di Gaetano De Monte

Dentro la piazza della protesta dei lavoratori metalmeccanici della multinazionale americana che stamattina hanno manifestato a Roma davanti alla sede del ministero dello sviluppo economico. Chiedendo che l’azienda rispetti l’accordo sul piano industriale siglato con i sindacati nel 2018, il quale prevedeva l’impegno di non ricorrere, fino alla fine del 2020, alla procedura di licenziamento collettivo. Ma alla fine di maggio Whirpool aveva annunciato la chiusura dello stabilimento di Napoli. Così da mesi cova la protesta tra gli operai napoletani. Ma sullo sfondo, ben occultata, in piazza c’è anche un’altra storia: la condizione dei lavoratori dell’indotto, del terziario della prestazione di servizi, in cui lavorano soprattutto donne e migranti, che hanno la paga e le garanzie della metà dei loro colleghi, uomini e operai.

«Siamo qui oggi per pretendere dal governo e da una multinazionale americana, semplicemente, il rispetto di un accordo». «Lavoro in questa fabbrica da 30 anni, se chiude non so dove andare a mangiare». È la voce, tra le tante, di un operaio dello stabilimento Whirlpool di Napoli che ha aperto il corteo che si è snodato stamattina, a Roma, da Piazza della Repubblica fino alla sede del Ministero dello Sviluppo economico, in via Veneto, dove si è svolto, successivamente, un incontro tra le rappresentanze sindacali di Cgil, Cisl e Uil e il neo-ministro Stefano Patuanelli.

Sono le ore 10 quando i mille e passa lavoratori e lavoratrici arrivati da ogni parte d’Italia, giunti da un po’ tutti gli stabilimenti della multinazionale americana, da Melano e Fabriano, in provincia di Ancona, dove si producono i piani cottura, alle province di Caserta, Napoli e Varese, dove si producono frigoriferi e lavatrici. Si dispongono gioiosi, rumorosi e decisi dietro lo striscione “Napoli non molla”. I cori da stadio si mescolano alle note di “Viva l’Italia” cantata da Francesco De Gregori, e a Bella Ciao mentre sfilano accanto agli operai (molti uomini) i segretari delle tre organizzazioni sindacali dell’industria metalmeccanica, Rocco Palombella, per la Uil, Francesca Re David per la Fiom, e, più defilato, Marco Bentivogli della Cisl.

A raggiungerli è anche Maurizio Landini, segretario generale della Cgil. Li ritroveremo insieme su un palco improvvisato alla fine del corteo. Dopo l’incontro avuto con il ministro, Francesca Re David prende il microfono e dice: «Lo sciopero di oggi delle lavoratrici e dei lavoratori di tutto il gruppo Whirlpool ha fermato la produzione in tutti gli stabilimenti. La manifestazione di oggi è stata molto importante sia nel rapporto con il governo che rispetto all’atteggiamento dell’azienda». «Il segno che la capacità di mobilitarsi con grande determinazione porta risultati», aggiunge Re David e poi annuncia: «Il ministro Patuanelli, ricevendoci al ministero dello Sviluppo economico, ci ha comunicato che le organizzazioni sindacali saranno convocate per un incontro il 9 ottobre dal premier Conte». I sindacati dopo la giornata di oggi appaiono fiduciosi, dunque, sul fatto che l’azienda possa tornare nella volontà di rispettare l’ultimo piano industriale sottoscritto al Ministero dello sviluppo economico il 25 ottobre del 2018; il quale prevedeva, oltre i 254 milioni di investimenti da parte del colosso multinazionale, con il mantenimento di tutti i siti produttivi e i relativi livelli occupazionali, la concessione fino al 2020 degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e contratti di solidarietà) concessi dal Governo.

