Andromaca non amava il potere. Certo era consapevole di essere la figlia di un re e le era stato insegnato, fin da quando era bambina, che un giorno sarebbe stata la sposa di un re e poi la madre di un re. Andromaca non era una ribelle, aveva sempre fatto quello che suo padre le aveva detto di fare e allo stesso modo avrebbe fatto quello che il suo sposo le avrebbe detto di fare; perché pensava che fosse giusto così, perché credeva che quello fosse l’ordine delle cose, perché sua madre le aveva detto di fare così. Non le pesava essere una sposa, ma non avrebbe voluto essere una regina.
E fu per questo che amò immediatamente quel giovane che suo padre Eezione e Priamo avevano deciso che diventasse suo marito, perché aveva capito che anche lui non voleva essere re. Lo sarebbe diventato, era quello il suo destino, ma non era quello che Ettore davvero voleva.
La principessa Andromaca non amava il potere. E per questo lei ed Ecuba non riuscirono mai a capirsi, a parlarsi, perché la regina di Troia era una donna che amava il potere, che voleva esercitarlo. E lo sapeva fare. E pensava anche che quella donna della Cilicia avesse una cattiva influenza su suo figlio. Andromaca invece voleva bene a quella giovane ragazza di Sparta che Paride aveva portato a corte e fatto diventare sua sposa. Le altre donne di Troia la evitavano, parlavano male di lei, ma Andromaca sapeva bene che non era certo a causa sua se era scoppiata quella guerra che sarebbe durata tanto a lungo. Era colpa degli uomini che volevano sempre più potere, e le ricchezze che passavano dallo stretto. Andromaca sentiva che Elena in fondo era come lei, era forse un po’ sciocca, un po’ troppo presa dalla propria bellezza, ma erano difetti di gioventù: la sposa di Ettore sapeva che alla fine anche la figlia di Leda avrebbe capito.
Più il tempo passava, più la guerra andava avanti, sempre uguale a se stessa, più Andromaca si rendeva conto che non detestava tanto il potere quanto il modo  in cui i maschi lo esercitavano. Pensava alla spose rimaste nelle città greche, si chiedeva se fossero come lei oppure come Ecuba, se volevano quella guerra o la subivano. E si immaginava che Astianatte potesse crescere in un mondo diverso da quello in cui era cresciuto suo padre e suo nonno prima di lui. In un mondo in cui magari non ci fosse neppure il bisogno che lui diventasse un re, un mondo senza re. Pensava che questa cosa di diventare re era proprio una cosa da maschi. Come la guerra.
Andromaca era esausta della guerra. Guardava suo figlio, guardava le bambine e i bambini di Troia e pensava che era terribile che crescessero in mezzo a un conflitto, e che quella guerra era pericolosa non perché potevano morire ogni giorno, ma perché correvano il rischio di sopravvivere. Con la guerra in testa, imparando che al mondo ci poteva essere solo la guerra. Nel mondo che costruivano i maschi.
Alla notizia della morte di Ettore provò un dolore indicibile, eppure anche un senso di sollievo, anch’esso indicibile. Se ne vergognava, aveva perfino paura di questo pensiero: ma la morte di Ettore era il segno che la guerra stava per finire. Pianse per quello sposo che aveva amato così intensamente, ma pensò anche che si fosse sacrificato, per Astianatte, per i figli dei troiani e anche per quelli dei greci.
Quando osservò il grande cavallo di legno entrare solennemente in città, sapeva che Cassandra aveva ragione – Cassandra aveva sempre ragione, ma nonostante questo, le voleva bene, perché era una donna così fragile. Sapeva che la guerra stava finalmente per finire. Andromaca sapeva anche che non poteva salvare Astianatte, perché, nella logica dei greci che stavano per vincere, la stirpe di Ilo doveva scomparire: un’altra cosa tipica del potere dei maschi.
Alla figlia di Eezione parve naturale che nella divisione del bottino di guerra lei toccasse a Neottolemo. Suo padre aveva ucciso Ettore e lui stesso aveva ucciso Astianatte: di chi altro poteva diventare concubina. C’era qualcosa di selvaggio in quel ragazzo, ma anche qualcosa di puro. Andromaca non riusciva ad odiarlo. Anzi provava per lui un’inaspettata tenerezza quando Neottolemo giaceva con lei: era strano, perché sarebbe potuto essere suo figlio, in fondo lo era, perché anche per lui Ettore si era sacrificato. Sapeva che non poteva essere la sua sposa, ma amò i loro figli, come aveva amato Astianatte.
Andromaca soffrì molto quando Ermione cercò di ucciderla. Non perché avesse paura di morire, anzi la vita per lei si stava facendo sempre più faticosa. Soffriva della sua sconfitta: perché Ermione era la figlia della sua cara Elena, perché vedeva in lei, ancora un volta, prevalere il potere dei maschi. La giovane Ermione, che poteva essere sua figlia, pensava come un maschio: il sacrificio di Ettore era stato inutile, avevano vinto loro.

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Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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