Si apre un periodo di grandi mobilitazioni in Argentina, inaugurato dalle prime proteste di dicembre e poi con lo sciopero generale del 24 gennaio, il primo dopo l’elezione di Javier Milei, che ha aperto il nuovo anno di lotte contro la “motosega” anarcoliberale. Ne discutiamo con Luci Cavallero, sociologa dell’Università di Buenos Aires e militante femminista del collettivo Ni Una Menos
Lo sciopero generale del 24 gennaio, tenutosi meno di un mese e mezzo dopo l’investitura di Javier Milei, ha rappresentato la più rapida mobilitazione sociale contro un governo della storia dell’Argentina. L’accampata organizzata dai movimenti sociali nei giorni successivi di fronte al Congresso ha inoltre prolungato e radicalizzato la lotta. Dai sindacati alle femministe, dai movimenti sociali agli attivisti ecologisti, passando per la galassia delle organizzazioni dei piqueretos, le economie popolari e le empresas recuperadas, la società argentina si è messa in movimento contro la “motosega” anarco-liberale. La pressione è stata tale da bloccare, almeno momentaneamente, la “Legge Omnibus” proposta dal governo, che dovrà ricominciare da capo l’iter parlamentare. Ma si tratta solo della prima fase di uno scontro ancora lungo, dagli esiti incerti e potenzialmente sorprendenti. Ne discutiamo con Luci Cavallero, ricercatrice in sociologia al CONICET e militante di Ni Una Menos Buenos Aires.
Fin dai primi annunci del governo le principali città argentine sono entrate in stato di agitazione permanente, che ha spinto il Congresso a bloccare, almeno temporaneamente, la “legge omnibus” voluta da Milei. Proviamo anzitutto a ricostruire il processo di mobilitazione, le sue rivendicazioni, i suoi soggetti e le sue forme.
La reazione è stata molto rapida perché l’offensiva del governo è la più violenta e crudele della storia argentina. Per descriverla, diciamo che si tratta di un “rigurgito proprietario” o di una “vendetta dei padroni”.
Il governo Milei ha condotto il suo attacco su quattro fronti contemporaneamente: 1) un aggiustamento del budget brutale, attraverso la più forte svalutazione della moneta finora vissuta in Argentina, accompagnata dalla liberalizzazione dei prezzi e dal congelamento dei salari; 2) un decreto d’urgenza, sostanzialmente anticostituzionale, annunciato la sera dell’anniversario della rivolta del 2001. Si tratta di una riforma che colpisce de facto la struttura costituzionale: una legge che pretende cambiare il regime giuridico dell’accumulazione di capitale in Argentina; 3) la “legge omnibus” che completa le riforme contenute nel decreto appena citato, e che trasforma definitivamente l’Argentina in una colonia del capitale estero tramite la svendita delle imprese pubbliche e delle risorse naturali; 4) una riforma repressiva, il cui baricentro consiste nell’applicazione del “protocollo di sicurezza”, con cui si criminalizzano le proteste e la mobilitazione sociale.
A fronte di tutto questo, i cacerolazos [pentolate spontanee] sono cominciati subito, nella notte del 20 dicembre, e sono stati animati, in particolare, dai settori della classe media che si oppongono a Milei, ma che oggi non trovano rappresentanza in nessuno spazio politico. Tale reazione ha dato origine a diverse assemblee di quartiere, che tutt’ora continuano a riunirsi. Le assemblee si organizzano sia per quartiere sia per settore lavorativo – ce ne sono molte, per esempio, legate all’ambito della “cultura” e dello “sport”, particolarmente colpiti dalla deregulation economica imposta dal governo.
Dall’altra parte, ci sono i sindacati tradizionali, che si mobilitano contro delle riforme, contenute soprattutto nel decreto, che mettono in discussione la possibilità stessa dell’associazione sindacale e, più in generale, contro l’aggiustamento budgetario proposto dal governo. Sono questi sindacati, capitanati dalla CGT, che hanno deciso di convocare uno sciopero generale e assumere così un forte protagonismo nello scontro con il governo.
Vanno poi menzionati quelli che, in Argentina, chiamiamo “movimenti sociali” (la galassia dei piqueteros, nelle sue molteplici varianti) che rinforzano e spingono i sindacati tradizionali, mantenendo tuttavia una dinamica propria e un’agenda specifica, legata alle rivendicazioni riguardanti l’assistenza alimentare e i programmi di assistenza sociale necessari alla riproduzione della vita delle lavoratrici informali e dell’economia popolare.
