Nulla di nuovo per i nostri lettori, in questo articolo dell’economista Ashoka Mody, che sugli effetti distruttivi dell’euro per l’Europa – dal punto di vista economico e politico – riprende quanto Alberto Bagnai ha cominciato a spiegare sei anni fa sul suo blog Goofynomics. Tuttavia come è noto repetita iuvant, e questo quadro sintetico e chiaro della situazione costituisce comunque un ripasso utile. Se è vero, come è vero, che è sempre più necessario e urgente che il numero più alto possibile di persone prenda consapevolezza dei termini del problema dell’euro e di che cosa sia in gioco per l’Europa e per il nostro Paese.

 

Di Ashoka Mody, 

 

 

 

Due elezioni europee – in Germania il 24 settembre 2017 e in Italia il 4 marzo 2018 – avvertono che i popoli europei si stanno allontanando gli uni dagli altri. Gran parte del recente aggravarsi di questa divisione può essere attribuito alla moneta unica europea, l’euro. In questo articolo si sostiene che la divisione politica in Europa ormai può essere difficile da ricucire, se non si sposta l’attenzione sulle priorità nazionali, rivolgendosi con urgenza ai bisogni di chi è rimasto indietro.

 

L’economista dell’Università di Cambridge Nicholas Kaldor fu il primo ad avvertire che l’euro sarebbe stato un fattore di divisione per l’Europa(ripubblicato in Kaldor, 1978). La sua posizione critica fu espressa nel marzo del 1971 in risposta al rapporto della Commissione Werner, che presentava il progetto originale di quella che sarebbe stata l’architettura della zona euro (Werner 1970). Kaldor scrisse allora che una politica monetaria unica (insieme a una stessa politica fiscale applicata a tutti), utilizzata per paesi europei diversi tra di loro, avrebbe fatto divergere le loro economie. La logica era semplice: una politica monetaria troppo rigida per un paese può essere troppo allentata per un altro. E la divergenza economica, affermò Kaldor, avrebbe provocato spaccature politiche. Altri ammonimenti di questo segno continuarono ad arrivare. Il premio Nobel Milton Friedman (1997), economista dell’Università di Chicago, predisse che la struttura squilibrata dal punto di visto economico dell’euro avrebbe “esacerbato le tensioni politiche, trasformando shock divergenti, che avrebbero potuto essere affrontati facilmente agendo sui tassi di cambio, in problemi politici laceranti”.

 

I leader europei respinsero queste critiche. E continuarono a insistere con l’idea che la moneta unica avrebbe avvicinato l’Europa all’unione politica (Sutherland 1997).

 

Un consenso tollerante?

 

Il discorso sulla possibilità di un’unione politica in Europa è stato condotto principalmente all’interno del gruppo delle cosiddette élite. Queste élite – leader politici e burocrati – avevano ben poche basi per prevedere che gli interessi nazionali potessero essere riconciliati per fare l’Europa unita. Ma fecero un’altra assunzione, ovvero di avere un “consenso tollerante” da parte dell’opinione pubblica, che avrebbe consentito loro di prendere decisioni di ampia portata sulle questioni europee (Mair 2013).

Come sostengo in un libro prossimo all’uscita (Mody 2018), questo consenso tollerante ha cominciato a crollare nel momento in cui la moneta unica europea è diventata una realtà politica.

Dopo la firma del trattato di Maastricht nel febbraio 1992, il popolo danese ha respinto la moneta unica in un referendum tenuto nel giugno 1992. E nel settembre 1992 anche i francesi arrivarono ad un soffio dal rifiutare la moneta unica.

 

La distribuzione dei voti al referendum francese prefigurava in modo singolare le recenti proteste politiche. Chi aveva votato contro la moneta unica tendeva ad avere redditi bassi e istruzione limitata, viveva in aree che stavano trasformandosi in zone industriali dismesse, aveva posti di lavoro precari e, per tutte queste ragioni, era profondamente preoccupato per il futuro (Mody 2018 : 101-103). Votando contro il Trattato di Maastricht, non esprimeva necessariamente un sentimento anti-europeo; piuttosto, chiedeva che i politici francesi prestassero maggiore attenzione ai problemi interni, gli stessi che le istituzioni e le politiche europee non potevano risolvere.

 

Negli anni seguenti, il consenso tollerante ha continuato a sgretolarsi. La voce popolare contro il “più Europa” si è di nuovo espressa nei referendum sul Trattato Costituzionale Europeo tenuti nel 2005. I referendum hanno permesso di concentrare l’attenzione sulle questioni europee, che nelle elezioni nazionali erano scavalcate dalle priorità interne. Le élite europee hanno trovato facile liquidare i referendum come aberrazioni.

