All’inizio del 2018, l’editore “Traficantes de Sueños” ha pubblicato Il patriarcato del salario di Silvia Federici. Nel bel mezzo della ripresa del movimento femminista su scala internazionale, il dibattito sulla relazione tra patriarcato e capitalismo torna in primo piano, in dialoghi non esenti da controversie tra femminismo e sinistre anticapitaliste, marxiste e socialiste.

Per introdurre questo nuovo dibattito, proponiamo la traduzione di un articolo comparso sulla rivista settimanale online del PTS argentino, Ideas de Izquierda, nell’edizione dello scorso 22 luglio.


Dalla metà del XIX secolo e fino ai primi decenni del XX, l’inserimento delle donne al lavoro extradomestico – propiziata, al principio dallo sviluppo del capitalismo e poi rafforzata dalla “scarsità” di forza lavoro maschile causata dalla I Guerra Mondiale – si scontrò con la mancanza, per le donne, di diritti politici. Ma la relativa uguaglianza con gli uomini sul mercato del lavoro, alla quale le masse femminili erano spinte dal capitale, (come succedeva anche in piena rivoluzione industriale con bambine e bambini), poneva in rilievo o rendeva maggiore il contrasto della disuguaglianza sul piano della società civile. Potremmo dire che si affrontavano la relativa e nuova “uguaglianza di fronte (alcuni aspetti della) la vita” verso l’insostenibile e vetusta “diseguaglianza di fronte la legge”  tra uomini e donne. Si potrebbe pensare che in questa contraddizione alberga la lotta per i diritti civili e il suffragio femminile capeggiata da donne illustri in Inghilterra, come in altri paesi avanzati, e accompagnata da grandi settori di lavoratrici.

Ad inizio XX secolo, lo Stato operaio transitorio, sorto dalla Rivoluzione russa, stabilì misure tendenti alla socializzazione del lavoro domestico realizzato dalle donne, che era uno dei pilastri fondamentali della politica bolscevica per l’emancipazione femminile. Sebbene questi provvedimenti erano, a causa della guerra e della crisi economica, piuttosto limitati costituirono un’esperienza d’avanzamento verso la fine dell’isolamento domestico delle donne e in favore di una loro partecipazione alla vita pubblica [1].

Negli anni ‘70 del Novecento, la seconda ondata femminista mise in evidenza la relazione tra il piano personale e quello politico. Svelando questa mistificazione, le donne stavano mettendo in questione, in maniera imprevedibile, quella discordanza che il capitale, dalla metà del XX secolo, era riuscito ad istituzionalizzare e far credere naturale: la separazione tra il pubblico (produzione, lavoro salariato) e il privato (riproduzione, lavoro non retribuito). I primi dibattiti sul lavoro domestico e il suo ruolo nel modo di produzione capitalistico risalgono a questi anni. Il lavoro domestico produce plusvalore? Esiste un modo di produzione patriaircale – rappresentato dal lavoro domestico – differente dal modo di produzione capitalistico o c’è un solo sistema capitalista-patriarcale in cui la riproduzione della forza lavoro è determinata e subordinata alla produzione di valori di scambio?

Nel 1972, l’autonomista marxista femminista Mariarosa Dalla Costa pubblica in Italia e in Gran Bretagna, Potere femminile e sovversione sociale, con la collaborazione della nordamericana Selma James. In questo testo si manifesta chiaramente come il lavoro di riproduzione sia fondamentale per il funzionamento del capitalismo e che il suo carattere essenziale è reso invisibile dall’assenza di retribuzione salariale. Insiema a Silvia Federici a New York, Brigitte Galtier a Parigi, fondano il Collettivo Femminista Internazionalista con lo scopo di promuovere un tale dibattito e di coordinare azioni nei vari paesi attraverso una rete di comitati che rivendicavano il “salario per il lavoro domestico”.

 

Tra i molti testi con diversi orientamenti che segnarono questo dibattito, nel 1983 esce Il marxismo e l’oppresione delle donne. Verso una teoria unificata, della nordamericana Lise Vogel. Mentre avanzava la controffensiva neoliberale, ponendo fine al periodo di radicalizzazione delle masse del decennio precedente, Vogel postulava che l’ordinamento del genere imposto dal capitalismo trovava strutturalmente spazio nell’articolazione sociale tra il modo di produzione capitalistico e i nuclei familiari della classe lavoratrice, piuttosto che in un patriarcato astorico o in un modo di produzione domestico separato radicalmente da ciò che stabiliscono le relazioni tra capitale e lavoro.