Vi è infine il movimento femminista, che funziona attraverso una “assemblea trasversale” (alla quale partecipano tutti i soggetti sopra citati) e tenta di dinamizzare il processo di resistenza, ibridandosi con ciascuna delle forze in campo, e non solo reagendo settore per settore.
È chiaro che l’attacco del governo è stato talmente brutale da generare una risposta rapida da parte di una moltitudine di soggetti, compresi quelli che, in una situazione normale, non avrebbero risposto in modo così radicale di fronte a un governo che ha appena ricevuto l’investitura. La sfida che ci aspetta è il proseguimento della lotta iniziata con le iniziative di dicembre e lo sciopero del 24 gennaio, per iscrivere lo sciopero femminista dell’8 marzo in questa dinamica generale.
L’ampiezza delle misure contenute nel “Decreto Necessità e Urgenza” e nella “Legge Omnibus” fa pensare non soltanto ad alcune riforme puntuali, ma a un autentico progetto di società. Da un lato, il governo propone una terapia economica shock per ottemperare alle richieste di “aggiustamento budgetario” del Fondo Monetario Internazionale. Dall’altro, pone le basi per una svolta securitaria e una restaurazione patriarcale e razzista dell’architettura istituzionale. Come affrontare questa sfida per molti versi storica?
È importante partire dal fatto che, sebbene il governo stia applicando una dottrina neoliberale shock – una tattica tipica delle dittature latinoamericane del secolo scorso, nonché dalle diverse ondate di riforme neoliberali (nel caso argentino, quelle di Menem, e poi di Macri) –, questo governo presenta elementi nuovi, che dovremo essere in grado di affrontare in termini strategici.
Ad esempio, non è chiaro se stia operando di un’ottica di “stabilizzazione”. Anzi, sembra piuttosto che l’obiettivo sia generare il caos, per creare le condizioni necessarie a un rapido saccheggio dell’economia nazionale e alla dollarizzazione dei suoi circuiti monetari. In questo senso, l’approccio di Milei ci pone di fronte a sfide nuove e complicate, perché non è più possibile la mediazione politica, né uno “scambio di governabilità”, tra istituzioni e movimenti. La scommessa, come dicevo, sembra consistere nella distruzione e nel disarmo dello Stato: un processo da portare a termine nel modo più rapido e brutale possibile, senza alcuna remora, e senza costruire alleanze con altre forze politiche.
Tornando alle nostre sfide e alla necessità di inventare nuove strategie, va sottolineato che dobbiamo mantenere un piano di autotutela e autoprotezione. Siamo di fronte a un grave rischio di criminalizzazione e persecuzione della protesta sociale. A questo punto, la sfida è costruire un movimento di massa, che è la migliore autodifesa possibile contro l’avanzata della repressione. L’altra sfida è quella di generare le più ampie alleanze politiche possibili tra tutti i settori già colpiti dalle politiche di Milei. In questo senso, il femminismo può contribuire molto perché negli ultimi anni ha saputo sviluppare delle pratiche politiche volte a generare trasversalità nel movimento. Infine, la dimensione internazionalista risulta fondamentale. L’esperimento argentino ha evidentemente delle implicazioni globali. Oggi, l’Argentina rappresenta il principale laboratorio della sintesi tra neoliberismo e autoritarismo. Per affrontarla, nuove alleanze internazionaliste saranno ineludibili.
Che ruolo possono giocare in questo contesto le lotte femministe che hanno stravolto la scena argentina e internazionale nell’ultimo decennio? E come le collochi, più in generale, nella fase che attraversa il continente latino-americano?
Nel 2015 è iniziato in Argentina un nuovo ciclo di lotte femministe che si è diffuso in diversi Paesi del mondo, prima con la campagna Ni Una Menos (Non Una di Meno) contro la violenza maschile sulle donne e poi con lo sciopero femminista transnazionale.
Quello che stiamo vivendo con l’anarcocapitalismo autoritario di Milei è una reazione a questo processo trasversale e popolare che ha messo in discussione strutture di disuguaglianza molto importanti per il capitalismo finanziario, come il lavoro informale non retribuito o la richiesta di riconoscimento salariale per le lavoratrici dell’economia popolare. Ribadisco: l’Argentina è oggi un laboratorio per l’ultradestra globale, che qui si presenta in una versione ancora più crudele e ultraliberale.