 

Una nuova fase critica è iniziata durante le crisi finanziarie dello scorso decennio. Dopo l’inizio della crisi globale, nel 2007, e poi attraverso la prolungata crisi dell’eurozona, le politiche monetarie e fiscali dell’area dell’euro hanno danneggiato la vita delle persone comuni che si sentivano abbandonate – i meno istruiti e chi vive fuori dalle grandi città. Le politiche condotte nell’eurozona, tuttavia, sono state esentate dal dover rispondere politicamente alle persone di cui hanno gravemente danneggiato le prospettive. Come conseguenza, le ribellioni interne hanno guadagnato forza in tutta l’area dell’euro. Queste ribellioni hanno avuto origine tra persone simili nei vari stati membri, ma come risultato hanno provocato una opposizione alle risposte pubbliche nazionali nei paesi del Nord e del Sud, aumentando la frattura politica.

 

L’ascesa di Alternative für Deutschland in Germania

 

La forma più virulenta di frattura politica è emersa nel crogiolo della crisi finanziaria dell’eurozona nel 2012. Il consenso tollerante alla fine è saltato.

 

In Germania nel settembre 2012 un gruppo di membri di lunga data della Unione Cristiana Democratica (CDU) della Cancelliera Angela Merkel ha dato vita a un nuovo movimento politico, Electoral Alternative. Il nuovo movimento rappresentava chi rifiutava di accettare la tesi della Merkel secondo cui la Germania non aveva alternativa che sostenere finanziariamente le nazioni in difficoltà della zona euro. Nel febbraio 2013, Electoral Alternative si convertì in un partito politico, Alternative für Deutschland (AfD), che si schierò per lo scioglimento dell’area dell’euro.

 

Benché alle elezioni per il Bundestag del settembre 2013 AfD non avesse superato la soglia del 5%, ottenne forza politica a partire dall’agosto 2015, in seguito alla linea della Merkel di porte aperte ai rifugiati siriani. Vedendo che stava perdendo il sostegno popolare, la Merkel passò rapidamente a bloccare il flusso di rifugiati e migranti, ma AfD ha continuato a guadagnare forza politica. Nelle elezioni del settembre 2017 ha ricevuto il 12,6% dei voti. Molti degli elettori di AfD nel 2017 alle elezioni del 2013 non avevano votato, avendo perso la fiducia di poter avere una voce all’interno del processo democratico. Nel 2017 questi elettori hanno cercato soluzioni al di fuori del mainstream politico. Gli elettori di AfD avevano una caratteristica molto specificamente tedesca: molti erano tedeschi dell’Est. A parte questo, tuttavia, il voto ha manifestato uno schema osservato altrove in Europa e negli Stati Uniti. Nella Germania dell’Est e dell’Ovest hanno votato in grande numero per AfD elettori maschi a basso reddito con istruzione scolastica base o formazione professionale (Roth e Wolff 2017). La maggior parte degli elettori di AfD aveva tra i 30 ei 59 anni; facevano lavori manuali, spesso precari. Vivevano in piccole città e aree rurali.

 

In questo modo negli elettori di AfD si sovrapponevano la protesta economica e il sentimento anti-immigrati, una sovrapposizione che Guiso et al. (2017: 5) riscontra in diversi paesi europei. Persino la prospera Germania ha lasciato indietro molti dei suoi cittadini. Marcel Fratzscher, presidente dell’istituto di ricerca DIW Berlin, spiega nel suo libro in uscita prossimamente che i vantaggi economici ottenuti dal paese negli ultimi decenni non hanno raggiunto la metà socialmente inferiore della popolazione tedesca (Fratzscher 2018). In questa metà più bassa i redditi reali sono cresciuti pochissimo; e pochi sono in grado di mettere da parte qualcosa da usare in caso di future difficoltà. L’alienazione politica e il conflitto all’interno della società sono aumentati.

 

Con il CDU e i socialdemocratici che hanno subito una battuta d’arresto storica, una coalizione di governo si è dimostrata difficile da formare e la Germania è rimasta senza governo per cinque mesi, evento senza precedenti. Recentemente – per coincidenza, nello stesso giorno delle elezioni italiane, il 4 marzo 2018 – il CDU e i socialdemocratici hanno infine accettato di formare una “grande coalizione”. Un governo tedesco sarà presto in carica, ma i dati dei sondaggi mostrano il continuo declino del sostegno popolare alla CDU e in particolare ai socialdemocratici. AfD sarà il più grande partito di opposizione nel Bundestag e, per ora, il suo sostegno nei sondaggi è in aumento.

