L’ideologia dominante, funzionale agli interessi della classe dirigente, tende a definire la nostra epoca con il termine globalizzazione, per sviare l’attenzione dalla analisi scientifica e materialista che interpreta la storia dal punto di vista delle lotte di classe. In effetti, con il termine globalizzazione, si tende a occultare lo scambio ineguale e il neocolonialismo che caratterizzano l’affermazione – dopo la fine della guerra fredda – del mercato mondiale, per altro sempre più messo in discussione dalla crisi strutturale dei paesi a capitalismo avanzato. Così, in quest’epoca di mondializzazione sotto l’egida del tardo capitalismo – giunto nella sua fase di sviluppo imperialista – si mira a regolare tale processo mediante l’affermazione del diritto internazionale. Tale diritto necessita d’un fondamento per superare relazioni basate su meri rapporti di forza fra Stati-nazione. Esso è generalmente rinvenuto in un evento ritenuto fondativo non solamente del processo di globalizzazione, ma dell’intera epoca moderna e contemporanea: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Perciò la questione dei diritti umani, della loro salvaguardia ed estensione, ha assunto un’indubbia centralità nel dibattito politico e filosofico contemporaneo, al punto che il pensiero politico oggi dominante tende a considerare i diritti umani il fondamento necessario della convivenza pacifica fra uomini e popoli. La questione della loro salvaguardia sarebbe, dunque, indissolubilmente connessa alla difesa della dignità stessa dell’essere umano. Così l’affermazione di tali diritti viene ritenuta indispensabile non solo per il moderno occidente, ma per ogni società. In altri termini, essi vengono considerati validi per qualsivoglia formazione sociale, al punto da essere utilizzati come misura dello sviluppo di ogni società storica, sino ad ammettere un diritto-dovere d’intervento, anche armato, della comunità internazionale o, in mancanza di ciò, del mondo occidentale verso i paesi che non li tutelino o rispettino. D’altra parte, la stessa definizione di cosa siano oggi, a livello globale, i diritti imprescrittibili dell’uomo e del cittadino risulta quanto meno problematica. Per quanto concerne il loro contenuto appare arduo istituirne un principio unitario condiviso. In effetti tanto più tale fondamento unitario viene determinato, quanto più appare partigiano, difficilmente riconoscibile dalle diverse civiltà del nostro mondo. D’altro canto, quanto più resta formale, tanto più finisce per sussumere acriticamente l’esistente, ovvero i rapporti di forza fra le differenti nazioni e civiltà. Né pare risolutivo aggirare la problematica del fondamento stilando un mero catalogo di diritti. In tal caso, o si ricade nella difficoltà d’assumere una misura esteriore atta a sancire quale diritto debba esser incluso in tale canone, o si soggiace alla cattiva empiria dei rapporti di forza fra Stati e civiltà, perdendo la possibilità di regolarne i conflitti sulla base d’un fondamento comune. Tanto più che la stessa onnipresenza nel pensiero politico contemporaneo dell’appello ai diritti umani, della tendenza a giudicare e nel caso condannare le più diverse situazioni in loro nome – persino da prospettive opposte – è tale da diluire quando non svalutare la portata semantica del lemma [1]. In altri termini, oggi l’appello ai diritti umani è tanto ampio e variegato da farlo apparire funzionale ai più diversi progetti politici, creando un certo imbarazzo alle persone più avvertite che intendono gioovarsene. Ad esempio, la mondializzazione, ovvero l’affermazione del mercato mondiale da parte del tardo capitalismo è giustificata dai suoi apologeti adducendo la progressiva affermazione, se non la violenta esportazione, dei diritti umani in tutto il mondo, mentre i suoi critici le contestano d’affermarsi, in tal modo, in palese violazione di quelli stessi diritti. Tanto più che governi espressione delle più disparate classi sociali, dai regimi dispotici, come le petromonarchie del golfo, ai regimi borghesi – da Israele alla Turchia, alla Russia, all’Ucraina, agli stessi Stati Uniti – ai paesi che si definiscono socialisti – quali Cuba, Venezuela, Vietnam, la Repubblica democratica popolare di Corea e la Cina – sono sotto attacco, da parte di oppositori esterni ed interni con l’infamante accusa di non rispettare i diritti umani. L’onnipresenza del sintagma “Diritti umani”, con la sua presunta capacità taumaturgica di risolvere tutte le problematiche contraddizioni della società contemporanea, è tale da farlo apparire svalutato e poco efficace. Proprio in quanto sembra dato un po’ da tutti per scontato, non appare più problematico, tanto da non disturbare più nessuno. Anzi come tutte le cose note finisce per non essere, come già notava Hegel, realmente conosciuto. L’inflazione del termine nel discorso pubblico porta, quindi, a una perdita di senso, a un uso ideologico e acritico che ha quale risultato – più o meno consapevole – di farne smarrire il concetto, di renderlo un universale astratto incapace di dar conto del determinato, della concreta realtà. Infine, la stessa critica, per quanto minoritaria, alla retorica dei diritti umani proviene dagli estremi opposti dello schieramento politico e, nonostante i punti in comune, è di segno radicalmente opposto tanto che – per citare uno solo emblematico esempio – la massima di Pierre-Joseph Proudhon: “chi dice ‘umanità’ cerca di ingannarti” è stata fatta propria da un grande pensatore e uomo politico reazionario come Carl Schmitt, con un fine diametralmente opposto. Egualmente complessa appare la questione della realizzazione pratica del loro concetto. I diritti umani sono il presupposto della convivenza civile fra gli uomini e le nazioni o il prodotto dell’autonomo sviluppo storico-politico dei differenti Stati e delle differenti civiltà? Quanto è lecito intervenire per ridurre a tale universale astratto le differenti determinazioni storiche e nazionali restie a riconoscervisi? Del resto, le crescenti difficoltà pratiche nella soluzione di tali problemi rischiano di svalutare i diritti umani sino a farli apparire un mero dover essere incapace d’incidere sul reale, o peggio la veste ideologica che assumono i rapporti di forza fra gli stati, la cattiva universalità dietro cui si cela il dominio dell’occidente liberale. Pertanto, l’analisi del concetto dei diritti umani ha senso unicamente in una prospettiva critica, dal momento che le difficoltà pratiche sono manifestazione fenomenica di carenze di ordine concettuale. Vi è evidentemente una difficoltà di definizione, tanto concettuale, quanto semantica. Proprio perciò, come abbiamo osservato, il loro richiamo è divenuto tanto comune e indifferenziato da apparire funzionale ai più diversi progetti politici, persino antitetici fra loro. La globalizzazione, ad esempio, è osannata dai suoi sostenitori in quanto favorirebbe la progressiva affermazione o, altrimenti, l’esportazione – più o meno coercitiva – dei diritti umani in tutto l’orbe terracqueo. Tuttavia gli stessi movimenti contrari a tali aggressioni, sia rivoluzionari che reazionari, tendono sempre più stesso a fondare la loro opposizione contestando al mondo imperialista o occidentale di imporsi a livello internazionale proprio in palese violazione dei più basilari diritti umani. Più nello specifico, in particolare dopo la fine della guerra fredda, i diritti umani sono stati utilizzati come foglia di fico dai paesi imperialisti per giustificare la loro politica d’aggressione globale a ogni forma di opposizione. Così le nuove aggressioni e occupazioni imperialistiche, post guerra fredda, contro Panama, l’Iraq, la Jugoslavia, l’Afghanistan, la Libia, la Siria o i rovesciamenti, più o meno pilotati dall’esterno, di governi non in linea con l’imperialismo, dalla Serbia, allo Zimbabwe, alla Costa d’Avorio, dalla Georgia, al Honduras, dal Paraguay, al Brasile, all’Ucraina, etc. come le guerre in preparazione contro Iran, Cuba, Venezuela e RPDC, vengono giustificate, talvolta anche a sinistra, come “guerre umanitarie” necessarie per bloccare gravi violazioni dei diritti umani. Naturalmente tutto ciò non è affatto il risultato di un complotto, ma rivela qualcosa di ben più profondo, ovvero un processo di disaggregazione della coscienza di classe e della stessa memoria storica, prodotto da una serie di pesanti e ripetute sconfitte subite negli ultimi anni dalle forze che si sono battute contro l’imperialismo, per portare avanti la millenaria lotta per l’emancipazione del genere umano. A dimostrazione di ciò, un esempio emblematico è certamente la risoluzione 36/103 del 9 dicembre 1981 dell’Assemblea Generale dell’Onu, che dimostra come ancora qualche decennio fa prevalesse la consapevolezza, a livello internazionale della “inammissibilità dell’intervento e dell’ingerenza negli affari interni degli Stati”. In quest’ultima dichiarazione le nazioni unite, ad ampia maggioranza, avevano proclamato il “dovere degli Stati di astenersi da ogni campagna diffamatoria, denigrazione o propaganda ostile allo scopo di intervenire o ingerirsi negli affari interni di altri Stati” e di “astenersi dall’utilizzazione e distorsione di questioni attinenti ai diritti umani come mezzo di interferenza negli affari interni degli Stati, di esercitare pressione su altri Stati o di creare sfiducia e disordine entro o fra Stati o gruppi di Stati”. Possiamo, dunque, affermare in conclusione che le recenti guerre “umanitarie”, le “missioni militari di pace”, le sedicenti “rivoluzioni colorate” presuntamente necessarie per risolvere emergenze umanitarie, testimoniano al contrario la crescente strumentalizzazione dei diritti universali dell’uomo da parte delle forze che si battono per la dis-emancipazione del genere umano. Tuttavia, se non ci si vuole limitare alla critica dell’attuale uso sempre più strumentale dei diritti umani da parte delle potenze imperialiste – che rischia facilmente di scadere, nelle critiche da destra di sovranisti e reazionari, nel rifiuto, in nome del particolarismo, dei diritti universali in quanto tali – occorre sviluppare di questi ultimi una concezione alternativa, autonoma dalla prospettiva dell’ideologia dominante. A tale scopo c’è parso utile tornare a riflettere sulle considerazioni sui diritti universali del pensatore italiano che più s’è adoperato per contrapporre all’egemonia dei ceti dominanti la capacità di egemonia dei gruppi sociali subalterni: Antonio Gramsci. Pur non tematizzando la questione del mistificante uso ideologico dei diritti umani – ai suoi tempi non ancora così urgente come oggi – Gramsci ha, infatti, consegnato – in particolare ai Quaderni del carcere – significative riflessioni sui diritti universali: dalla libertà, all’eguaglianza, al diritto naturale.
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