Se pensiamo a questa situazione da una prospettiva latino-americana, vediamo che tutto il continente vive in una sorta di lotta per procura, in buona parte determinata dalle strategie nordamericane, che hanno al centro la concorrenza geopolitica e geoeconomica tra Cina e Stati Uniti. Oggi gli USA hanno bisogno di avere l’America Latina sotto controllo, con la piena sicurezza dell’accesso alle sue risorse naturali, come il litio, l’acqua, la terra e l’energia. È per questo che, negli ultimi anni, abbiamo assistito a situazioni di rottura istituzionale in Paesi come il Brasile, la Bolivia e il Perù. È in atto un vero e proprio processo di ricolonizzazione del nostro continente, che è diventato un campo di battaglia fondamentale per la disputa globale sulle risorse. Ed è chiaro che il governo di Milei è organicamente legato agli interessi di fondi d’investimento finanziario, come Black Rock, che detengono il debito argentino e sono azionisti delle principali aziende del paese, nonché degli altri paesi latino-americani, che si contendono l’accesso alle risorse, per garantire la “transizione energetica” del Nord globale.
Credo che il dibattito tenutosi quest’anno al Forum di Davos sia molto eloquente in questo senso. Il presidente Milei ha nominato, in questa sede, i suoi principali nemici: il femminismo e la lotta per l’ambiente. Credo che siano queste lotte ad opporsi chiaramente al ruolo che l’America Latina è destinata a svolgere nel mondo a venire, come territorio da sacrificare attraverso l’estrazione di risorse strategiche.
In una conversazione alla vigilia dello sciopero, hai sostenuto che l’Argentina non si trova di fronte all’alternativa tra il governo anarco-liberale di Milei e un nuovo governo peronista moderato, ma subisce piuttosto un processo di distruzione accelerata dal finale incerto. Il tipo di transizione che si profila risulta indeterminato, mentre la lotta non si esprime ancora nella forma di un vero e proprio “estallido” [esplosione] sociale…
Credo che oggi non sia possibile intravedere una chiara soluzione istituzionale a questa crisi, che è molto diversa da quella del 2001. All’epoca, infatti, c’erano forze politiche peroniste disposte a prendere il potere, sostenute da un settore dell’imprenditoria nazionale che si opponeva attivamente alla completa dollarizzazione dell’economia.
Oggi ci troviamo invece in uno scenario molto più incerto, nel quale un aggiustamento budgetario senza precedenti nella storia viene applicato a una popolazione che viene da almeno otto anni di compressione dei salari e di aumento della precarietà della vita.
È importante ricordare che da quando Fondo Monetario Internazionale è presente in Argentina ci siamo trovati in un processo di declino che ora si sta approfondendo, in modo particolarmente violento, senza precedenti storici immediati. A differenza del 2001, potremmo dire che oggi l’aggiustamento budgetario viene assorbito privatamente, attraverso l’aumento del debito delle famiglie. Questo è un aspetto che abbiamo studiato con Verónica Gago: il debito delle famiglie è ciò che ammortizza nel tempo i piani di aggiustamento e austerità. Questo processo ha un unico limite: la pazienza di chi è indebitato.
Di recente ho lavorato a un’indagine con il Sindacato degli Inquilini, che ha mostrato come, da quando è in vigore il Decreto Necessità e Urgenza, che deregolamenta l’economia, la popolazione si stia indebitando sempre di più a causa della liberalizzazione dei prezzi di beni e servizi di base, come il cibo, le medicine e gli affitti. Stiamo facendo un grande sforzo per diffondere l’idea che il rovescio della medaglia della “libertà finanziaria” è la violenza economica nei confronti delle maggioranze sociali. Lo stiamo facendo anche a livello legale, cercando di contribuire al processo di dichiarazione di incostituzionalità del Decreto. Malgrado gli sforzi finora compiuti, la situazione è però insostenibile e sta peggiorando molto rapidamente. Non sappiamo che forma prenderanno il malcontento e i disordini, che finora sembrano essere interpretati ed elaborati meglio dall’ultradestra. Questa è un’altra differenza rispetto al 2001, quando i disordini avevano uno sbocco anti-neoliberale. Per questo credo che la nostra sfida più grande sia quella di generare una politica in grado di fornire una soluzione a questa agitazione generalizzata, che non si limiti a essere reattiva, resistenziale, e credo che il femminismo abbia molto da insegnare da questo punto di vista.