Noi che siamo cresciuti e ci siamo appassionati alla politica durante la “prima repubblica”, il lunedì pomeriggio delle elezioni, quando alle 14.00 chiudevano i seggi, sapevamo che poco dopo – mezz’ora o poco più – sarebbero arrivate le prime proiezioni della Doxa. Erano utili quelle percentuali, ma negli anni successivi mi hanno insegnato che a volte possono ingannare e che è sempre più utile contare i voti, una pratica che cerco ancora di coltivare.
Allora guardavamo a quei risultati con trepida attesa, ma anche con la consapevolezza che non sarebbe successo nulla di sconvolgente. E infatti avevamo imparato a leggere gli spostamenti minimi, anche quelli “raccontati” dai decimali. Uno zero virgola qualcosa in più – o in meno – rappresentava comunque un dato da analizzare, ai tempi della Dc e del Pci.
Non è che allora le persone non cambiassero idea da una votazione all’altra – facevamo le campagne elettorali per quello, per convincere gli altri a votare per noi – ma certamente gli spostamenti di voti da un partito all’altro non erano così numericamente consistenti come oggi e comunque erano parte di un processo, che aveva tempi anche lunghi per rendersi evidente e per segnare un passaggio di fase.
Il Pci alle europee del 1984 ebbe 11.714.428 voti: si trattò di un risultato eclatante, perché anche se alle politiche del 1976 aveva ottenuto più voti, quella fu la prima volta in cui, in un’elezione a base nazionale, ci fu il “sorpasso” ai danni della Dc. Certo pesò in quella tornata elettorale l’emozione profonda per la morte, pochi giorni prima del voto, di Enrico Berlinguer, quell’episodio drammatico, vissuto in diretta dagli italiani, incise e spostò molti voti, ma comunque alle politiche dell’anno precedente il Pci aveva 11.032.318 voti: si tratta di una differenza notevole, ma comunque inferiore a 700mila voti.
E anche quando cominciò la “seconda repubblica” – quella in cui io ho esercitato la mia attività politica – anche se gli attori erano cambiati, non lo erano poi così tanto gli elettori. Quando guardammo la cartina delle prime elezioni politiche fatte con il sistema maggioritario vedemmo l’Italia che sostanzialmente conoscevamo già: rossa in Emilia (a esclusione della “lombarda” Piacenza e includendo la campagna mantovana delle lotte bracciantili), in Romagna e nelle regioni del centro Italia, blu al nord e al sud. E anche nelle dinamiche locali vedevamo quello che già conoscevamo. Ad esempio il democristianissimo comune di Castel d’Argile, da sempre isola bianca nella rossa pianura bolognese, divenne l’unica roccaforte del centrodestra in mezzo a comuni dove la maggioranza era saldamente in mano al centrosinistra. E allo stesso modo all’interno delle regioni colorate di blu riconoscemmo le enclaves rosse, là dove dovevano essere. E così potrei continuare, perché comunque i “nuovi” erano gli eredi dei “vecchi” e ne avevano assunto insediamenti territoriali e gruppi dirigenti, oltre che i blocchi sociali a cui facevano riferimento.
Nel corso degli anni vedevamo che qualcosa stava rapidamente cambiando: io sono uno di quelli che ha “perso” Bologna nel ’99, anche se poi dopo cinque anni l’abbiamo ripresa. Comunque vedevamo che i collegamenti si allentavano, che stavano cambiando le cose, ma allora non capimmo cosa fare. E non lo capiamo neppure ora.
Adesso – non so se possiamo dire nella “terza repubblica”, come dice qualcuno, ma certo ci siamo vicini – quella razionalità politica non funziona più o almeno quelle nostre categorie interpretative sono del tutto inutili. Mi ha colpito il risultato del Friuli-Venezia Giulia, i cui elettori sono stati chiamati al voto, per le politiche e per le regionali, a meno di due mesi di distanza. Il 4 marzo il M5s ha avuto 169.299 voti, mentre il 29 aprile lo stesso partito ha preso 62.775 voti: come si fa a perdere centomila voti in due mesi? Non basta dire che si tratta di elezioni diverse – tanto più che le regionali sono da sempre le più “politiche” tra le amministrative, perché si tratta comunque di un livello di governo piuttosto lontano dai cittadini: per uno di Manzano, nel distretto delle sedie sul Natisone, Trieste e Roma sono più o meno equidistanti. Non basta dire che in queste otto settimane quell’elettorato non si è ritrovato nelle scelte fatte da Di Maio per la formazione del governo. Certo quel partito non esiste sui territori, non ha sedi, non ha gruppi dirigenti locali, esiste solo in televisione, è una grande testa senza corpo, ma anche questo da solo non basta. Perché anche un partito che esiste, come il pd, ha un andamento di voti assolutamente schizofrenico: a livello nazionale nel 2008 aveva 12.095.306 voti, che l’anno dopo scendono a 8.007.854 e così più o meno, pur crescendo di mezzo milione, rimangono fino al 2013, poi nel 2014 arrivano a 11.203.231 e infine crollano a 6.134.727 nel 2018. In dieci anni il pd ha perso sei milioni di voti. La Dc morì perché passò dai 13.241.188 voti del 1987 agli 11.640.265 del 1992: praticamente perse un milione e mezzo, ma quel partito chiuse.
E mi pare che non sia qualcosa che avviene solo in Italia, visto che in Francia Emmanuel Macron in un anno è riuscito a raccogliere, contro i partiti tradizionali, più di venti milioni di voti, un fenomeno inspiegabile nel mondo in cui noi facevamo politica.
Quando guardo a tutti questi numeri ho come l’impressione che siamo arrivati a un punto in cui ogni elezione costituisca un caso a sé e quindi sia sottoposta a un grado imponderabile di irrazionalità. Io non sono di quelli che dicono che gli elettori sbagliano: in una democrazia l’unica regola è avere rispetto delle scelte degli elettori e accettarne le conseguenze. Però siamo di fronte a un problema, e non mi riferisco al dramma di noi che, professionalmente o per puro diletto, pretendiamo di divinar responsi sulla politica e regolarmente li scazziamo.
E’ un problema. Dobbiamo riconoscere che nessun corpo intermedio ha ormai più la capacità di influenzare e determinare il voto: non hanno questa forza i partiti, che non esistono più – almeno come noi li abbiamo conosciuti – non ce l’ha la chiesa, né il sindacato né tutti i soggetti che l’hanno avuta per qualche periodo. Quando io ho cominciato a fare politica, nella piccola realtà in cui vivevo, ci conoscevamo tutti e praticamente di tutti sapevamo come votavano, perché la dimensione politica era pubblica e importante per tutti. Oggi non è così, neppure in una realtà piccola, perché le persone non si conoscono, perché nessuno le conosce e la dimensione politica, quando c’è, è assolutamente privata. E riflette una irrazionalità che può cambiare nel giro di qualche settimana. Al di là di chi ne ha beneficiato ieri e di chi ne godrà domani, credo che questo sia un problema per la democrazia, come stiamo vedendo anche in queste settimane, perché prima o poi questo vuoto qualcuno lo riempirà. E allora ci sarà poco da contare.

 

 

 

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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