Imessaggi e le prese di posizione sono discordanti e sembra quasi che si tratti non di una, ma di due conferenze. Invece la COP28 che si tiene a Dubai, e che dovrebbe affrontare l’enorme tema dei mutamenti climatici e della sostenibilità ambientale, è una assise in cui convergono e divergono le più importanti voci del pianeta e dove sembra sempre più difficile l’approdo ad una sintesi veramente congiunta.

Giorgia Meloni parla di una transizione ecologica che dovrebbe essere aliena rispetto ad ogni ideologismo. Una parafrasi di un concetto ben più esplicitabile mediante la schietta nettezza di un linguaggio che prescinda dal galateo istituzionale dei rapporti internazionali: una politica pseudo-ecologica, o semmai ecologica quel tanto da non intaccare troppo gli interessi delle grandi aziende.

Emmanuel Macron si preoccupa addirittura di triplicare la capacità nucleare globale entro il 2050. Non un passo indietro, nemmeno uno di lato nei confronti di una energia prodotta al costo di produzione di tante di quelle scorie che, lo dovremmo ormai sapere da decenni, sono smaltibili nei tempi lunghi dell’Universo piuttosto che in quelli brevi della nostra mortale vita.

Papa Francesco, invece, mette l’accento su una devastazione “strutturale” (usa precisamente questo termine il pontefice) che si riversa tanto sugli esseri umani quanto sul resto della vita, della Terra intesa come totalità della natura, dell’interazione tra le più diverse forme biologiche. La cultura della morte che Francesco vede nella prosecuzione delle politiche che non si fermano davanti alla devastazione sociale ed ambientale, è quella che permane.

Non c’è nessuna inversione di rotta in questo senso. E le parole del papa finiscono per essere un richiamo morale e niente di più in mezzo ad una platea di leader nazionali che trattano i problemi in un contesto globale in cui il capitalismo liberista non viene scalfito da nessuna impostazione critica che metta in correlazione il modello di sviluppo delle sempre più numerose ed esorbitanti diseguaglianze con l’impoverimento allucinante delle risorse naturali.

L’alterazione climatica è direttamente proporzionale allo sfruttamento del pianeta, ai fini di una produzione di ricchezza che segue la diseguale distribuzione non solo più tra sud e nord, ma oggi anche tra est ed ovest del mondo. La ripresa del multipolarismo è il fattore rideterminante una concorrenza a tutto spiano dei poli di interesse continentale che hanno preso forma nel corso della seconda metà del secolo scorso.

Questa rincorsa alla rimodulazione economica totale, negli scambi di enormi quantità di produzione tra paesi emergenti e storiche pietre miliari del capitalismo pre-liberista, ha portato cambiamenti radicali fin dentro le microeconomie dei singoli paesi, peggiorando l’esistenza di centinaia di milioni di persone: dagli Stati Uniti d’America alla disomogenea eterogeneità di un PIL europeo composto di tante spinte, molto differenti fra loro.

Proprio sul piano di un rapporto tra politiche economiche e ambientali, il livello di tenuta di una uguaglianza sostanziale è completamente saltato: Francesco richiama l’attenzione dei governi a spendere e spendersi nella preservazione della natura, degli ambienti in cui ormai sopravviviamo, dove d’estate tocca trovare dei sinonimi accrescitivi del termine “torrido” e “afoso“, così come d’inverno ci si sfrega gli occhi nel vedere le temperature ottobrine e quelle pomeridiane di giornate decembrine.

L’escursione termica tra mattina e sera è ormai passata in cavalleria: siamo in mezzo ad un altalenante passaggio da temperature vicine allo zero nelle prime ore della giornata, a ondate di vero e proprio calore appena dopo il mezzogiorno. Per ritornare di notte ad una pseudo-normalità di carattere invernalissimo.

A terrorizzare non è soltanto più la catastroficità degli eventi considerati un tempo “estremi”: tsunami, frane vistose, mareggiate altissime, grandinate che sembrano bombardamenti dal cielo, nonché ondate di calore che causano molte morti tra le persone più fragili. A spaventare è la mutazione complessiva del clima che, come è riscontrabile quotidianamente, è, di per sé stessa, la quintessenza dell’incontrollabilità,

Quando parliamo di diseguaglianza, lo dobbiamo fare anche nei termini dell’approccio che le differenze di classe consentono alle persone: poveri e ricchi non saranno mai uguali davanti ai mutamenti climatici. Chi potrà permettersi di riscaldarsi ventiquattr’ore al giorno vivrà diversamente da chi deve centellinare l’apertura dei termosifoni, le docce calde, perché il costo dell’energia è diventato esorbitante e sottrae al potere di acquisto una fetta non irrilevante di capacità economica.

La domanda che alcuni economisti, di scuola keynesiana ed anche marxista, si sono posti su un XXI secolo molto più ineguale del XIX, non è un espediente retorico per mostrare quelle vecchie e nuove contraddizioni che il capitalismo si porta appresso e rovescia sui miliardi di indigenti di una umanità che devasta il resto del pianeta e pretende di riceverne in cambio soltanto bellezza, ricchezza, agio e serenità.

La domanda è pertinente. La crescita demografica, che eufemisticamente potremmo definire “significativa“, e che fino ad oggi ha caratterizzato soprattutto i giganti emergenti dell’Asia (Cina ed India in primis), potrebbe subire una flessione determinante addirittura verso livelli nettamente inferiori rispetto a quelli del XIX secolo. Ciò porterebbe ad una vera e propria rivoluzione anche della distribuzione dell’accumulazione proprietaria. E non solo nei giganti appena citati, oppure negli Stati Uniti d’America. Persino nella vecchia Europa.

