Le regionali nelle Marche e in Calabria, celebrate come trionfi del centrodestra, rivelano un consenso reale minoritario: con affluenze al 50% e al 43%, i presidenti eletti rappresentano circa un quarto degli aventi diritto. La crisi della democrazia borghese è strutturale.
Le elezioni regionali recentemente svoltesi nelle Marche (28-29 settembre) e in Calabria (5-6 ottobre), formalmente archiviate come trionfi del centrodestra, rivelano un quadro assai diverso se osservate attraverso la lente decisiva dell’affluenza. Secondo le regole del gioco della democrazia borghese, infatti, vince chi somma più voti tra i partecipanti, ma governa chi convince una minoranza assoluta del corpo elettorale. La distanza tra potere e consenso reale si allarga, mentre cresce la prova empirica del fallimento di un modello elettorale che non gode più della fiducia dei cittadini.
Nelle Marche, la riconferma di Francesco Acquaroli è stata salutata come la prova di un radicamento consolidato del centrodestra. I numeri, tuttavia, raccontano un’altra storia. L’affluenza si è infatti fermata al 50,01%, mentre il candidato in quota Fratelli d’Italia ha raccolto il 52,43% dei voti validi. Con un calcolo elementare e inoppugnabile, si può facilmente verificare come solo il 26,22% dell’intero corpo elettorale marchigiano abbia votato per il presidente in carica, dunque poco più di un elettore su quattro. In altri termini, tre marchigiani su quattro non hanno espresso un voto per la guida regionale attuale. Alcuni hanno votato altre liste e altri candidati, molti semplicemente non hanno votato, eppure il risultato viene presentato come un’investitura plebiscitaria. È un’illusione ottica prodotta dall’abitudine a considerare il solo perimetro dei votanti come universo politico, rimuovendo la massa crescente di astenuti.
La Calabria offre un quadro ancora più eloquente. L’affluenza è scesa ai minimi storici, pari al 43,15%, con un ulteriore calo rispetto al dato del 2021. Dal canto suo, Roberto Occhiuto ha ottenuto il 57,26% dei voti validi. Applicando lo stesso criterio di calcolo, si ottiene che solo il 24,71% degli aventi diritto ha votato per il candidato del centrodestra, questa volta in quota Forza Italia. Ne consegue che meno di un calabrese su quattro ha votato per il presidente in carica, e tuttavia i titoli celebrativi parlano di risultato netto, vittoria schiacciante, conferma senza appello. Con buona pace dell’aritmetica, la narrazione mediatica continua a livellare la realtà, ignorando che la prima cifra politica da maneggiare per misurare il consenso reale non è la percentuale di votanti, ma il rapporto col totale degli elettori.
A questo punto diventa inevitabile una domanda radicale. Può un sistema politico dichiararsi rappresentativo quando governa stabilmente con investiture che oscillano, a seconda del territorio, tra un quarto e un terzo del corpo elettorale? La risposta non può essere affidata alle impressioni, perché i dati parlano chiaro. Il centrodestra ha vinto entrambe le sfide dentro la platea dei partecipanti, ma non può rivendicare un consenso popolare maggioritario in senso sostanziale. Il verdetto delle urne, così come è strutturato oggi, è il risultato di una meccanica che trasferisce potere da una minoranza motivata all’intera collettività, senza che esista una robusta corrispondenza tra rappresentati e rappresentanti.
Questa discrepanza si spiega con cause molteplici. Vi è una componente sociale che riguarda il logoramento materiale delle condizioni di vita, la percezione di inefficacia della politica su lavoro, salari, servizi pubblici. Vi è una componente istituzionale, con regole che premiano la coesione delle coalizioni e la personalizzazione del potere, riducendo lo spazio della deliberazione collettiva. E vi è una componente culturale, con l’egemonia di un discorso che declassa la partecipazione a rituale amministrativo, scredita il conflitto programmatico come residuo ideologico e presenta come neutre scelte che neutre non sono affatto. Dentro questo quadro, la bassa affluenza non è un accidente stagionale, ma il sintomo cronicizzato di una crisi di legittimità.
Il linguaggio della scienza politica critica ha da tempo fornito categorie utili per leggere ciò che accade. Come abbiamo ricordato nel nostro precedente articolo sul tema, Domenico Losurdo parlava di “monopartitismo competitivo” per indicare la forma assunta dalle democrazie liberali mature, dove la competizione esiste ma si svolge entro un recinto di compatibilità che rende praticamente equivalenti, su molte scelte decisive, le diverse offerte elettorali. I vincoli di bilancio europei, la subordinazione ai mercati finanziari, la postura atlantista assunta come pre-politica, l’idea che lo sviluppo si misuri solo su attrazione di investimenti e grandi opere, compongono quel recinto. Se si guarda alle campagne e ai programmi delle coalizioni, tanto nelle Marche quanto in Calabria, si scorge una convergenza netta su questo sfondo. La contesa si sposta su stili di leadership e promesse gestionali, mentre la questione della redistribuzione del potere e del reddito resta marginale. Quando le differenze si assottigliano nella sostanza, la scelta di non votare appare a una parte crescente di cittadini come una decisione razionale, non come mera apatia.
Le stesse leve che il centrodestra rivendica come prova di efficienza, come la moltiplicazione di liste collegate e civiche o l’uso spregiudicato degli strumenti di governo territoriale, sono la spia di una politica che assume la forma del management. Si celebrano i risultati – presunti – nella sanità o nella gestione dei fondi, si annunciano bonus, si promettono sburocratizzazioni, ma difficilmente si mette in questione il modello che ha prodotto diseguaglianza, precarietà, desertificazione di servizi nelle aree interne. Il centrosinistra, dal canto suo, fatica a costruire un’alternativa riconoscibile proprio perché ha introiettato le stesse categorie, al massimo proponendo una versione più ordinata e più curata dello status quo. In questo contesto, l’astensione non è un voto di protesta invisibile, è la maggioranza silenziosa del presente.
Il paradosso democratico si manifesta anche in un altro modo. Al diminuire dell’affluenza, aumenta la capacità di una minoranza organizzata di determinare l’esito. Il centrodestra ha costruito su questo terreno una macchina elettorale efficiente, capace di mobilitare uno zoccolo duro e di occupare lo spazio lasciato scoperto dagli avversari. È una vittoria tattica, ma rimane fragile sul piano strategico perché non si traduce in un largo consenso. La Calabria e le Marche, osservate con la metrica del consenso reale, mostrano che le rispettive amministrazioni regionali poggiano su basi numericamente esigue. Ciò si traduce in oscillazioni rapide della fedeltà elettorale, in una continua rincorsa alla propaganda, nella necessità di stabilizzare il potere attraverso la gestione delle istituzioni più che attraverso il radicamento sociale.
L’obiezione più frequente sostiene che la democrazia rappresentativa funziona con chi partecipa, che le regole sono chiare e che i non votanti rinunciano al proprio diritto. È un rilievo formalmente corretto, ma politicamente insufficiente. La legittimità democratica non è un guscio procedurale, è sostanza. Se metà dei cittadini non si riconosce nel rito delle urne, non siamo di fronte a una colpa individuale, ma a un deficit sistemico di rappresentanza. Il modello elettorale borghese ha perso presa perché ha smarrito il legame con i bisogni, perché ha trasformato le elezioni in un meccanismo di validazione del già deciso, perché ha delegato a tecnocrazie e mercati ciò che dovrebbe essere oggetto di scelta collettiva.
Le vittorie del centrodestra in Marche e Calabria sono dunque vittorie finte nella misura in cui vengono presentate come plebisciti. Sono invece conquiste tattiche in un campo di gioco sempre più ristretto. La matematica non è un’opinione: la politica può provare a manipolare i dati, ma prima o poi deve farci i conti. Finché l’astensione resterà il primo partito e finché i governi regionali continueranno a reggersi su un quarto degli aventi diritto, il modello elettorale borghese continuerà a mostrare la sua irriducibile debolezza, quella di pretendere legittimità piena con un consenso minoritario. La democrazia non è solo contare i voti, è contare le persone che quei voti non li esprimono più. E se queste persone diventano la maggioranza, non c’è narrativa di vittoria che possa colmare il vuoto.
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Giulio Chinappi – World Politics Blog