Ed è qui che l’azienda multinazionale scappa. Sei mesi dopo la firma di quell’accordo. Quando i vertici convocano, è il 31 maggio, i sindacati al Centro Congressi Cavour, per annunciare che lo stabilimento di Ponticelli, a Napoli, non è più sostenibile e profittevole, dunque sarà venduto a una azienda terza, pur con la salvaguardia dei massimi livelli occupazionali, più di 400 lavoratori e lavoratrici impiegati. È accaduto che in estate il ministro Di Maio ha cercato di metterci una pezza, promettendo, da un lato, incentivi pubblici, dall’altro, agitando lo spettro di ritorsioni nei confronti dell’azienda (ritiro incentivi dati negli anni scorsi a Whirlpool). Strumenti retroattivi, questi ultimi, che comunque non esistono nella disciplina italiana del diritto del lavoro. La situazione per il futuro degli operai napoletani, specialmente, si è aggravata, quando si è saputo chi fosse in realtà il nuovo acquirente. E cioè la PRS Refrigeration, start-up con sede in Svizzera, già gravata da fallimenti, che possiede attualmente un capitale sociale pari a 150.000 euro, a fronte di un valore della fabbrica napoletana pari, secondo fonti sindacali, a 20 milioni di euro. Ovvio che la volontà è quella di smantellare un intero comparto produttivo, riconvertendo la fabbrica e sfruttandone la buona posizione geo-strategica, vicina al Porto di Napoli, all’autostrada, alle sedi delle grandi aziende della logistica cinese. Quella di Whirpool non è soltanto una storia di delocalizzazione, degli effetti nefasti della globalizzazione delle merci, o di de-industrializzazione. Non si tratta di una azienda che scappa dall’Italia, soltanto, insomma. E non si tratta di una classica vicenda di sfruttamento del capitale sull’uomo. È qualcosa che eccede l’uguaglianza tra le persone, tra donne e uomini, italiani e migranti.

È una storia di estremo sfruttamento che ci racconta Maddy, dipendente all’interno di una società dei cosiddetti appalti. Lei lavora in uno stabilimento in provincia di Ancona e oggi non ha scioperato. Ha preso un giorno di permesso per essere in piazza in solidarietà ai colleghi di Napoli, specialmente. Perché lei non può scioperare, nel senso che non ne ha diritto. Si definisce una lavoratrice di serie B, anzi di C, scherza, neanche troppo. Già, perché dipendenti come Maddy, addette alle mense, alle pulizie, lavoratrici del terziario, impiegate nelle aziende prestatori di servizi, che sono soprattutto donne e migranti e ricevono una busta paga oraria di poco più di sei l’ora lordi, guadagnando appena seicento euro al mese, «quando va bene», racconta Maddy: «In pratica lavoriamo su commissione. Siamo più invisibili degli invisibili. Poiché non abbiamo ammortizzatori sociali, tutele, contratti che siano definibili come tali». Infatti, prosegue la donna: «il sistema in cui lavoro funziona così. Accade che l’azienda madre, in questo caso la Whirpool, bandisca le gare per affidare determinati servizi e che l’azienda o cooperativa assegnataria vinca al massimo ribasso, fornendo un monte ore, non un numero di dipendenti, ma un numero di ore. Così accade che a volte del nostro servizio scenda a lavoro soltanto qualcuno, a volte a qualcun altro si chiede di rimanere a casa». È il sistema del lavoro a cottimo alla base del caporalato, applicato in questo caso alla prestazione di servizi. Che alimenta la competizione tra lavoratori, tra persone. È una storia che è parte del governo di Whirpool, la fabbrica che scappa dai diritti. È la storia in tutta Italia dei lavoratori degli appalti industriali, assunti con contratti di prestazioni servizi, generici, senza tutele, senza garanzie. È questa la storia di uno sfruttamento più invisibile, senza garanzie, della donna, del lavoratore migrante, oltre che quella visibile del padre di famiglia, operaio, sindacalizzato. Entrambi ben presenti dentro la piazza della protesta di oggi.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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