La concentrazione dei capitali nella UE è, ad oggi, nettamente inferiore rispetto alla percentuale che solitamente vediamo citata nei servizi televisivi o nei meme sulle reti sociali internettiane: si tratta di un prodotto storico, che somma eventi accidentali a contingenze nettamente attuali. Ai flussi e riflussi delle due guerre mondiali, quindi dell’intera prima metà del Novecento, si sono andati sommando una serie di interventi governativi che hanno inteso addomesticare in parte le spinte del capitale all’accumulazione.

Ma queste politiche di compromesso sono ormai state soppiantate da quel modello di accelerazione sviluppista che è il liberismo senza se e senza ma. Il capitale di oggi è, tanto sul piano economico quanto su quello ambientale, sociale, civile e culturale, non meno dirimente di quanto poteva esserlo due secoli e mezzo fa.

Noi possiamo anche pensare di lasciar fare alla natura (resa pazza grazie al nostro disumanissimo intervento) e, quindi, non invertire quella che non è più nemmeno una tendenza, ma ormai un processo ben consolidato di stravolgimento degli equilibri ecosistemici, mettendo in pratica quelli che molti governi chiamano “sistemi di contenimento“, ma in questo modo applicheremo un debolissimo cerotto una ferita copiosamente sanguinante.

Anche in questo ennesimo tentativo di compromesso con la natura, laddove non si mette in discussione alla radice il sistema capitalistico, altro non si fa se non rimandare al peggio del peggio una catastrofe già ampiamente iniziata. Ugualmente possiamo ritenere l’ampliarsi della forbice della diseguaglianza come un effetto collaterale dell’aumento della popolazione, della sempre maggiore esiguità delle risorse e delle materie prime, ma se non affrontiamo il tema dell’ineguale distribuzione della ricchezza, non andremo mai al fondo della questione.

I governi non sono in grado di risolvere i problemi di questa umanità debordante, distopica, fortemente ipnotizzata da una globalizzazione che ci fa credere di essere benestanti solo nella cornice del possesso, della proprietarizzazione di tutto e di tutti.

I governi non sono in grado di invertire la rotta perché dipendono dalle scelte economiche dei grandi agglomerati dell’economia, delle organizzazioni internazionali dedite alla sovrintendenza dei processi globali: dal Fondo Monetario alla Banca Mondiale, dall’OCSE a tutte le altre convergenze finanziarie.

Se volessimo combattere davvero lo sfacelo antinaturale che stiamo producendo e alimentando, dovremmo pensare ad una nuova forma di distribuzione del reddito, di imposizione della fiscalità, di tassazione stessa delle rendite da capitale. Dovremmo cominciare a sovvertire l’idea dell’intangibilità di queste enormi ricchezze che sono accumulate a discapito della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, contro gli oltre due miliardi e mezzo di salariati, contro una ricomposizione del rapporto tra umani e natura, tra umani e animali, tra umani e terra.

Invece è il regime della diseguaglianza esponenziale a dettare la linea per tutti e per tutto: gli stipendi dei manager delle grandi multinazionali sono il paradigma di questo elemento strutturale inegualitario. Nemmeno lavorando per cento vite, un operaio potrebbe guadagnare tanto quanto un Bezos o un Musk.

La progressività delle imposizioni fiscali, che da sinistra viene giustamente richiamata come elemento discriminatore tra una buona politica per le classi indigenti e modernamente proletarie e una politica invece tutta quanta improntata alla difesa dei grandi privilegi della dirigenzialità aziendale e finanziaria, potrebbe essere un metodo da esportare anche sul piano della difesa ambientale, perché significherebbe far pagare il costo dell’impatto delle produzioni attuali a chi produce e non a chi è impiegato nella produzione.

Ma la giustizia ecologica, che fa rima con quella sociale e civile, non è di questo mondo capitalistico. Le belle (si fa per dire…) parole che stanno nelle enunciazioni dei discorsi dei vari leaders mondiali sono, così, delle astrazioni insensate, vincolate al nulla, prive di un fondamento concreto nella traduzione politica che avranno nelle singole nazioni. Un disegno collettivo di ridimensionamento dei danni è impossibile anche solo da intravedere.

Chi sta a guardia degli interessi del capitale, perché è questo il ruolo che lo stesso capitalismo assegna imprescindibilmente ai singoli Stati, si connatura col sistema stesso e non può contraddirlo, criticarlo, pensare differentemente, pensare e pensarsi in un altro modo, in un altro tempo, in una alternativa che sarebbe invece necessaria.

I fenomeni migratori, in questo contesto, sono la redistribuzione di una popolazione mondiale che si sposta perché non trova più il sostentamento necessario per vivere laddove è nata. Lo snaturamento dell’ambiente è, così, non il corollario, bensì il fondamento di una marginalizzazione delle comunità, la precondizione di una espulsione di massa verso le terre in cui la ricchezza appare, anche se non è tutto oro quello che luccica.

Dalla COP28 non ci si deve attendere nulla di particolarmente impegnativo sul fronte del rovesciamento delle attuali politiche di preservazione del danno. Dalla nostra risposta, una risposta sociale e di base, di massa e di interesse esclusivamente pubblico, dovremmo poterci attendere tutto ciò che è possibile realizzare in controtendenza. Tanto al capitale quanto alla COP28, autoconsolatoria grande stretta di mano per dirsi: ci abbiamo provato.

No. Ci dobbiamo invece riuscire.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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