In un luogo simbolicamente iconico come quello di Hiroshima i sette grandi della Terra, a cominciare dal più grande di tutti, gli Stati Uniti d’America del democratico Biden, si riuniscono per mettere a punto le strategie geopolitiche, economiche e prettamente belliche dei prossimi mesi.
Nulla di sorprendente, ma nemmeno uno stanco rituale fatto di convenzioni, di galatei istituzional-internazionali, se non fosse che proprio gli USA hanno deciso di rimangiarsi la parola sulla concessione a Zelens’kyj dei jet da guerra.
L’accordo con Regno Unito e Paesi Bassi c’è, presupposto per Londra e Amsterdam era, al fine della concessione degli aerei all’Ucraina, la formazione di una sorta di mini-coalizione in tal senso. Il raggiungimento della stessa, ma più che altro il dietrofront sul veto americano, ha permesso di fare un ulteriore passo nell’armamento sempre più pesante della cosiddetta “resistenza” della nazione aggredita.
L’iconicità del Memoriale della Pace ad Hiroshima non stempera i venti di guerra, non fa regredire nemmeno l’aggressività imperialista nell’area asiatico-pacifica dove la crisi di Taiwan è l’altro fronte di un conflitto mondiale che in tanti fanno finta di non vedere e considerano, al più, alla stregua di una scaramuccia di carattere macroregionale, ma non certamente globale.
I sette grandi agiscono come se il resto del mondo fosse di loro pertinenza e i protocolli firmati bi o trilateralmente, quand’anche all’unanimità dei presenti, interpretano i problemi transnazionali soltanto dal punto di vista “occidentale” o “all’occidentale” (per quanto riguarda almeno il Giappone…).
Seguendo una linea di condotta protezionistica nei confronti del liberismo americano, dell’espansionismo militare NATO, di un neocolonialismo che gareggia in concorrenzialità sulla pelle dell’Africa dilaniata dalle guerre fratricide, dalle rotte schiavistiche dei migranti, dalla miseria sempre più devastante, il G7 punta alla perequazione finta di un distribuzione di risorse che privilegino esclusivamente quelle democrazie che si sposano con un capitalismo che le uniforma a princìpi di autodeterminazione del mondo della grande impresa, del grande profitto, dell’enorme speculazione finanziaria.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, ad ottanta anni di distanza da quello stravolgimento totalitario e totalizzante, alle soglie del primo quarto del nuovo secolo nel nuovissimo millennio, la competizione globale si riaffaccia sulla scena della sopravvivenza di interi popoli che migrano, di guerre che penetrano nel cuore dell’Europa, riaprendo vecchie ferite, aggiornando lo schema bipolare della Guerra fredda ai nuovi parametri quantomeno tripolari.
La potenza cinese è l’emergente emergenza per un blocco occidentale che segna il passo, che tira il fiato, che si rianima soltanto in presenza di nuovi conflitti armati.
A smuovere la stagnazione economica, che, ad esempio, nel caso italiano assume i connotati di una pericolosissima e antisocialissima stagflazione, sembrano essere soltanto nuovi fronti di guerra dove gli arsenali militari si riversano svuotandosi e dando incentivo produttivo alle aziende che producono bombe, missili ultrasonici, carri armati e aerei. L’atomica rimane come ultima minaccia.
Apparentemente un deterrente, più concretamente una reale possibilità di essere impiegata col fine della dissuasione dal continuare un conflitto che si estende tanto quanto è grande la geografia delle nazioni che vi sono direttamente o indirettamente interessate.
La favola della “guerra per procura” ha potuto essere raccontata per qualche mese, ma poi ha finito con l’essere un refrain stancante, privo di aderenza con una realtà oggettiva mostrata in diretta da giornali, tv, e Internet con assoluta precisione, pur in mezzo a tanti trabocchetti disinformativi o volutamente propagandistici dall’una e dall’altra parte.
Le ragione del pacifismo sono al più ricondotte a corollario delle premesse di responsabilità universale di ogni governo particolare: chiunque vuole, pretende la pace. Come diceva più di un secolo fa Albert Einstein, bisogna intendersi su quale pace si vuole lavorare. L’assenza di guerra non è definibile automaticamente come pace. Nella sua ultima visita a Pechino, il presidente brasiliano Lula da Silva ha redarguito in merito proprio gli USA.
Il sostegno di Washington a quella che apparentemente è la guerra difensiva di Zelens’kyj contro quella indubbiamente offensiva della Russia, escludendo così dal quadro della narrazione popolare e di massa le responsabilità dell’Alleanza atlantica nel concertare e dirigere il conflitto su basi espansionistiche e imperialiste nell’Est europeo e nel Medio Oriente, è stato criticato dal Brasile non soltanto perché afferma un continuismo mai davvero interrotto tra amministrazioni della Repubblica stellata di differente colore e caratura.
