- di Ernest Everhard
Sulla costruzione delle paure. Invece del dito del centro d’accoglienza dietro casa, guardate la luna del disastro ambientale che arriva.
Come al solito consigliato da un valido consulente di romanzi e racconti, mi è finito tra le mani Qualcosa là fuori di Bruno Arpaia (Guanda). Purtroppo non ho dato retta alla mia compagna che mi aveva messo in guardia addentrandosi nella storia: “Mette troppa angoscia, non si può leggere mentre si sta mettendo al mondo un figlio”. La trama in due parole: il mondo che conosciamo non esiste più, i cambiamenti climatici rendono la vita dell’uomo per lo più impossibile sulla gran parte del pianeta, i fortunati che vivono in zone ancora abitabili sono rinchiusi dentro i loro fortini mentre i sopravvissuti tentano la fortuna e si giocano tutto quello che hanno per raggiungere (in questo caso) la Scandinavia, affrontano privazioni e violenze di ogni tipo, nonostante il successo e la meta finale rimangano quanto mai incerti (vi ricorda nulla). Il guaio è che non è tutta fiction. Il libro di Arpaia è ben documentato: cita rapporti, modelli e calcoli dei più autorevoli gruppi di ricerca in materia.
Segni premonitori
Terminata la lettura, ho cominciato a leggere ovunque i segni premonitori della catastrofe imminente, o meglio dell’apocalisse che è già iniziata, perché il punto di non ritorno è un crinale che si supera in sordina, nessuno sa con esattezza in che momento accadrà o è già accaduto. Lo scorso mese nella zona di ‘Larsen C’ in Antartide, si è aperta un crepa profondissima lungo una lastra di ghiaccio grande all’incirca come il Lazio e seimila metri quadri hanno cominciato ad andarsene a spasso e sono destinati a sciogliersi presto o tardi, andando a contribuire all’innalzamento del livello dei mari. A Roma è arrivata con la siccità la crisi idrica: il lago di Bracciano ha rischiato di scomparire. Colpa senza dubbio delle tubature colabrodo e di una società per azioni più interessata all’aumento dei dividendi che alla tutela dei cittadini e dell’ambiente. Per un soffio, l’acqua non è stata razionata nella capitale: merito non certo delle piogge – di questa neanche l’ombra – né di tempestivi provvedimenti. Semplicemente i prelievi dal lago sono stati autorizzati, anche se in forma contingentata, per un altro mese. È poi arrivato Lucifero (quando e chi ha iniziato a dare i nomi a questi benedetti anticicloni africani!) e gli incendi, una canicola lunga dieci giorni attorno ai 40 gradi. Un caldo boia.
Dove vanno i ‘bicchierini’ della macchina del caffè?
Invece di ignorare il problema (senza dubbio troppo enorme per trovare la soluzione sui mezzi pubblici tra casa e ufficio e viceversa), ho iniziato a sviluppare delle idiosincrasie. Se prima facevo la raccolta differenziata alla ‘come viene viene’, sono arrivato a chiedermi cosa farne dei ‘bicchierini’ della macchinetta del caffè che ci hanno appena regalato per la casa nuova, in attesa di sbarazzarmene perché il caffè della moka è più buono. Per non buttarli nell’indifferenziato li apro, rovescio la polvere bagnata nell’umido, li pulisco e poi li metto nella plastica. Lo fate tutti e l’incivile sono io? Ho indagato la confezione del succo di frutta che recava la scritta “differenziare a seconda delle indicazioni del Comune di residenza”. Stupendomi di ciò che accadeva ho cercato sul sito di Roma Capitale in quale sacchetto dovessi infilare il tetra-pak. Per dovere di cronaca: va nella carta.
Cambiare il sistema non il clima
Ovviamente sono perfettamente consapevole del disastro del ciclo dei rifiuti romano e della sostanziale inutilità dei miei sforzi. Come sono perfettamente consapevole che il fatto che i comportamenti individuali, anche quando sono sommati a milioni, non cambiano le cose. Per cambiarle serve ovviamente andare all’origine del problema: il capitalismo. “Cambiare il sistema non il clima”, con questo slogan abbiamo manifestato a Copenaghen durante il vertice Cop-16. Dal canto mio per una settimana, oltre a bestemmiare le pappete vegane gentilmente fornite dall’organizzazione e bere birre, ero guidato più dalla speranza di scontri con la polizia (di cui nemmeno l’ombra, se escludiamo la surreale scelta di mettere a ferro e fuoco Christiania) che da un ecologismo sociale e radicale. Serve dunque fare la rivoluzione. Eppure non voglio rinunciare alle mie nuove abitudini, per non consegnare all’innocuo ecologismo dei soli che ridono e della borghesia da supermercati bio, l’impellente necessità di mandare in soffitta il consumismo e soprattutto la smania di produrre merci (e bisogni) inutili per produrre ricchezza.
Dovreste avere paura di tutto ciò, non di un centro d’accoglienza
Mi sono scoperto, prima di andare a dormire, a cercare report sulle previsioni di cambiamento climatico e dell’innalzamento delle acque. Sono impaurito dalle conseguenze materiali, qui e ora, non chissà quando. Così mi chiedo come sia possibile che non ci siano predicatori per strada che vaticinano l’apocalisse, perché non fioriscono movimenti millenaristi e gruppi di ecoterroristi, mentre chi mi circonda ha paura di un centro d’accoglienza dietro casa e di qualche decina di migliaia di migranti che attraversano il Mediterraneo. Com’è possibile che c’è qualche cretino che vuole difendere l’identità italiana e si sbrodola addosso su sostituzione etnica e altre panzane simili. E cosa c’è di più italiano del cibo, del Made in Italy? Eppure rischiamo che nell’arco di qualche decina di anni un intero patrimonio di cultura materiale si perda assieme ai cambiamenti climatici. Non vi fa paura tutto questo? Davvero vi fate mettere il tarlo nell’orecchio degli immigrati dagli imbonitori di odio, quando la pianura Padana è lì lì per finire sott’acqua? La paura è una cosa concreta, un sentimento che produce conseguenze sulle nostre vite, produce politiche e norme. Ma com’è possibile che non avete paura dei cambiamenti climatici? Perché io ne ho. Eccome.