Il voto calabrese ha rivelato ancora una volta la fine della democrazia reale: l’astensione come risposta a un sistema dominato dai mercati. L’Occidente esporta un totalitarismo liberale travestito da libertà. Solo la lotta, come quella per la Palestina, può ricostruire una coscienza politica collettiva.
La messinscena elettorale e la riscoperta della lotta
L’unico dato degno di nota del voto calabrese è il 56 % di astensione, il resto è chiacchiericcio, stucchevole e impolitico, utilizzato per nascondere l’ininfluenza della democrazia nei sistemi con impalcature istituzionali di mercato.
Questa messinscena spettacolarizzata, un vero e proprio simulacro della vita politica, va avanti ininterrotto dal 1992, anno nel quale Maastricht impose la sua ferrea Costituzione degli affari privati che soppiantò quella repubblicana.
Si stabilì un principio inossidabile della modernità: l’intermediazione politica dei partiti, dei corpi intermedi, delle organizzazioni sindacali di classe rappresentavano un serio ostacolo alla definizione di una sana razionalità economica che doveva fluire priva di tentennamenti decisionali. Il livello sovranazionale costituì lo stratagemma con cui il capitalismo impose le sue norme commerciali che privatizzarono il diritto costituzionale.
Ma questa sostanziale forzatura democratica non avrebbe funzionato se quel caravanserraglio rappresentato dalla cosiddetta “società civile”, che in un lampo diluì la coscienza di classe in moralismo borghese, non avesse cantato le lodi del nuovo corso intellettuale nel quale un ottimismo indiscutibile faceva da leva alla promessa di una vita soggettiva indipendente e sovrana nelle dinamiche di mercato.
Questo composto di tradizionalismo liberale, riavviato da una nuova concezione dello Stato che diventava attivo promotore di un nuovo diritto umano che proteggeva la libera speculazione finanziaria, e di emancipazione individuale, da conquistare attraverso il perfezionamento prestazionale della cosiddetta “sfera personale”, ha prodotto, anno dopo anno, da un lato la completa spoliticizzazione della società e dall’altro l’avvento di un nuovo totalitarismo, non più vestito da camicie scure o da mimetiche militari, ma da colletti inamidati su blazer blu, confezionati direttamente dalle più prestigiose business school sparse nel mondo.
Un totalitarismo, oggi addirittura smaccato nella propria perseveranza, che l’Occidente vorrebbe esportare come un nuovo linguaggio di colonizzazione nei confronti degli stati e dei popoli che non vogliono proprio assecondare la tirannia liberaldemocratica che epiteta gli estranei come pericolosi autarchici e, al contempo, denomina la schiavitù dopo il genocidio “Piano per Gaza”.
Così in Francia, dove da un anno una sorta di manager sociopatico, formatosi in queste palestre della robotizzazione individuale chiamate banche d’affari, impedisce al Fronte Popolare, vittorioso alle elezioni, di governare, in quanto il suo programma è incompatibile con i dettati costituzionali contenuti nei Trattati Europei e con le direttive politiche di Washington.
Una motivazione non sottaciuta, non interpretabile da gesti incontrovertibili, ma annunciata candidamente in conferenza stampa. Un totalitarismo, non solo smaccato ma reo confesso, che si nutre di astensionismo elettorale.
Quindi dovrebbe far riflettere quel milione di cittadini in piazza per la Palestina, quella marea umana militante che si è affacciata per giorni come un esercito, seguendo i portuali di Genova, seguendo sindacati di base, ancora oggi pressoché sconosciuti al grande pubblico del mainstream, seguendo, soprattutto, le organizzazioni di lotta palestinesi.
Chi prova a intestarsi indebitamente questo moto di partecipazione politica non può che ritrovarsi coperto di ridicolo. I ritardi, le stucchevoli premesse del Partito democratico, con i necessari distinguo, utili alla stampa benpensante, in due anni di genocidio non si lavano con un colpo di spugna. Nessuno ha la memoria corta.
Forse, se si vuole essere precisi, la mobilitazione per la Palestina rappresenta un monito per la sinistra radicale, per quelle tantissime bandiere rosse che accompagnavano quelle palestinesi.
Proprio in un sistema disarticolato, nel quale l’individuo vive con le spalle al muro di fronte alle molteplici e rumorose prevaricazioni che la violenza capitalista mette in atto nel dominio del totalitarismo liberale, quando si ha la forza e la convinzione di parlare del reale, e il reale in un sistema capitalista è rappresentato dalla guerra, dallo sfruttamento, dall’oppressione, la popolazione risponde.
Israele non è solo uno Stato cattivo, un luogo infernale ma a sé stante. È l’avamposto economico e militare dell’Occidente capitalista e fa ciò che il capitalismo ha sempre fatto. Questa consapevolezza, dopo il Vietnam e dopo la protesta studentesca di un tempo, contribuì a formare l’alleanza tra i giovani e gli operai che, insieme, ridefinirono l’idea di sciopero e la conflittualità sindacale.
Trasportarono questa prassi all’interno della società, nelle strade, davanti ai bar; nacquero comitati di lotta dei quartieri, dei disoccupati, degli sfollati. La politica investiva qualsiasi ambiente sociale e, attraverso la cultura del conflitto, poi mediato dai partiti, conquistò diritti per i lavoratori, servizi sanitari nazionali, rappresentanze sindacali democratiche e anche avanzamenti civili.
Non si rinchiusero in castelli aziendalizzati a immaginare un underground sostenibile, a praticare esperienze purificanti, o, comunque, a mimetizzarsi tra la ruggine metropolitana. Questa tendenza, ancora condizionata da sistemi di lotta del secolo precedente, fu vittima di macelleria cilena a Genova nel 2001, ma poi si disperse trasformando l’iniziale “No Global” in “altra globalizzazione” e contribuì così ad accettare altre mistificazioni: “un’altra Europa”, “l’impresa sostenibile”, “il soggetto desiderante”, “il coraggio pioneristico delle start up”. Tutti ingredienti che hanno insaporito la dittatura della finanza creativa.
Quando si parla di immaginifico, di fantasmagorie soggettive alla perenne ricerca di allunaggi psicologici e li si rende struttura di una lotta antagonista, che così si smarca inesorabilmente dall’orizzonte socialista, si perdono le fila del conflitto sociale per rientrare nel sottobosco controculturale americanizzato.
Il reale, al contrario, qual è la lotta per l’autodeterminazione di un popolo oppresso, può, potenzialmente, costruire una comunità politica
