Tutti i dati della riforma pensionistica francese e del grande sciopero del 19 gennaio, che ha aperto un nuovo ciclo di lotte e ha già inferto un duro colpo alle ambizioni di Macron. Ma siamo solo all’inizio di un lungo percorso

CHE SUCCEDE A CASA DEL PRINCIPE? IL SENSO POLITICO DI QUESTA RIFORMA

Mentre per mesi ha annunciato l’aumento dell’età legale per la pensione a 65 anni nel 2031, il governo di Emmanuel Macron ha invece accelerato i tempi proponendo fin da subito una soglia minima a 64 anni. Il disegno della riforma sarebbe di raggiungere questa soglia al ritmo di un quarto in più all’anno, a partire dal prossimo settembre. Se così fosse, la prima a essere colpita sarebbe la generazione del 1961.

Pubblicizzata come uno dei temi cardine della sua scorsa rielezione, la riforma che Macron propone non è in realtà che l’estensione della precedente (riforma Touraine), all’epoca del governo di François Hollande. La differenza è piuttosto nell’accelerazione degli aggiustamenti parametrici della manovra che, anziché raggiungere i 43 anni di contribuzione come condizione di accesso alla pensione nel 2035, li raggiungerà già nel 2027.

Immagine da pagina Tw Libération

Estensione dell’orario di lavoro, quindi, e potenzialmente un fine-pena mai per il 5% della forza lavoro più povera, di cui ben il 29% non arriva vivo ai 64 anni. I regimi pensionistici speciali, già nel mirino di tentativi precedenti (2019), sono nuovamente sotto attacco: l’attuale riforma prevederebbe la loro abolizione. Sul piatto c’è anche la questione del riconoscimento dei lavori logoranti, aggettivo non gradito al Principe dell’esagono. In questa maniera si aggraverebbe ancora di più una situazione già problematica, visto che il dispositivo giuridico previsto in questi casi (C2P), ovvero il fondo per i lavoratori e le lavoratrici espost* a rischi professionali, è già difficilmente riconosciuto e quindi attivato.

Basti tenere conto del fatto che, mentre il 61% della forza lavoro francese è esposta ad almeno un rischio lavorativo, solo 10.000 sono le persone che annualmente possono accedere al riconoscimento di questa situazione. Ma per Macron non esistono lavori logoranti, come ripetuto anche da François Patriat (senatore di Renaissance) secondo cui chi lavora nell’edilizia e nella logistica, ad esempio, ha ormai sviluppato degli esoscheletri.

Insomma, questa riforma è il riflesso limpido dell’odio del blocco sociale e politico coagulatosi attorno a Macron. La portavoce del partito di Macron ha deriso Mouloud Sahraoui, lavoratore dell’azienda GEODIS e uno dei leader delle lotte più avanzate nel settore della logistica, perché quest’ultimo rivendicava un abbassamento della soglia dell’età pensionabile a 50 anni. NUPES ha lanciato una controproposta, sempre in offensiva, per l’abbassamento di questa soglia a 60 (contro gli attuali 62).

La riforma è inoltre diversa da come era stata presentata a fine 2019, alle porte della pandemia. Allora si trattava di una riforma strutturale che non solo avrebbe allungato la durata del lavoro, ma avrebbe anche trasformato il sistema pensionistico in un sistema «a punti», nell’ottica di un futuro sistema pensionistico «a capitalizzazione».

L’obiettivo era di creare un nuovo settore economico di fondi pensione alla francese. Un potente movimento aveva già messo in difficoltà il governo nel 2019, con scioperi molto partecipati e un ambiente politico in cui le pratiche dei Gilets jaunes hanno giocato un ruolo decisivo. Una volta moderate le posizioni del governo ad inizio 2020, con l’abbandono dell’âge pivot (soglia per l’ottenimento della pensione completa), la pandemia ha bloccato completamente il processo di polarizzazione attorno alla riforma. Sia dal lato del capitale, che da quello della forza lavoro. Il Medef, la Confindustria francese, si è opposto a un’ulteriore riforma in questo campo, perché eccessivamente polarizzante.

È quindi necessario insistere sul fatto che questa volta si è passati da una riforma di tipo strutturale a un’altra di tipo parametrico. Si tratta di accelerare il più possibile un processo già avviato con l’ultimo governo socialista: la progressiva riduzione dei diritti sociali. L’attuale riforma si presenta quindi come un compromesso politico e sociale tra il polo macronista e quello repubblicano, che perdono tuttavia l’appoggio del sindacato CFDT. Opposizione che però non ha ostacolato il raggiungimento della maggioranza parlamentare.

La posta in gioco strategica di questo cambiamento del metodo di governo ha a che vedere con le difficoltà crescenti di Macron a coalizzare la borghesia e le sue emanazioni politiche attorno al suo progetto. L’abbandono della riforma «a punti» permetterebbe a Macron di allearsi con la destra parlamentari. I sindacati padronali continuano invece a difendere il loro sistema pensionistico, che per loro è un riconoscimento del loro statuto sociale da parte dello Stato. In più, l’assenza totale di giustificazioni budgetarie sta spingendo dei dirigenti del partito di governo a prenderne distanze. 

DA UNA RIFORMA ALL’ALTRA. APPUNTI SU CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ DAL 2010

Anche se la riforma è stata proposta da poco più di dieci giorni, si possono già individuare alcuni elementi per un’ulteriore analisi, dal punto di vista dei movimenti. Nei mesi scorsi, l’istruzione professionale, la logistica e il settore energetico hanno assistito all’ottenimento di importanti aumenti salariali. Nella fase post-covid, inoltre, si è registrata una ripresa della circolazione della forza lavoro tra diversi settori o anche all’interno di uno stesso settore, trend che ha riguardato anche gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Questa situazione favorevole non ha però compensato le reali perdite salariali dovute all’inflazione.

A partire da questa prospettiva, si intuisce che il carattere politico della posta in gioco di questa riforma. Si tratta di difendere la sicurezza sociale, una conquista che il movimento operaio francese non si lascerà alle spalle. La mobilitazione politica per i diritti pensionistici si è sovrapposta a quella sociale, mobilitando così ampi settori della forza lavoro. Philippe Martinez, segretario della CGT, ha parlato di due milioni di persone in piazza in tutto il Paese, per la manifestazione del 19 gennaio.

400mila solo nella capitale, con un’importante partecipazione anche in provincia: 38mila a Lione e 50mila a Tolosa, già ribattezzata prima della pandemia come capitale dei Gilets jaunes. Ma il dato più importante è dato clamorosamente dal Ministero degli Interni, che registra, certo al ribasso, un milione e 200mila manifestanti. Si tratta dello sciopero più partecipato, stando alle statistiche ministeriali, dal 1995.

Immagine da fotogramma manifestazioni in Francia

Il successo della manifestazione del 19 gennaio mostra con forza la prospettiva condivisa anche da numerosi settori della popolazione, sicuramente per ragioni differenti. Questa opposizione di massa implica allora un certo contegno nell’analisi, perché serra intorno a sé fondamentalmente dei punti di vista contraddittori sulla questione delle pensioni, tra CGTCFDT e la CGC (il sindacato dei quadri).

Nella fase attuale, sembra però che la rivendicazione della riduzione del tempo di lavoro o almeno un freno al suo aumento si ritrova rafforzata anche dalla prospettiva ecologista. Nel 2019, la convergenza tra i militanti più radicali di Extinction Rebellion è stata molto importante per la costruzione della riduzione del tempo di lavoro come parola d’ordine comune a sindacalisti e militanti ecologisti.

Questa ripresa del ritmo di mobilitazioni indica la capacità organizzativa della sinistra politica riunita attorno alla France Insoumise. La manifestazione nazionale di sabato scorso ha riunito 150.000 persone a Parigi. Molti i militanti del partito di Jean-Luc Mélenchon che hanno raggiunto la capitale da tutta la Francia. Questa manifestazione è stata marcata anche dal ritorno del cortège de tête, a sua volta rinnovato. Uno spezzone plurale, in piena continuità con gli immaginari politici sorti dall’esperienza dei Gilets jaunes, ha preso la testa della manifestazione.

Il doppio ritmo delle mobilitazioni – sciopero e manifestazione sindacale in settimana, manifestazione politica nel fine settimana – era già stato sperimentato in autunno. La strategia ora è quella di integrare anche una tattica a staffetta progressiva.

Per questo si annunciano scioperi, sempre con la modalità a «doppio ritmo», che aumenteranno esponenzialmente nelle prossime settimane: questa settimana saranno di 48 ore, la prossima di 72, e così via. Questo elemento di novità è dovuto alle precedenti esperienze negative, come quella del 2019, in cui la forza lavoro sindacalizzata nel settore dei trasporti fu mandata al macello in uno sciopero di ben 40 giorni, in un vero e proprio assedio saggiamente gestito da Emmanuel Macron, che prese l’opposizione per sfinimento.

Un cambio di strategia in questo senso significa che i sindacati si preparano a irrobustire le mobilitazioni in una prospettiva di durata, e non solo di estensione. Un elemento che bisognerà tenere d’occhio è allora la CFDT, sindacato storicamente vicino ai governi Macron, che per ora rientra nell’unità sindacale. Un suo cedimento porrà sicuramente un rompicapo per gli altri sindacati, CGT in testa.

L’insistenza della France Insoumise nel convocare le manifestazioni durante il fine settimana, e in particolare il sabato, ha permesso a tutta una composizione sociale, tenuta ai margini dei mondi salariali e sindacali, di prendere parte alla mobilitazione contro la riforma delle pensioni. Questa partecipazione si è rivelata decisiva durante la precedente riforma, permettendo una proliferazione di azioni durante le giornate di sciopero. 

La novità è che adesso è l’egemonia della France Insoumise sulla sinistra francese a portare in strada i non-salariati, precari, liceali, disoccupati, gli stessi Gilets jaunes. Come ha affermato Mélenchon nella serata di sabato, a manifestazione conclusa: «I sindacati portano il cuore della battaglia e del rapporto di forze nella misura in cui i lavoratori in sciopero colpiscono il capitale nel suo solo punto sensibile: il portafoglio. Il movimento Insoumis deve pesare il più possibile nella manifestazione fuori dalle mura delle imprese, nel popolo “non salariato”. È il solo senso della decisione di sostenere con tutte le nostre forze l’iniziativa delle organizzazioni giovanili, sindacali e politiche. È la posta in gioco del momento» .

Si tratta di costruire una mobilitazione multiscalare nella società perché quest’ultima sia presa in un ciclo di lotte capace di avere la meglio sulla riforma delle pensioni. Una delle prime tappe è senza dubbio la mobilitazione della forza lavoro più giovane, secondo uno schema tra l’altro adottato dal 1968 a oggi.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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