ribaltato completamente i termini della questione, descrivendo l’ordine della giudice Immergut una “insurrezione giudiziaria”. A suo dire, sentenze che limitano i poteri del presidente, impedendogli di implementare la sua agenda, costituiscono una “insurrezione contro le leggi e la Costituzione degli Stati Uniti”.
Miller attribuisce poteri al vertice dell’esecutivo che, in realtà, non sono assolutamente previsti dalle leggi e dalla Costituzione americana. Le funzioni di polizia e l’ordine pubblico sono infatti riservate senza equivoco agli organi locali e la “federalizzazione” delle forze armate – come la Guardia Nazionale, di norma controllata dai singoli stati anche se parte del dipartimento della Difesa o, da poco, della Guerra – è consentita solo in casi eccezionali stabiliti dalla legge.
Il già ricordato “Insurrection Act” è lo strumento che consente al presidente di utilizzare i militari sul suolo domestico, oppure di “federalizzare” la Guardia Nazionale, quando si è in presenza di una “insurrezione” contro il governo. Un’eventualità, quest’ultima, che nessuna persona sana di mente, o senza obiettivi di natura eversiva, può sostenere oggi sia in atto negli USA. Per il resto, il “Posse Comitatus Act” del 1878 proibisce il ricorso alle forze armate entro i confini americani con incarichi di ordine pubblico. Il ripetuto riferimento a una fantomatica “insurrezione” da parte di Stephen Miller dimostra come si stia preparando il campo a un colpo di mano con la giustificazione pseudo-legale della legge di inizio XIX secolo.
Trump si sta comunque muovendo anche a piccoli passi verso la militarizzazione delle città americane sfruttando ogni spiraglio aperto dai tribunali e dalla docilità degli amministratori locali del Partito Democratico. Per lo più, invece, intende procedere ignorando semplicemente il parere dei giudici. Per quanto riguarda il primo caso, lunedì un altro giudice federale ha respinto l’istanza dello stato dell’Illinois che chiedeva l’immediato stop al trasferimento di uomini della Guardia Nazionale a Chicago, rimandando la decisione sulla legalità dell’iniziativa del presidente alla fine del dibattimento in aula, che inizierà giovedì. Grazie a questo temporeggiamento, i circa 300 soldati della Guardia Nazionale dell’Illinois già a Chicago resteranno nella metropoli, mentre altri 400 sono arrivati dal Texas su ordine del governatore repubblicano Greg Abbott.
È del tutto possibile che gli ostacoli messi dai tribunali alle manovre della Casa Bianca possano moltiplicarsi e mettere a rischio i piani di militarizzazione in corso, fino a costringere la Corte Suprema a intervenire con quella che, se favorevole a Trump, sarebbe una sentenza storica, oltre che disastrosa per quel che resta della democrazia americana. L’altra opzione è, come già spiegato, l’appello del presidente al “Insurrection Act”, di cui si parla ormai apertamente nell’amministrazione repubblicana. Trump lo ha citato esplicitamente lunedì durante una conferenza stampa. Dopo avere enumerato le solite menzogne nel caratterizzare la situazione dell’ordine pubblico nelle città oggetto della contesa, il presidente ha minacciato, “se necessario”, di essere pronto a invocare la legge del 1807. Tra le eventualità che potrebbero farlo decidere in questo senso c’è anche l’azione dei tribunali per fermare i suoi piani.
La militarizzazione delle città americane e l’applicazione di fatto della legge marziale sul territorio degli Stati Uniti sono parte di un processo di consolidamento del potere nelle mani dell’esecutivo che è partito subito dopo l’inizio del secondo mandato di Trump alla presidenza. Da quello che si evince dalle dichiarazioni di condanna dei politici democratici e dalle ricostruzioni dei media ufficiali, sembra che la deriva autoritaria in atto sia il risultato soltanto delle inclinazioni personali anti-democratiche dell’attuale inquilino della Casa Bianca e dei suoi più stretti collaboratori.
Se ciò è in parte vero, ci sono fattori oggettivi di natura più ampia che aiutano a interpretare la gravissima crisi democratica entro cui va ascritta la disputa sull’uso della Guardia Nazionale. Il ritorno al potere di Donald Trump ha innescato, anzi accelerato, una vera e propria contro-rivoluzione per allineare anche formalmente le modalità di governo agli interessi effettivi che determinano le azioni della politica. Il tutto in un quadro segnato dal declino irreversibile della posizione internazionale degli Stati Uniti, inclusa quella una volta predominante in ambito economico.
Una circostanza che costringe l’oligarchia che controlla la vita politica ed economica a limitare drasticamente lo “spreco” di risorse destinate a welfare e programmi sociali vari, indirizzandole verso il vertice della piramide sociale e, in parallelo, alle spese militari nel tentativo disperato di frenare la competizione globale con attori emergenti come Cina e Russia. Queste politiche sono sempre meno compatibili con le forme tradizionali della democrazia post-bellica e generano inevitabilmente conflitto sociale, se non aperte manifestazioni di protesta e resistenza.
La militarizzazione della società è in questa prospettiva una componente cruciale del disegno autoritario trumpiano, che anticipa con ogni probabilità dimostrazioni o vere e proprie rivolte da reprimere nel sangue. Non è d’altronde un caso che Trump e i suoi uomini stiano agitando lo spettro di un inesistente “terrorismo” di sinistra nel giustificare il ricorso a metodi repressivi. L’obiettivo non è in sostanza la criminalità presumibilmente dilagante a Los Angeles, Portland o Chicago né gli immigrati irregolari, usati tutt’al più come capro espiatorio per alimentare divisioni sociali, ma piuttosto l’opposizione popolare che minaccia di esplodere contro un sistema di potere impenetrabile e al servizio totale di una cerchia ristretta di super-ricchi
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