Processo Cucchi alla prima udienza. I difensori dei carabinieri imputati per l’omicidio chiedono l’audizione di 271 testimoni per mandare in prescrizione i reati meno gravi

di Checchino Antonini

Processo Cucchi finalmente al via in Corte d’Assise e riviato all’11 gennaio per sentire i testi citati dal Pm. Il giudice su richiesta del Pm ha disposto la trascrizione delle intercettazioni e ha fissato la prossima udienza riservandosi di decidere sulle liste di testi della difesa.
Perché da quelle liste sembra che la linea scelta dai legali dei cinque carabinieri, imputati a vario titolo, sia quella della melina, citando decine e decine di testimoni, quasi a «palleggiare in dibattimento», così spiega uno degli attivisti di Acad presenti in aula, fino a riuscire a mandare in prescrizione i reati meno gravi. Ogni legale dei carabinieri ha richiesto oltre duecento testi forse per prepararsi a combattere uno contro l’altro sul reato più grave – l’omicidio preterintenzionale – che qualcuno si vedrà accollare. Per ora i giornalisti sono stati ammessi ma ciascuno dei difensori s’è scagliato contro il presunto linciaggio mediatico a cui sarebbero sottoposti i militari imputati solo otto anni dopo i fatti. Un vittimismo che non ha pezze d’appoggio visto che l’Arma fu sottratta allo sguardo degli inquirenti, prima da un proclama perentorio dell’allora ministro della difesa, il postfascista La Russa, poi da un’indagine che provò a declassificare questa faccenda macabra di “malapolizia” a semplice fatto di “malasanità”. Solo dopo molti anni, alla fine del 2015, venne fuori che un violentissimo pestaggio toccò a Stefano Cucchi già nella notte dell’arresto da parte di alcuni carabinieri del comando della stazione Appio che spuntò solo sei anni dopo nella ricostruzione dell’omicidio.

Solo nel luglio scorso fu certo che la vicenda sarebbe tornata in Corte d’assise la vicenda della morte di Stefano Cucchi, il geometra romano che nell’ottobre 2009 morì in ospedale una settimana dopo il suo arresto per droga. Settimana di calvario, secondo l’accusa, iniziata nell’opacità di una guardina dei carabinieri, dettagli di una notte spariti dagli atti per anni, finché la polizia giudiziaria non ha raccolto le testimonianze di due carabinieri e intercettato le confidenze di altri militari coinvolti e da oggi imputati. Il gup capitolino, Cinzia Parasporo ha disposto un nuovo processo nei confronti di alcuni membri dell’Arma che arrestarono Cucchi e che, per l’accusa, sarebbero i responsabili di un ‘pestaggio’ che il giovane avrebbe subito. Ci fosse una legge decente si potrebbe definire tortura ma le malizie bipartizan hanno annacquato un testo già ambiguo proprio poche ore prima della decisione del gup. Otto anni saranno passati dalla morte quando nell’aula bunker di Rebibbia rientreranno i familiari di Cucchi. In cerca di frammenti di verità e pezzetti di giustizia.

Con un documento di 50 pagine, la Procura aveva chiesto alla fine del 2015 la riapertura del caso, con un incidente probatorio, con un documento di 50 pagine per ricostruire tutti i fatti che hanno preceduto la morte di Cucchi, avvenuta il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, «dopo aver subito nella notte tra il 15 e 16 ottobre un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». Riemergeva con forza quello che era parso subito chiaro dalle primissime ricostruzioni e dalle evidenti contraddizioni dei carabinieri durante la prima inchiesta. Ma all’epoca, con un proclama perentorio, parve a tutti che il ministro della Difesa La Russa fosse intervenuto a gamba tesa per tenere lontana l’Arma da un’inchiesta

Imputati per il pestaggio di Cucchi i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco indagati per lesioni aggravate e, per falsa testimonianza altri due carabinieri Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini.

