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Non lo zampino ma proprio una zampata dell’economia di guerra c’è tutta, tutta quanta nella esiguissima manovra di bilancio del governo Meloni. Svettano sopra le altre cifre quelle destinate a rimpinguare le casse degli armamenti, della cosiddetta “difesa” (che è spesso e volentieri invece una “offesa“) in un vincolo detto e non detto con il trumpismo che esige, al pari del segretariato della NATO stessa, che le casse dell’Alleanza Atlantica siano implementate con un 5% delle risorse del Prodotto Interno Lordo di ogni Stato membro.
Meloni e Giorgetti si sono pedissequamente adeguati, obliterando qualunque possibile riferimento al tanto esaltato patriottismo dei comizi elettorali. Tutto dimenticato o, per meglio dire, accantonato nel nome di un insano pragmatismo di giornata che oggi, al pari però di ieri, detta nell’agenda dell’esecutivo la voce del rinforzo delle spese belliche: le guerre ci sono, l’Ucraina «va tenuta in vita». Così ha sentenziato il ministro dell’economia e così si fa. La contropartita leghista sul fronte impropriamente sociale, sarebbe la rottamazione delle cartelle esattoriali per sedici milioni di italiani – gigioneggia Salvini in conferenza stampa – che hanno presentato le dichiarazioni dei redditi ma non sono riusciti a pagare.
La spalmature dei debiti sarà fatta in un tempo piuttosto lungo, con un rateo altrettanto tale e che farà pagare i capitali a chi di dovuto in una decina d’anni. Mentre le banche decideranno di loro iniziativa se aderire o meno ad una proposta di autotassazione (in pratica gli extraprofitti rimarranno intonsi, intoccabili, difesi da qualunque ipotesi di prelievo fiscale definito altrimenti da Tajani come una sorta di misura “sovietica“). Dal taglio dell’IRPEF (dal 35 al 33% per i redditi fino a cinquantamila euro) si ricaverà molto poco per le tasche dei contribuenti e una bazzecola per quanto concerne la supposta rimessa in circolazione di flussi di denaro capaci di dare adito a nuovi virtuosismi strutturali.
Sui salari bassissimi, i più bassi d’Europa, il governo cincischia, finge di trasecolare e di non tenere conto del fatto che, in un più complesso e articolato sistema economico continentale, nell’era del concorrenzialissimo multipolarismo, le delocalizzazioni tornano ad essere uno strumento di ricatto davvero imponente per aziende che non si fanno scrupolo di licenziare decine di migliaia di lavoratori e spostare le produzioni là dove la forza-lavoro costa enormemente meno rispetto all’Italia. Il problema che si dovrebbe affrontare una volta per tutte, e che questo governo non vuole affrontare in quanto governo dei ricchissimi, è la diseguaglianza dei redditi da lavoro.
Le più moderne ricerche e studi dimostrano – come ha notato acutamente Thomas Piketty – che il salario di un lavoratore è pari alla sua “produttività marginale“, quindi al contributo che questi dà al prodotto dell’impresa o dell’amministrazione per cui è impiegato. Se non si creano le condizioni favorevoli per uno sviluppo più armonico dei rapporti tra lavoro e capitale, non c’è speranza di tenuta concorrenziale né per quest’ultimo e tanto meno, si intende, per il lavoratore. Uno dei motivi per cui la diseguaglianza salariale è così aumentata si riscontra nelle mancate innovazioni e in una domanda di specializzazioni che non c’è.
Un aumento di questa domanda di lavoro porterebbe inevitabilmente, per legge se non altro di mercato, ad una espansione anche del monte salariale. Ma il governo Meloni naviga a vista e non vede minimamente, perché non intende vederlo, il legame che tiene insieme mondo delle imprese, mondo del lavoro, salute e scuola, infrastrutture e beni comuni. Senza un adeguato sistema educativo, senza una scuola pubblica su cui investire a tutto tondo per formare nuove generazioni di coscienze civili, civiche, sociali, pienamente inserite in un contesto di valorizzazione del valore comune di ogni esperienza di vita, è destinato a declinare un capitalismo che rimane terribilmente straccione.
Investire nella scuola della Repubblica piuttosto che negli armamenti sarebbe non solo logico, ma costituzionalmente corretto, eticamente giusto, se vogliamo anche utilitaristicamente comprensibile. Ma i liberali (liberisti) di oggi non fanno che aumentare a dismisura le opportunità per il privato che mettono al centro di una importanza quasi universale, relegando l’importanza della singolarità di ognuno, nel contesto ovviamente collettivo e sociale, a variabile sempre e soltanto dipendente prima dal mercato, oggi dall’economia di guerra.
Investire nella formazione e nelle competenze, compito della Repubblica, porterebbe, si intende a lungo termine, ad una spinta che aumenterebbe anche il tenore di vita del mondo del lavoro e, quindi, condurrebbe ad una sensibile riduzione delle diseguaglianze. Per ottenere tutto questo, però, il governo dovrebbe fare quello che – ripetiamocelo – è impossibile che faccia: attuare una politica contrattativa, ascoltando i sindacati, mettendo Confindustria e le altre associazioni padronali davanti al problema del dimagrimento dei diritti sociali, dei tenori di esistenza della maggioranza delle persone e della retrocessione conseguente in tutti gli ambiti che contribuiscono a formare la cosiddetta “ricchezza nazionale“.
