La prima osservazione critica che si può rivolgere all’istituzione di una “cabina di regia” sulla gestione dei fondi europei, così come proposta da Conte, sta nell’istituzione stessa: perché costituire un organismo terzo rispetto al governo, ai ministeri e alle loro costituzionali funzioni, per gestire i 200 miliardi del Recovery Fund?

Provengono da qui le accuse di bonapartismo e di cesarismo che il Presidente del Consiglio si tira dietro da alcuni giorni: almeno quelle più virulente e intransigenti, che permettono persino a Renzi di mettere in secondo piano le vere ragioni di dissenso sulla “task force” e di appellarsi alla difesa della democrazia, contro «l’aumento del numero delle poltrone».

Se è vero che è la somma che fa il totale – come avrebbe chiosato Totò – è dal febbraio scorso che l’accentramento di molti poteri è nelle mani del Presidente del Consiglio: i DPCM dettati dalla prima ondata pandemica sono divenuti una costante emergenziale, una decretazione che ha viaggiato di pari passo con l’urgenza di un adeguamento delle disposizioni all’evolversi ciclico di una fase del tutto nuova nell’ambito sanitario, sociale, economico e politico del Paese.

Se ciò era accettabile, persino condivisibile, nei primi mesi del 2020, col trascorrere del tempo è divenuto motivo di stigmatizzazione perché si è sommato ad altri interventi normativi che sono stati diretti esclusivamente dal Presidente del Consiglio, creando fermento persino all’interno del governo.

In questo scenario convulso, fatto di immediatezza e di ricorso senza soluzione di continuità ad un ruolo preminente del capo del governo, non è certo venuto in aiuto il rapporto tra lo Stato e le Regioni: tutti i limiti della gestione diretta della sanità da parte degli enti locali si sono mostrati, sono divenuti tragicamente palesi negli intrecci tra interessi privati nel pubblico, creando una sorta di concorrenza antisociale, fondatrice di una nuova forma di diseguaglianza tra i cittadini a seconda della ricchezza economica dei territori.

La Costituzione è stata qui vilipesa grandemente: l’ormai celeberrimo “Titolo V“, riformato proprio per aumentare i poteri delle Regioni nei campi amministrativi primari come per l’appunto la sanità e le infrastrutture stradali, i collegamenti viari e la tutela del territorio, non potrà essere dimenticato alla fine della pandemia e dovrà essere oggetto di una contro-riforma che capovolga gli attuali rapporti tra governo e giunte regionali, tra amministrazione centrale ed enti decentrati. Ciò non può assumere però le connotazioni di un alibi per una mancanza di discontinuità tra il ricorso alla decretazione di urgenza personalistica dei DPCM e quanto sta avvenendo oggi in merito alla cabina di regia sui fondi europei.

Al contrario, è legittimo domandarsi come mai un governo, che asserisce di aver gestito la seconda fase dell’impatto del Covid-19 sull’Italia con la stessa determinazione di febbraio e marzo, abbia oggi bisogno di esternalizzare il coordinamento degli aiuti finanziari della UE persino a tecnici, a privati, a persone che non hanno alcuna delega popolare per gestire non tanto dei fondi quanto le linee di programmazione politica che sottendono a queste risorse così imponenti.

Non si tratta di rimproverare al Presidente del Consiglio di volere quei famosi “pieni poteri” reclamati da ben altri figuri in un giorno d’estate, ma di considerare le ragioni che hanno portato Conte a non considerare proprio il governo il primo responsabile della gestione dei fondi: dal deposito nei conti correnti dello Stato fino alla loro somministrazione agli enti preposti, ai beneficiari individuati dal piano di distribuzione.

In merito a questa, si potrebbe oltremodo obiettare che sono relativamente pochi quelli che vengono ipotizzati per un potenziamento del sistema sanitario (appena 9 miliardi su 179 concessi dall’Unione Europea e di cui una novantina sono prestiti che ingrassano il debito pubblico) ma si anticiperebbe una analisi che, tuttavia, non può prescindere da chi materialmente sarà chiamato ad applicare decisioni che spettano alle assemblee pubbliche, all’organo esecutivo: in sostanza, alla Repubblica e non a comitati creati ad acta e che non trovano un corrispettivo nella storia del Paese, che non sono assimilabili a nessuna forma istituzionale governata dal diritto.

Sabino Cassese, giustamente, ha definito il luogo di nascita di una cabina di regia del genere come qualcosa che viene posta nella terra di nessuno, dove non c’è regola che la normi, dove l’unico controllo proveniente dalle istituzioni sarebbe quello della Corte dei Conti e dove persino i ministeri dovrebbero aprire dei “tavoli di confronto” per interagire con i commissari nominati alla sovrintendenza del Recovery Fund. Conte propone la creazione di una “task force” che non è sotto il controllo dell’intero governo, ma solo suo, perché i ministri non hanno potere decisionale in merito, tanto meno di veto.

Leggere in ciò un tentativo cesarista è francamente eccessivo e fuoriluogo, oltre che fuorviante.

Ma non dovrebbe lasciare indifferenti questo trattamento della figura del Presidente del Consiglio come qualcosa che finisce per sfuggire alle disposizioni costituzionali: da coordinatore e armonizzatore delle funzioni dell’esecutivo, rischia di somigliare ad un primus inter pares, che decide senza collegialità, che non impone ma propone senza considerare tutte le opzioni “burocratiche” che il nostro sistema democratico prescrive, proprio per il mantenimento rigido delle rispettive funzioni istituzionali, per il bilanciamento dei poteri, per non far venire meno il controllo finale del Parlamento su ogni azione del governo.

Tralasciamo le altre motivazioni per cui Italia Viva va al muro contro muro con Conte: qui siamo alla schermaglia da posizionamento politico per la rappresentanza di categorie imprenditoriali e di settore. Ma il punto resta, anche se il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri non è l’unico a tentare la via più veloce e sbrigativa per assegnare i fondi europei. Ci ha provato anche Pedro Sanchez in Spagna, ma Podemos ha puntato i piedi e chiesto che fosse l’intero governo ad occuparsene. E così è stato. In Germania niente tecnici o privati, ma solo rappresentanti della maggioranza nella cabina di regia. In Francia un commissario del governo si occuperà di Parigi e il governo intero del resto del Paese.

In Italia pare che il governo debba invece delegare ad una squadra di imprenditori e tenici privati qualcosa che deve rimanere esclusivamente pubblico e di sola pertinenza dell’esecutivo. Conte rischia di apparire sempre più come quell’uomo della provvidenza di cui non si ha affatto bisogno e che non ha portato grande fortuna a chi ha tentato di esserlo anche nel recente passato, attraverso riforme che sovvertivano la rappresentanza parlamentare, l’assetto della Repubblica.

Fare della cabina di regia del Recovery Fund un governo parallelo a quello esistente è una pessima idea e poi, se proprio vogliamo dirla tutta, non ce lo chiede nemmeno l’Europa!

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy