Il governo pare muoversi settorialmente, senza un indirizzo comune, con la sola regia della Presidente del Consiglio che, esprimendo così il suo alto e costituzionalissimo valore di sintesi delle posizioni dell’esecutivo e di incisività di azione, a seconda dei temi che si presentano in forma e sostanza di problemi contingenti, porta avanti una politica disomogenea, nonostante sia riconoscibilissima nei suoi tratti di estrema destra.

E’ la sensazione che si ha osservando le prese di posizione dei singoli ministri, e dell’interministerialità di alcuni secreti di Palazzo Chigi, se si fa un bilancio di queste prime settimane di governo Meloni. Nella questione rave party si è fatta sentire tonante la voce di Piantedosi, mentre in quella delle migrazioni il silenzio di Tajani è apparso in tutta la sua presenza-assenza come una manifestazione ovattata di moderata critica alla prevalenza delle posizioni salviniane rispetto a quelle forzitaliote sui diritti umani, sull’accoglienza, sui rapporti con l’Europa e gli Stati membri.

Solo nella serata di sabato 12 novembre uno scarno comunicato del Ministro degli Esteri fa capolino nel dibattito politico per ricorda che tocca all’Unione il compito di riconsiderare la logica della redistribuzione dei profughi che sono poi anche naufraghi e che, in ultima istanza, vengono considerati migranti solo quando toccano le prime terre del Vecchio continente.

Ma l’impressione, tutta da confermare con lo svolgersi degli eventi interni ed esteri dei prossimi giorni, tanto a Bruxelles quanto a Roma, è che il governo viva nel suo perimetro di coalizione un disagio niente affatto trascurabile quando si tratta di rapporti bilaterali con la UE e, per essere chiari fino in fondo, nemmeno soltanto in relazione a questioni che sono inerenti i finanziamenti del PNRR o i trattati continentali sulla cooperazione nei diversi settori.

Non si può, ovviamente, dati i rapporti di forza usciti dalle urne, parlare di uno scontro, od anche solo di un confronto, tre ideologie o impostazioni culturali-politico-programmatiche per una egemonia in tal senso nell’azione precipua di governo.

Piuttosto è interessante notare come una certa dialettica interna non intenda fermarsi al dato di fatto della prevalenza numerica sovrabbondante di Fratelli d’Italia che, almeno in questa fase, viaggia di pari passo con la debolezza di un leghiamo salviniano che prova a risalire la china dei consensi mettendo gli sbarchi al centro dell’attenzione mediatica e popolare.

Al di là dall’essere, appunto, interpretabile come ciò che non è, il punto su cui può vertere un disequilibrio di governo potrebbe, col trascorrere del tempo e col presentarsi di sempre maggiori impellenze di natura sociale ed economica, essere proprio riferito in prima battuta al diverso approccio centrista di Forza Italia su temi che ne potrebbero minare l’ultimo fronte unitario tra berlusconiani di corta data ma di nuova fedeltà e altri di vecchia datazione ma di corta riverenza al vecchio padrone.

Chiaro che non si può pensare, da un punto di vista progressista, ad una fine del governo appena insediato puntando esclusivamente sulle contraddizioni interne e interne all’internità stessa dei partiti che lo compongono e che hanno la maggioranza in Parlamento. Ma è utile non trascurare nulla, perché l’operazione di ricalibratura del centro politico non riguarda soltanto Calenda, Renzi, Bonino e una parte del PD, bensì anche Toti, Lupi, Brugnaro e una parte di Forza Italia.

Il progetto di riconfigurazione di un liberismo dentro una cornice liberale, ben più accettabile dal mondo dell’impresa italiana e da quello delle banche e della finanza europei rispetto alle pulsioni estremiste del nazionalismo sovranista, è oggi il terreno di confronto a distanza di forze politiche che si trovano al di qua e al di là della linea di confine tra maggioranza e minoranza.

Difficile poter ritenere possibile una riedizione della capacità resiliente delle destre a saldarsi al momento opportuno in salsa neocentrista: fondamentalmente perché non si tratta di mettere insieme formule del passato, più o meno ancora rispondenti ai vecchi schemi maggioritari al momento della presentazione all’elettorato di programmi fintamente unitari e prontamente utilitaristi; mentre si è innanzi ad un vero rimescolamento delle carte, ad un tutto in divenire.

La lotta al centro degli schieramenti è lotta per la costituzione di un nuovo centro che può nascere soltanto se vengono superati e archiviati i modelli degli ultimi trent’anni. Primo fra tutti quella “alternanza tra i poli” che, oggi, ha sempre meno senso, proprio perché sono venute meno le condizioni sociali che determinavano e giustificavano – in un certo qual modo – le aggregazioni in cui il centro guardava ora a sinistra, ora a destra e non lasciava spazio nel mezzo di questi due grandi blocchi per una terzietà politica organizzata nel Paese come possibile scelta elettorale e di governo.

