Quando andava a scuola, Alessandra passava ogni mattina quasi un’ora in autobus, per raggiungere l’istituto agrario della sua città. Aveva scelto il suo percorso senza troppa convinzione all’inizio, poi aveva iniziato ad interessarsi davvero a quello che studiava, e l’idea di continuare ad approfondirlo anche all’università si era fatta man mano spazio nei suoi progetti. Sarebbe stata la prima, in casa, ad andare all’università: i suoi genitori non si erano diplomati, ma con mille sacrifici, tra libri e trasporti, erano riusciti a sostenerla fino alla maturità. Una volta finita la scuola, però, aveva dovuto fare due conti: tasse, libri di testo, l’abbonamento del treno… l’università costava troppo, ed era una spesa insostenibile. Come tanti suoi compagni, aveva dovuto rinunciare all’idea e iniziare a cercare un lavoro.
Giorgia sta per laurearsi in medicina, sei lunghissimi anni di università per poi provare una specializzazione in chirurgia come sogna da quando andava a scuola. Sei anni in cui non si è potuta permettere mai un attimo di riposo, perché andare fuoricorso era fuori discussione dato che l’unico stipendio, in casa, è quello della madre, impiegata alle Poste. Fra i suoi colleghi di corso, tantissimi sono figli di medici, docenti universitari o avvocati, e quelli che come lei, invece, vengono da condizioni familiari modeste o difficili, si contano sulle dita di una mano.
Mario e suo fratello Luca si stanno diplomando al liceo classico. Il padre operaio in un’impresa edile e la madre cassiera in un centro commerciale con un contratto in scadenza si sono chiesti spesso se, effettivamente, i loro figli avessero fatto la scelta migliore. Di certo non la più facile o scontata, considerando che sono gli unici nella loro classe a non essere figli di liberi professionisti, insegnanti o imprenditori. Pagare libri, dizionari e trasporti sarebbe stato impossibile se, d’estate, Mario e Luca non avessero trovato dei lavoretti, senza contare poi le ripetizioni private, dato che la scuola aveva eliminato tutti i corsi di recupero gratuiti per mancanza di fondi.
Per Nicola, invece, papà avvocato e mamma medico, iscriversi all’università era stata una scelta ovvia: frequenta il primo anno di giurisprudenza, si rende conto dei costi altissimi degli studi, e sa che senza la sua famiglia alle spalle non potrebbe affatto affrontarli. Più di un terzo dei suoi compagni di corso ha un background familiare simile: genitori laureati, imprenditori, professori all’università, dirigenti.
Queste sono le storie che potrebbero nascondersi dietro i grafici e le statistiche degli ultimi rapporti Almadiploma e Almalaurea. Rapporti che delineano un quadro già noto, quello di un Paese nel quale la scuola e l’università hanno smesso da tempo di essere motori di emancipazione e mobilità sociale per trasformarsi invece in luoghi di riproduzione delle diseguaglianze.
Alessandra sarebbe potuta essere una dei 46 figli di genitori non diplomati su 100 che dopo la scuola proseguono gli studi. Solo l’1,8% degli studenti di una scuola come la sua arriverà alla laurea. La sua storia, invece, è quella dei 7 diplomati su 10 in scuole professionali che sarebbero voluti andare all’università, ma alla fine hanno dovuto rinunciare.
Soltanto l’8,7% degli studenti di un liceo classico proviene da un contesto come quello di Mario e Luca: la metà dei loro compagni di classe è figlio invece di liberi professionisti, docenti universitari, dirigenti, imprenditori con almeno 15 dipendenti.
Giorgia fa parte del 15% dei laureati in magistrali a ciclo unico con genitori operai o impiegati, tanti dei suoi compagni di corso provengono invece da un contesto simile a quello di Nicola che, figlio di laureati, si sarebbe iscritto all’università con l’84% delle probabilità.
Se leggiamo questi dati in correlazione con quelli sulla povertà pubblicati dall’ISTAT, diventa ancor più chiaro come oggi da un lato è sempre più il contesto di provenienza a determinare fino a quando si proseguiranno gli studi, dall’altro come il titolo di studio condizioni profondamente l’incidenza di povertà assoluta, con un allargamento della forbice rispetto all’anno scorso (+2,5% per chi è in possesso di licenza elementare, -0,4% per i diplomati).
Per questo la battaglia per un’istruzione gratuita e di qualità è sempre più urgente, in un’ottica di generale contrasto alle diseguaglianze e per una prospettiva radicalmente trasformativa dell’esistente.
Il primo passo non può che essere abbattere le barriere d’accesso economiche ai luoghi della formazione: approvare e finanziare una legge quadro nazionale sul diritto allo studio e definire dei livelli essenziali delle prestazioni, abolire le tasse universitarie e implementare l’erogazione di borse di studio, fornire i libri di testo in comodato d’uso gratuito. Accanto a questo, ci sono poi da combattere tutti i costi indiretti dell’istruzione: alloggi, mense, trasporti, affitti, ripetizioni, corsi per i test d’accesso…Impossibile? No: per rendere realtà l’istruzione gratuita per tutte e tutti servirebbero meno soldi di quelli che sono stati tagliati su scuola e università ormai 10 anni fa. Una battaglia che non si può slegare da quella per l’accesso alla cultura e per un sovvertimento generale di quello che sono oggi i luoghi della formazione.
Combattere le diseguaglianze fin dai banchi di scuola -proprio laddove oggi iniziano a riprodursi- vuol dire praticare la cooperazione e sottrarre spazio alla competizione e al giudizio, costruire scuole e università accoglienti e accessibili, rivoluzionare la didattica, eliminare qualsiasi barriera all’accesso, reimmaginare il rapporto con il territorio e con il mondo del lavoro, ragionando di come cambiare il modello di sviluppo a partire dai saperi, e non di come adeguarli all’esistente.
Si tratta di una battaglia generale, che non riguarda solo gli studenti o chi vive scuole e università, ma tutta la cittadinanza; una battaglia che guarda immediatamente ad un futuro più giusto per tutti, ma che si muove in un presente tutto da riconquistare.
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