 

Il movimento anti-Europa in Italia

 

Gli sviluppi italiani sono stati paralleli. In Italia il Movimento Cinque Stelle, guidato dal comico-blogger Giuseppe “Beppe” Grillo, è passato da una relativa oscurità alla preminenza nelle elezioni del febbraio 2013, ottenendo il 25% dei voti. L’Italia si è trovata in una recessione quasi costante dall’inizio del 2011, con una crescente perdita di posti di lavoro, soprattutto tra i giovani. L’appello a una democrazia diretta lanciato dal Movimento Cinque Stelle è entrato in risonanza con gli elettori frustrati dalle politiche monetarie e fiscali europee, che hanno profondamente influenzato le loro vite ma che da parte loro si sentivano impotenti ad influenzare. Le aree più povere del Sud hanno votato per i candidati dei Cinque Stelle. Ma sia al Nord sia al Sud, la percentuale di voti ricevuti dai candidati dei Cinque Stelle è stata maggiore nelle regioni colpite dalla più alta disoccupazione (Romei 2018).

 

Per gli italiani, le sofferenze degli anni della crisi si sono aggiunte alla stagnazione economica già iniziata da quando l’Italia è entrata nell’area dell’euro, nel 1999. La produttività economica – fonte di standard di vita più elevati – ha smesso di crescere, i produttori italiani hanno perso competitività internazionale e posti di lavoro ben remunerati hanno incominciato a sparire, senza essere sostituiti da nulla di equivalente. Le crisi finanziarie – prima la crisi globale iniziata nel luglio 2007 e poi la crisi permanente dell’area euro – hanno aggravato le disfunzioni economiche e politiche italiane. L’enfasi posta dalle autorità dell’eurozona su una politica monetaria rigida e un’incessante austerità hanno depresso la crescita economica e hanno quindi avuto la conseguenza perversa di aumentare il peso del debito pubblico. Nel frattempo, l’austerità fiscale forzata ha affossato la capacità del governo di attutire le sofferenze dei cittadini più vulnerabili in campo economico. E sebbene l’annuncio del presidente della BCE Mario Draghi nel luglio 2012 che la BCE avrebbe fatto “qualsiasi cosa fosse necessaria” per salvare l’euro abbia contribuito a ridurre il tasso di interesse nominale che il governo italiano paga sul suo debito, il tasso di interesse “reale” (tasso nominale aggiustato per l’inflazione) è rimasto alto. Lo strangolamento economico per l’Italia continua. All’inizio del 2013 l’italiano medio era più povero rispetto al momento dell’ingresso nell’euro.

 

Nelle elezioni del febbraio 2013 Grillo ha condotto la campagna su una piattaforma anti-europea, promettendo addirittura di indire un referendum per stabilire se l’Italia dovesse rimanere nell’unione monetaria. Mario Monti, Presidente del Consiglio uscente, nominato a capo di un governo provvisorio “tecnocratico” nel novembre 2011, ha fatto una campagna elettorale pro-Europa e ha preso una batosta elettorale. Pier Luigi Bersani, capo del Partito Democratico (PD) di centrosinistra, promise a sua volta un governo filo-europeo, facendo scendere il suo partito al 29% dei voti, in calo rispetto al 38% delle elezioni del 2008.

 

Benché il PD sia riuscito a guidare un governo di coalizione, è passato attraverso due presidenti del Consiglio – Enrico Letta e Matteo Renzi – prima di convergere su Paolo Gentiloni. Ma il danno ormai era fatto. La lotta per il potere all’interno del PD, in gran parte legata a Renzi, ha eroso la reputazione del partito e la sua posizione pubblica. Nelle elezioni del marzo 2018, il PD ha preso il 19% dei voti. Al contrario, il Movimento Cinque Stelle ha aumentato la sua quota di voti portandola al 32%. I partiti anti-europei hanno ricevuto complessivamente circa la metà dei voti; se si aggiunge Forza Italia dell’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, con il suo scetticismo europeo più morbido, nelle ultime elezioni quasi due terzi degli italiani hanno preso le distanze dall’Europa.

 

Così, in Germania AfD ha attirato i tedeschi in ansia per i problemi economici e preoccupati che il governo tedesco stia facendo troppo per l’Europa. In Italia, il Movimento Cinque Stelle ha guadagnato voti perché gli italiani in ansia sono arrabbiati perché il sistema europeo li svantaggia, e persino pregiudica il loro futuro. Nonostante il continuo calo dei tassi di interesse nominali nell’ambito del programma di quantitative easing della BCE in atto da gennaio 2015, il tasso di interesse reale per gli italiani rimane superiore all’1%; al contrario, il tasso di interesse reale per i tedeschi è -1%, il che dà ai produttori e ai consumatori tedeschi una maggiore capacità di spesa e crescita. Attuare una politica monetaria unica per tutti continua ad alimentare la divergenza economica tra Stati membri del Nord e del Sud, che a sua volta sostiene e amplifica le divisioni politiche.