Nella ricostruzione dell’accaduto e soprattutto sulle lesioni subite da Stefano Cucchi nelle carte si scrive che a pestarlo furono i carabinieri D’Alessandro, Di Bernardo e Tedesco. Il pestaggio avvenne in un arco temporale certamente successivo alla perquisizione domiciliare eseguita nell’abitazione dei genitori dello stesso Cucchi, un pestaggio che «fu originato da una condotta di resistenza posta in essere dall’arrestato al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia Carabinieri Roma Casilina». Qui subito dopo la perquisizione domiciliare si legge nel documento Cucchi era stato portato. Secondo la ricostruzione fatta dal magistrato una volta nella caserma Casilina «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». In particolare nella ricostruzione decisa dai carabinieri «non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo nella fase dell’arresto di Stefano Cucchi. Il nominato dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell’arresto e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi».

Nel documento della Procura si sottolinea poi che «fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento». Poi si aggiunge che nel verbale di arresto non si diede atto del mancato fotosegnalamento e che Stefano Cucchi «non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale perpetrato nei locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina, nè fu denunciato per tale delitto. Omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l’attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia». Secondo il pubblico ministero fu taciuto agli altri carabinieri che avevano partecipato all’arresto di Cucchi.

Quei carabinieri sapevano di essere intercettati e «valutavano e suggerivano varie modalità per eludere operazioni tecniche in corso», si legge nell’informativa della Squadra mobile di Roma, finita nel fascicolo del gip che fissò l’incidente probatorio.

Due le modalità “suggerite” da alcuni degli indagati per eludere le intercettazioni alle quali temevano di essere sottoposti: l’utilizzo di “telefoni citofono” con utenze intestate a terzi estranei, e l’utilizzo dell’applicazione di messaggistica istantanea ‘Telegraf’ che consente di autocancellare i messaggi dopo l’invio. Nelle carte del fascicolo (si tratta di circa 3000 pagine), tante sono le intercettazioni trascritte degli indagati nell’inchiesta bis (si tratta di tre carabinieri indagati per lesioni aggravate e due carabinieri indagati per falsa testimonianza). Cucchi «non c’aveva niente? solo che non si drogava, non mangiava e non beveva il cuore si è fermato. Fratello, è questa la realtà». Così Roberto Mandolini, uno degli indagati. «’Sto ragazzo valeva un milione trecentoquarantamila euro che era un tossicodipendente? (alludendo al risarcimento pagato alla famiglia dal Pertini all’esito del primo processo. ndr)? Quando gente fa incidenti stradali… muoiono bambini che hanno una vita davanti che possono diventà scienziati e possono guadagnare molti soldi», dice invece Raffaele D’Alessandro, altro carabiniere.

Nello stesso dialogo intercettato, il carabiniere (che è uno dei due indagati per falsa testimonianza) parla con Raffaele D’Alessandro, indagato anche lui ma per lesioni aggravate. «Stava sotto dosaggio di antidolorifici… non lo so – dice – La diagnosi per la sua patologia non era nessuna assunzione di farmaci bensì solo riposo, quindi non c’aveva niente». E, confrontandosi con il collega sulle possibili cause di morte di Cucchi, «le perizie mediche dicono questo: che quella microlesione alla parte dietro, all’osso sacro, vista la sua magrezza può essere dovuta anche a una seduta forte». Una tesi, che viene anche spiegata dal carabiniere: «Cioè tu ti metti seduto fortemente no… e un caso su 55 milioni di casi ad un fisico così debilitato quella botta che può dare con la seduta quel picco di dolore può provocare un arresto cardiaco entro mezz’ora… lui è morto dopo una settimana».