Eventi epocali come la pandemia e una crisi multistrutturale, determinata anzitutto dalla crisi economica iniziata nel biennio supbrime del 2008-2009, proseguita con le guerre di espansione statunitense e nordatlantiche, con i tentativi di contenimento dell’espansionismo cinese in Africa e di quello russo in Ucraina e nel Medio Oriente (nonché di quello turco in entrambe le macro-regioni di una geopolitica tutta in movimento), hanno condotto alla destabilizzazione dei quadri riformisti che si erano imposti come soluzione di compromesso per una unificazione temporanea di politica interna della UE.

L’asse franco-tedesco non ha mai messo all’ordine del giorno un ampliamento dei propri interessi di riferimento, ad esempio con un trilateralismo allargato all’Italia o alla Spagna (e tanto meno ad una Gran Bretagna sulla via d’uscita della Brexit), per via della debolezza endemica del prodotto politico del Bel Paese. Soltanto con la maggioranza di “unità nazionale” di Draghi,  soprattutto in virtù del curriculum dell’ex banchiere centrale europeo, Parigi e Berlino, unitamente alla BCE, hanno riconsiderato la collaborazione con Roma.

Una propensione che è oggi crollata sotto il peso del revanchismo nazionalitario in tema di diritti umani e civili, del punto di vista tutto italianamente sopranista sulla redistribuzione del fenomeno migrante tra i paesi dell’Unione. Per una Forza Italia che ha avuto in Tajani un presidente del Parlamento europeo a cui le forze liberiste e liberali hanno guardato sempre con favore, non deve essere facile fare la parte minoritaria in un governo dove la schiacciante maggioranza, almeno su questi temi, è tutta del connubio FdI – Lega.

Al di là delle dichiarazioni di circostanza, tese a difendere l’operato del governo, Tajani mostra il volto di chi non intende attaccare la UE, come fa Salvini a parole e Piantedosi nei fatti, ma porre un problema che trovi una soluzione comune.

La dichiarazione sottoscritta da Italia, Grecia, Malta e Cipro, che accusa le organizzazioni non governative che salvano i migranti in mare di essere, sostanzialmente, al di fuori della legalità, oltre il rispetto del diritto internazionale e, quindi, contravventrici delle leggi anche nazionali che regolamentano i flussi migratori e i processi seguenti agli approdi nei porti, è una saldatura debolissima della linea politica nazionalista meloniano-salviniana con altri paesi europei.

E non tanto per le dimensioni geografiche dei cofirmatari con lo Stivale, quanto per l’assenza della Spagna che se ne è tirata fuori, visto che la politica del governo socialista è improntata al rispetto dei trattati europei insieme al diritto del mare: una linea nettamente opposta a quella delle destre che vorrebbero invece respingimenti e ricollocamenti in porti tutt’altro che sicuri.

L’imbarazzo per la crisi franco-italiana è palpabile, al punto che prima della fine del mese il Consiglio europeo si riunirà per discuterne, considerando un vulnus recuperabile ciò che oggi è una diatriba che si inasprisce ogni ora che passa e che vede schierati ai confini sempre più gendarmi di Parigi per fermare i migranti, per giocare anche (e soprattutto) sulla loro pelle una partita economica non certamente di poco conto.

L’ostinazione dell’estrema destra sulla questione migratoria non è scambiabile soltanto come arma di distrazione di massa: se valutata col dovuto peso, entro i termini delle proposte di governo della coalizione che ha vinto le elezioni del 25 settembre, fa pienamente parte di un progetto reazionario di conservazione di un valore nazionale che mette in discussione l’integrazione, la multiculturalità, le fondamenta stesse di una convinvenza civile nelle dinamiche dei una globalizzazione che continua a pensarsi, liberisticamente parlando, soltanto come grande massa di scambi e movimentazioni di merci e profitti. E non anche di esseri umani.

Dubbi economici, sociali, civili e quindi politici, in questo senso nella coalizione di governo ve ne possono essere, ma vengono sottaciuti nel nome dell’unità che è alla base del compromesso sulle misure fiscali, finanzierie ed economiche che il governo dovrà prendere a breve e che faranno gli interessi di quei ceti abbienti che sostengono da sempre il (centro)destra.

La corsa alla stabilizzazione di un nuovo corso centrista tiene conto di tutto questo, compresa la assoluta fedeltà atlantica su cui, se fatta aderire perfettamente alla fortezza europea in combattimento nella guerra in Ucraina, possono anche qui sorgere alcuni dubbi, determinate critiche ma, questa volta, da parte della maggioranza della maggioranza di governo.

La tragedia politica italiana continua

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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