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Il Regno Unito affronta una crisi più profonda della Francia: inflazione alta, debito crescente e divisioni nel Labour. Intanto Farage, con Reform UK, cavalca il malcontento e minaccia di riscrivere la mappa politica britannica, spostando la destra verso il populismo.
Londra in trappola: tra crisi economica e ombra populista. Il Regno Unito affonda più della Francia
Keir Starmer può vantare una solida maggioranza a Westminster, ma la realtà economica gli gioca contro. Dopo un anno di governo laburista, il Regno Unito mostra segni di cedimento più profondi rispetto alla Francia, già definita “malata d’Europa”. L’economia britannica arranca, minata da deficit pubblici elevati, inflazione persistente e tassi d’interesse in crescita.
La Banca d’Inghilterra si trova stretta tra due fuochi: contenere l’aumento dei prezzi, senza far esplodere il costo del debito. Il rendimento dei titoli decennali ha toccato il 4,7%, un punto sopra la Francia, mentre il deficit si aggira intorno al 5% del Pil. Il conto corrente, in rosso di oltre il 3%, mostra una struttura produttiva che non regge la competizione internazionale. In più, la Brexit ha aggravato la crisi commerciale, isolando il Regno Unito e riducendo gli scambi con l’Unione Europea.
La crescita stagnante e il costo della vita in aumento hanno generato un malessere diffuso. Le promesse del Labour di “ricostruire un Paese per tutti” si infrangono contro la dura realtà dei numeri. Anche il welfare, orgoglio del sistema britannico, scricchiola: i tagli alla spesa pubblica e la crisi delle pensioni rischiano di innescare una nuova stagione di proteste. Come in Francia, il tema della sostenibilità sociale diventa terreno minato per la politica.
Farage e il nuovo populismo britannico
Se a Parigi la crisi è istituzionale, a Londra è identitaria. Il Labour è attraversato da tensioni interne tra l’ala pragmatica di Starmer e quella progressista guidata da Lucy Powell. Quest’ultima chiede un ritorno alle origini socialiste del partito, denunciando la gestione “tecnica” del governo come distante dal popolo. Di fronte a questa divisione, si rafforza l’outsider Nigel Farage, il volto duro del populismo inglese.
Il suo partito, Reform UK, cresce a ritmi vertiginosi. Ha raccolto voti tra conservatori delusi, lavoratori impoveriti e anche ex elettori laburisti. È la risposta più radicale a un sistema politico percepito come incapace di risolvere la crisi. Nelle elezioni comunali ha raddoppiato i consensi, e i sondaggi lo danno in costante ascesa. Farage intercetta il disagio di chi teme il declino del Paese e propone una nuova forma di nazionalismo economico, anti-immigrazione e anti-europeista.
Persino The Guardian, simbolo del progressismo britannico, ha riconosciuto che la scomparsa dei Conservatori tradizionali rischierebbe di lasciare spazio a qualcosa di peggio. Un populismo “trumpista”, xenofobo e autoritario, che si nutre della paura sociale. L’ironia amara è che la Gran Bretagna, patria del parlamentarismo moderno, si ritrova oggi sospesa tra due crisi: quella economica e quella democratica.
Londra, come Parigi, rappresenta lo specchio di un’Europa in affanno, dove la crisi del welfare e la sfiducia verso le élite aprono varchi al populismo. In entrambi i casi, la ricetta della “stabilità” non funziona più. E nel Regno Unito, il laboratorio politico post-Brexit, il rischio di un nuovo ciclo di radicalizzazione è ormai tutt’altro che remoto.