Per arrivare ad una politica di compromesso tra socialità e profittualità si dovrebbe quanto meno avere un governo di sinistra che reggesse questo disequilibrio, attualmente totalmente a favore della seconda rispetto alla prima, e che quindi iniziasse ad invertire la rotta degli ultimi decenni: le premiazioni dei grandi capitali con scudi fiscali, tutele e prebende di ogni tipo, la loro difesa da qualunque ipotesi di tassazione fortemente progressiva, come veniva definita da Marx ed Engels ne “Il manifesto del Partito comunista” quasi due secoli fa.
Qui si inserisce tutta la grande, enorme questione della diseguaglianza dei patrimoni che non è un problema dell’oggi soltanto ma che affonda le sue radici storiche in una accumulazione capitalistica che si fa sempre più densa e ridotta nelle mani di pochissimi gruppi industriali. Se si torna indietro di almeno un secolo, si potrà osservare come in ogni società ad economia avanzata (quindi a regime compiuto di sfruttamento della forza lavoro) la metà più povera della popolazione non possiede veramente quasi nulla. Non si va mai al di sopra del 5% della complessiva ricchezza nazionale. Ma è una percentuale ottimistica.
Negli ultimi decenni siamo stati abituati ad osservare cifre molto più basse. Gli ultimi rilevamenti in questo senso ci dicono che l’1% degli italiani più ricchi possiede trentanove volte la ricchezza del 20% più povero. Scrive “Il Sole 24 Ore” al riguardo: «…il totale dei redditi in Italia ammonta a oltre 969 miliardi di euro: l’1% più ricco, cioè i 429.927 contribuenti che dichiarano più di 120mila euro, detengono quasi 97,7 miliardi di euro, cioè il 10,1% della ricchezza» [da “La ricchezza degli italiani raccontata con mappe e grafici“, 25 luglio 2024].
Quello che sovente viene definito come “ceto medio” si è tanto più allargato quanto si è anche distinto in diverse linee di condotta del tenore di vita: Piketty la definisce “classe media patrimoniale” e ne accerta l’aumento del valore propriamente economico, strutturale, nel contesto nazionale (e non solo) di ogni paese occidentale; ma sottolinea anche che la precarietà di questa condizione è data da un contesto globale le cui sorti sono affidate ad una riforma seria della distribuzione della ricchezza. Altrimenti il capitalismo per come lo conosciamo oggi è destinato a non reggere la sfida con una natura che gli presenterà molto presto il conto.
Un conto che, va da sé, i capitalisti e i governanti al loro servizio (proprio come Meloni) faranno pagare in larga misura alla parte più povera della popolazione. Si tratterebbe quindi di un inasprimento di misure iperliberiste che si sono susseguite nelle ultime tre manovre finanziarie e che sono confermate, nell’impianto generale, anche in questa quarta legge di bilancio del governo delle destre-destre. Non di più, ma neppure non di meno rispetto alle precedenti manovre, quella appena presentata dall’esecutivo è una impostazione tutta interna al programma di austerità europeo che prevede quindi una crescita vicina allo zero.
Del resto si tratta di uno scenario già noto a noi italiani: questa crescita – di cui si è parlato in un precedente articolo – è poco sopra lo zero appena citato per quanto concerne l’economia nazionale, con una inflazione che retrocede di poco e che permette alla Presidente del Consiglio di osare affermare che i salari, tutto sommato, stanno tenendo… Non c’è bisogno di scomodare le analisi su scala mondiale per rilevare come il capitalismo si sia, secolo dopo secolo, andato consolidando come un sistema che aumenta sempre più le diseguaglianze, rapinando tutto quello che trova nell’ambito naturale, depredando e non ponendo nessuna base di riconversione e di restituzione per ciò che prende.
La ripresa economica o avviene dal basso, dalle grandi masse di persone che restano oggi nell’indigenza più nera (sei milioni di famiglie sono al di sotto della soglia di povertà…), oppure ogni intervento per limitare l’aumento di questa carestia salariale e pensionistica risulterà per quello che, in effetti, veramente è: una miserevole elemosina. Su uno stipendio medio di milleseicento euro mensili l’aumento sarebbe di appena quindici euro… Il punto più doloroso qui è la retrodatazione dell’inflazione che, nel corso degli ultimi semestri, si è divorata ben oltre quello che il governo pensa di favorire al mondo del lavoro con gli sgravi fiscali declamati in conferenza stampa a Palazzo Chigi.
Non c’è, nella realtà cruda dei numeri, nessun recupero del potere di acquisto e, quindi, non c’è di conseguenza nessun fronteggiamento dell’aumento del costo del “paniere della spesa“. Sintetizziamo: i salari sono fermi, il costo della vita aumenta e i profitti salgono alle stelle. In uno scenario di tale fatta non è difficile prevedere un disastro sociale di breve-medio termine. Gli imprenditori non subiranno rovesci di vera e propria fortuna: dal prossimo anno avranno a disposizione quattro miliardi di euro pubblici per agevolazioni produttive. Il che significa che potranno anche permettersi di eludere le questioni della sicurezza nei cantieri e nelle fabbriche e di non innovare in tecnologia.
La crisi economica si farà sentire per la maggior parte dell’impatto sulle maestranze, sui lavoratori e le lavoratrici, e si riverbererà sulle loro famiglie, sul mondo delle pensioni. Mentre questi scenari foschi si prospettano all’orizzonte, il governo attende l’uscita dell’Italia dalla procedura di infrazione europea per il nostro eccessivo debito: così potrà chiedere quindici miliardi di euro da destinare… No, non alla sanità, alla scuola o alle infrastrutture… Non ai più deboli e fragili della società. No… Li destinerà al riarmo. E tutto torna.
MARCO SFERINI