Ma, in particolare, perché la stessa America Latina da tempo cerca un modo per sottrarsi all’egemonia degli Stati Uniti, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
Se le dichiarazioni del presidente peronista Fernández sull’opportunità di fare della sua Argentina una porta di accesso per gli interessi russi nel continente, fatte prima dello scoppio della guerra in Ucraina, fossero già allora una imprudenza è difficile dirlo. Quello che è sicuro, almeno abbastanza, è che oggi il non allineamento di paesi come Brasile, Venezuela, Argentina, Cile, Cuba e Nicaragua fa il paio con l’altro tavolo permanente dei BRICS e forgia un asse di contrapposizione netta tra est ed ovest, tra nord e sud del mondo.
Se si analizza la verticalizzazione dei questi nuovi processi geopolitici e vi si affiancano necessariamente le strategie militari che sono messe in campo, pare evidente come la nuova stagione (o era…) cui il mondo viene costretto a guardare è una ricalibratura complessiva dei rapporti di potere tanto interni quanto internazionali dei grandi poli del capitalismo e delle grandi centrali finanziarie.
In tutto questo scenario globale di rimescolamento delle carte, il ruolo dell’ONU fatica a trovare spazio, a legittimarsi come garanzia di frapposizione tra i contendenti, come elemento chiave per la risoluzione delle controversie tanto diplomatiche quanto armate.
L’astensione di molti paesi dell’America Latina sui voti di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina è il chiarissimo sintomo di un malessere diffuso che pervade, per una eterogenesi dei fini, paesi tra i più diversi e con le aspettative di uscire dalla crisi mondiale di un liberismo vorace e incapace di dare stabilità e sicurezza ai popoli: dal Salvador populista e autoritario alla dittatorialissima Corea del Nord; dalla indiscussa egemonia della Cina nell’economia globale al tatticismo ruffianamente bipolare dei paesi arabi (che strizzano l’occhio a Mosca ma invitano anche Zelens’kyj alle loro corti).
Se si va alla ricerca di vere e proprie iniziative diplomatiche, per un cessate il fuoco, per una pace provvisoria, vi si potrà sempre trovare epifenomenicamente dietro un doppio fondo di interessi che utilizzano il ruolo di mediazione che si sono attribuiti per scopi non più nobili di quelli di loro diretti concorrenti.
Israele, Turchia, Francia, Egitto, tanto quanto la Cina, provano una comprimarietà che gli riesce difficile da concretizzare. Soprattutto per le tante contraddizioni di politica interna che, rispetto a Pechino, sono costrette a dirimere con molto poco successo.
A parte la Francia di Macron, che ha comunque le sue tensioni sociali tutt’altro che “pacificate“…, Israele, Turchia ed Egitto sono alle prese con conflitti secolari che riemergono proprio nei momenti in cui le crisi si sommano e, spesso, circondano i popoli che sentono di essere più al sicuro di altri. Per Ankara vale l’esempio della lotta contro il diritto dei curdi di avere una loro nazione libera e sovrana. Ma vale anche la vicinanza di una conflittualità tra Armenia ed Azerbaigian in perenne lotta per il controllo del Nagorno-Karabakh.
La Russia, in questo risiko di piccole e grandi guerre disseminate su tutto il pianeta, si insinua al pari degli USA e della NATO. La partita della guerra in Ucraina è sul campo la difesa di un paese aggredito, ma è anche l’offesa verso un paese aggressore delle regioni autonomiste e indipendentiste del Donbass.
Se non si inizia ad osservare in una cornice veramente completa e ampia le cause e gli effetti delle guerre moderne, si finisce col parzializzare questi conflitti ed essere fortemente miopi nei confronti delle (s)ragioni che li hanno generati e che li tengono tutt’oggi in una tensione costante e per nulla calante.
Così, dopo questo excursus in giro per un mondo fatto di omicidi plurimi di massa, perpetuati e perpetrati di lustro in lustro seguendo le ragioni di una politica condiscendente nei confronti del grande liberismo dominante, che depreda il pianeta e lo impoverisce di ora in ora (altro che di giorno in giorno…), il ripensamento del presidente americano Biden sugli F-16 da dare all’Ucraina pare, alla fine, ben poca cosa.
Un tassello di ipocrisia nel più vasto puzzle mondiale dell’enormità esponenziale di interessi convergenti e divergenti, cinicamente giocati sulla pelle dei popoli, dei miliardi di moderni proletari salariati che sopravvivono in una crescente miseria, mentre i grandi del G7, elegantemente imbellettati da frasi di circostanza e firme sui registri dei visitatori al Memoriale della pace di Hiroshima, parlano del futuro che ci aspetta.
Il nostro sarà difficile da affrontare. Il loro sarà garantito dal calcare il vasto piano delle sofferenze di chi permetterà o no che questi criminali travestiti da statisti possano continuare ad avere questo potere insieme ai loro amici industriali e finanzieri.
MARCO SFERINI