 

Oggi molti sperano che, spronata dalla richiesta del presidente francese Emmanuel Macron di procedere a una riforma dell’eurozona, la Merkel lavorerà per riparare l’architettura dell’area dell’euro. Ma è una speranza illusoria. La Merkel è fin troppo consapevole che qualsiasi segno di generosità finanziaria nei confronti dell’Europa incoraggerà i ribelli all’interno della CDU. Altre nazioni del Nord hanno chiarito che si opporranno a qualsiasi richiesta che vada a carico dei contribuenti del loro Paese (Rutte 2018, Ministri delle Finanze 2018). Nessuno stato membro dell’area dell’euro è disposto a cedere la sovranità del proprio parlamento nazionale in materia di politica fiscale. Le decisioni strategiche rimarranno scollegate dalla responsabilità politica. E così, anche se fossero pianificati nuovi accordi finanziari, sarà impossibile ottenere la responsabilità politica nella gestione dell’area dell’euro. Le tensioni politiche continueranno a crescere.

 

Osservazioni conclusive

 

Non ci sono risposte facili ai problemi economici e politici dell’Europa. Per questo motivo, come sostengo nel mio prossimo libro, le risposte non saranno trovate nel “più Europa”. Per troppo tempo i leader dell’eurozona hanno respinto o denigrato le ribellioni pubbliche nazionali. Questo è un errore terribile. Per quanto possano avere limiti, o essere a volte nazionaliste e xenofobe, queste ribellioni trasmettono un messaggio importante. Oltre alla sofferenza che l’euro infligge direttamente, la moneta unica distrae l’attenzione dei leader europei da dove dovrebbe essere rivolta: alle priorità nazionali. Di particolare importanza è il rafforzamento del capitale umano, una capacità in cui tutti i paesi dell’area dell’euro meridionale (e anche alcuni paesi del Nord) sono in ritardo rispetto ai leader mondiali.

 

In parole povere, i leader europei devono spostare i loro sforzi dall’obiettivo, in ultima analisi impossibile, di rendere più politicamente responsabile la gestione dell’eurozona, concentrandoli verso i programmi economici nazionali che possano dare speranza a chi oggi non si sente più trattato come un cittadino. Se non riusciranno in questo cambiamento, la politica interna continuerà a frammentarsi, e mentre ciò accade la politica europea diventerà sempre più aggressiva.

 

Riferimenti bibliografici:

 

Finance Ministers from Denmark, Estonia, Finland, Ireland, Latvia, Lithuania, the Netherlands and Sweden (2018), “Shared Views and Values in the Discussion on the Architecture of the EMU”, 6 marzo.

Fratzscher, M (2018), The German Illusion, New York: Oxford University Press.

Friedman, M (1997), “Why Europe Can’t Afford the Euro”, The Times,19 novembre.

Guiso, L, H Herrera, M Morelli, and T Sonno (2017), “Populism: Demand and Supply”, 21 novembre.

Kaldor, N (1978), “The Dynamic Effects of the Common Market”, in N Kaldor, Further Essays on Applied Economics, New York: Holmes and Meier.

Mair, P (2013), Ruling the Void: The Hollowing of Western Democracy, London: Verso.

Mody, A (2018), EuroTragedy: A Drama in Nine Acts, New York: Oxford University Press.

Rutte, M (2018), “Speech by the Prime Minister of the Netherlands, Mark Rutte, at the Bertelsmann Stiftung, Berlin.” 2 marzo.

Romei, V (2018), “Italy’s Election: Charts Show How Economic Woes Fuelled Five Star”, Financial Times, 7 marzo.

Roth, A and G Wolff (2017), “What Has Driven the Votes for Germany’s Right-Wing Alternative Für Deutschland?”, Bruegel Blogpost, 5 ottobre.

Sutherland, P (1997), “The Case for EMU: More Than Money”, Foreign Affairs 76(1): 9–14.

Werner, P (1970), “Report to the Council and the Commission on the Realization by Stages of Economic and Monetary Union in the Community”, in Monetary Committee of the European Communities, 1986, Compendium of Community Monetary Texts, Luxembourg: Office of Official Publications of the European Communities.

 

http://vocidallestero.it/2018/03/25/ashoka-mody-si-aggrava-la-divisione-politica-delleurozona/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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