di CLAP – Roma
Dopo la catastrofe del Jobs Act, gli interventi sul lavoro del governo giallo-verde vengono definiti di “sinistra”. Ma sotto il “buon senso”, si nascondono pochezza e insidie. Bene chiarire, subito.
Due premesse fondamentali. La prima: il Decreto dignità non cancella la chiusura dei porti né renderà inoffensiva la flat tax. Che in Italia ci siano due governi, evidentemente in competizione, ci è chiaro; che il governo dei 5S riesca a sopravvivere a quello di Salvini, tutto da dimostrare; che la Lega stia trainando la diarchia, al momento, è più che una certezza. Seconda premessa: le reazioni del PD al Decreto dignità, tutte rigorosamente dalla parte delle imprese e dei poteri forti, spiegano – se ancora ce ne fosse bisogno – lo spostamento a destra della società italiana; con esso, il mostro populista che ci tocca in sorte. Più il PD parla, più lo scenario weimariano impazza, più Salvini ride.
Concentriamoci, ora, sui fatti e sulla norma. Certo, a leggere i titoli dei maggiori quotidiani, o le reazioni di Confindustria, la rivoluzione pare dietro l’angolo. Il Jobs Act, addirittura, sarebbe quasi caduto in pezzi. Già in molti hanno chiarito, ma riteniamo più che opportuno insistere.
In primo luogo, il contratto a tempo determinato. Vero sfondamento neoliberale, il Decreto Poletti (marzo 2014) aveva eliminato del tutto la causale: l’impresa poteva assumere senza dover in alcun modo giustificare l’esigenza temporanea di forza-lavoro. Bastano gli ultimi dati ISTAT per chiarire: dei 457mila occupati in più, rispetto al maggio dello scorso anno, 434mila sono lavoratori a termine. Bel regalo alle aziende, quello di Poletti. Cosa fa il Decreto dignità? Abbassa da 36 a 24 mesi il limite massimo dei contratti a termine, da 5 a 4 le proroghe, e reintroduce la causale… ma solo dopo i primi 12 mesi! Perché la misura è insufficiente? Facile, perché le imprese non si faranno fregare, e prima dei 12 mesi si sbarazzeranno senza problema alcuno del lavoratore temporaneo. Semplicemente, verrà alimentato il turn over.
In secondo luogo, il contratto a tempo indeterminato, ovvero a tutele crescenti. Dove non erano arrivati Berlusconi e Monti, lì, a partire dal 7 marzo del 2015, ce l’avevano fatta Renzi e Poletti: la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Quale la mossa del ministro Di Maio? Per i lavoratori ingiustamente licenziati, aumentano le indennità. Se prima andavano da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità, ora da un minimo di 6 a un massimo di 36. Invariato il metodo di calcolo, 2 mensilità (ovvero 2 mesi di retribuzione) per ogni anno lavorato. In assenza di tutela reale, quindi la reintegra sul posto di lavoro, non si capisce in che modo il lievissimo aumento delle indennità (raro, infatti, che un neoassunto conquisti 18 anni di anzianità di servizio) possa tenere a freno i recessi illegittimi.
In terzo luogo, la somministrazione a tempo indeterminato. Tipologia introdotta dalla Legge Biagi e completamente liberalizzata da Renzi, lo staff leasing non subisce alcuna restrizione. Ciò, a dispetto delle anticipazioni roboanti in merito. Entro il limite del 20% sul totale dei dipendenti, le aziende potranno continuare a servirsi senza problemi e stabilmente di lavoratori dipendenti delle agenzie terze.
Abbiamo a che fare dunque con una sproporzione: alle promesse radicali, seguono norme spuntate; la direzione di marcia pare corretta, ma la macchina non parte.
E la musica non cambia se concentriamo l’attenzione sul tavolo di lunedì pomeriggio con i riders, le imprese di Food Delivery, confederali e Confindustria. A seguito delle lotte potenti e innovative dei ciclo-fattorini, il ministro del Lavoro appena insediato ha deciso di incontrarne una delegazione. Intanto, un decreto più che dirompente stava per venire alla luce: l’estensione del campo della subordinazione, e dei suoi diritti, alle tante forme di lavoro che, pur non essendo comandate in modo tradizionale (vedi l’algoritmo) e prevedendo flessibilità d’orario, non sono collocabili nell’alveo dell’autonomia; né nel tertium genus, inesistente e fraudolento, della parasubordinazione. Poi la marcia indietro: che risolva il problema la contrattazione collettiva – così Di Maio. Neanche a dirlo, Foodora e soci hanno alzato un muro, con la complicità di CISL e UIL, e il ministro ha stralciato il problema. Si ipotizza un contratto ad hoc per i riders, come accade per colf e badanti. Bene allora fanno i ciclo-fattorini: affronteranno il negoziato riprendendo il conflitto.
Nella sproporzione tra promesse e realtà, dunque, e contro la combinazione nefasta di razzismo di Stato e questione sociale, va collocata l’iniziativa sindacale e di movimento. Imporre la causale, già dal primo giorno, e riconquistare la tutela reale (l’articolo 18); estendere e riqualificare il campo della subordinazione e, simultaneamente, combattere per il reddito di base; ostilità ad appalti e interinale e diritti per il lavoro autonomo – quello vero – impoverito e senza tutele; riaprire i porti e sconfiggere caporalato e schiavitù migrante nel lavoro agricolo: questo il programma minimo di una convergenza di lotte tutta da costruire.
Per saperne di più: il sito delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario
Dal Decreto dignità ai riders: promesse roboanti, norme spuntate