Dalla lettura delle trascrizioni delle telefonate, c’è chi ipotizza un possibile movente del «violentissimo pestaggio». Un nuovo testimone, ascoltato per la prima volta dalla Procura di Roma nel novembre 2014 – Luigi L. di 46 anni, considerato attendibile dagli inquirenti, un ex detenuto che incontrò Cucchi nell’infermeria di Regina Coeli all’indomani dell’arresto racconta che era detenuto nella cella numero 3 al reparto Medicina dove vide passare Stefano «con la “zampogna” (gli effetti forniti dal Dap): bacinella, coperta, spazzolino ecc…). «Ricordo che si fermò davanti alla guardiola e io, quando lo vidi, immediatamente gli chiesi: “Chi ti ha ridotto così?”. Cucchi alzò gli occhi al cielo e non mi rispose; forse ebbe paura a rispondere davanti all’agente della polizia penitenziaria, ma ritengo che fosse una paura infondata. Aveva il viso tumefatto… era evidente che era stato picchiato. Aveva tutto il viso gonfio, anche all’altezza del naso. In passato ho visto tante persone picchiate, ma non avevo mai visto nulla del genere». Il giorno appresso, Luigi avrebbe rivisto Stefano: «Ricordo che non riusciva quasi a parlare, né a prendere il caffè, per come era ridotto. Aveva un forte dolore all’altezza della guancia destra… Aveva dolori dappertutto. Io in passato ho avuto diversi problemi con la polizia penitenziaria, per cui dissi al Cucchi che se era stata la Penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni noi avremmo fatto un casino… Cucchi mi rispose che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma da cui era transitato nella notte dell’arresto. Aggiunse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla. Quando mi disse di essere già comparso davanti a un giudice, io gli chiesi la ragione per la quale non avesse denunciato in aula quanto accaduto, ma lui rispose che non l’aveva fatto perché dopo l’udienza sarebbe stato preso in carico nuovamente dai carabinieri che lo avevano arrestato, i quali, se avesse denunciato, lo avrebbero picchiato di nuovo. Chiesi a Cucchi quale fosse stata la ragione di un pestaggio così violento e lui rispose: “Perché, non lo sai? E che dovevo fare, tu l’avresti fatto?”. A quel punto compresi cosa intendeva dire e gli chiesi se gli avessero proposto di fare la fonte confidenziale (la “spia”) e lui aveva rifiutato; il Cucchi mi fece intendere che le cose erano andate così e rispose: “Più o meno è andata come dici tu”. A quel punto gli feci i complimenti e gli dissi: “Per me sei stato un grande”». Quando Stefano si tolse la maglietta restò impressionato, «sembrava una melanzana. In particolare faceva impressione la colonna vertebrale, che era di tanti colori (giallo, rosso, verde); aveva ecchimosi dappertutto».

Nell’informativa allegata alla richiesta di incidente probatorio, firmata dal capo della squadra mobile Luigi Silipo – Luigi L. «faceva riferimento a una circostanza che, nel momento in cui rendeva la dichiarazione, era ignota: il fatto che Cucchi avrebbe avuto un contatto diretto con due carabinieri in borghese». Un dettaglio svelato solo dalle nuove indagini; i due in borghese non comparivano nemmeno nei verbali d’arresto, non erano stati interrogati durante la prima inchiesta né al processo, e ora sono fra i nuovi indagati.

Il maresciallo Roberto Mandolini – all’epoca dei fatti comandante della stazione dei carabinieri Roma Appia, ora indagato per falsa testimonianza – rivela a una sua interlocutrice che Cucchi in altre occasioni era stato collaborativo con i carabinieri: «Perché qualche nome gliel’ha fatto, e gli ha fatto fare altri arresti». Un particolare che Mandolini non riferì al processo, come tacque sui altri dettagli che gli avrebbe riferito lo stesso Cucchi; per esempio i presunti cattivi rapporti tra Stefano, i genitori e la sorella «che da due anni non gli faceva vedere i nipotini». Ma chi è la misteriosa interlocutrice? Una delle possibilità è che Mandolini, sapendo di essere intercettato, può aver tentato di screditare la figura del detenuto morto. Anche perché Stefano, nel periodo immediatamente precedente all’arresto fatale, era stato a lungo in comunità e da lì non era facile fare la spia.

 

 

 

Processo Cucchi, i carabinieri fanno melina

 

 

 

 

 

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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