Negli ultimi decenni la straordinaria femminilizzazione della forza lavoro – che si materializza sotto condizioni di precarizzazione – e la relativa conquista di diritti democratici che, in un certo senso, equipara “cittadini e cittadine di generi distinti”, ha innalzato le aspirazioni delle donne che oggi subiscono la notevole contraddizione di un’“uguaglianza davanti alla legge” e la persistente, “disuguaglianza di fronte la vita”. Ed è in questa contraddizione che dobbiamo cercare l’origine della nuova ondata internazionale del movimento delle donne che si esprime nelle strade degli Stati Uniti, solidale con la popolazione immigrante e contro il governo di Trump e le sue politiche xenofobe, in Argentina per il diritto all’aborto, in Spagna contro la violenza  di genere avallata dalle istituzioni politiche,  per menzionare solo alcuni esempi. Questa nuova ondata inoltre, sebbene con obiettivi differenti, si riappropria del linguaggio e delle forme che, storicamente, hanno formato la classe delle lavoratrici nelle sua lotta contro lo sfruttamento: scioperi delle donne in generale e lo “sciopero internazionale delle donne” in particolare; slogan come “se le nostre vite non valgono, si produca senza di noi”.

Queste manifestazioni preannunciano una nuova ricomposizione soggettiva della classe lavoratrice  nel XXI secolo con un volto differente? Nascerà da questa nuova configurazione della classe lavoratrice un femminismo anticapitalista e socialista – che oggi rappresenta solo una piccola frazione del movimentointernazionale  delle  donne –  capace di organizzare ampi settori di queste masse femminili? Non possiamo prevederlo o anticiparlo se non con la nostra azione militante praticata in questa prospettiva. Ad ogni modo, sia quel che sia il risultato di questa riemergenza del movimento femminista con un proletariato molto differente da quello che si configurava negli anni ‘70, si impone la rilettura e l’attualizzazione dei dibattiti considerati già “classici” nel femminismo e nel marxismo sulla relazione tra patriarcato e capitalismo e come questa relazione si manifesta  nel  lavoro di riproduzione  realizzato prevalentemente dalle donne.

Già oggi, con la rivitalizzazione di questi dibattiti sulla teoria della riproduzione sociale, il testo della Vogel viene rivalutato alla luce di interventi di accademici e attivisti nordamericani che si propongono di costruire “un femminismo del 99%, dialogando con  il nuovo movimento delle donne”. Come sosteneva Lise Vogel (e continua a sostenere):

politicamente, tanto il movimiento socialista come il movimiento femminista socialista si confrontano con il difficile compito di lottare in favore delle donne senza soccombere a due pericoli ugualmente insidiosi. Da un lato, devono mantenere alta la guardia contro il femminismo borghese, ovvero contro la lotta limitata ad ottenere l’uguaglianza all’interno del mercato della società capitalista; e, dall’altro, non devono permettere che concezioni semplicistiche o economiciste di lotta di classe releghino la lotta per la liberazione delle donne ad un posto subordinato. Ponendo il problema in altri termini,  le /i socialisti coinvolti nella liberazione della donna devono elaborare il modo adeguato di vincolare la lotta femminista alla lotta ad ampio raggio per il conseguimento del potere politico e la trasformazione sociale [2].

Da questa prospettiva che è quella espressa nella nostra militanza all’interno del movimento internazionalista, femminista socialista e rivoluzionario delle donne Pan y Rosas, e senza pretendere di esaurire la discussione in queste linee, affrontiamo una prima lettura di Il patriarcato del salario di Silvia Federici, testo che riunisce i suoi articoli più recenti su questo vecchio ma rinnovato dibattito.

 

Il lavoro di valore e il valore del lavoro

Silvia Federici riscontra, nella definizione di lavoro produttivo come generatore di valore, una distorsione “maschilista” che giustifica, come controparte, la gratuità del lavoro di riproduzione (prevalentemente femminile), un lavoro socialmente “svalutato”, se confrontato al primo, che è l’unico che il capitalismo riconosce come veramente utile.

Quello che Marx non fu in grado di vedere fu che nel processo di accumulazione originaria non solo si separa il contadino dalla terra ma avviene anche la separazione del processo di produzione (produzione per il mercato, produzione di merci) dal processo di riproduzione (produzione della forza lavoro); questi due processi iniziano a separarsi fisicamente ed anche nei sogetti che li agiscono e mettono in pratica. Il primo a prevalenza maschile, il secondo femminile; il primo salariato, il secondo non salariato. [3]

Ma né “produttivo” né “valore” hanno, nel contesto de Il Capitale, un’accezione morale. Che il lavoro generi o meno valore  non deve essere confuso con il fatto che sia considerato inutile. Di fatto, lo stesso Marx segnala il cattere non produttivo (vuol dire che non genera valore) del commercio e dell’attività finanziaria, vitali per la circolazione del capitale pur non generando plusvalore, e nessuno affermerebbe per questo che, l’autore de Il Capitale, non abbia riconosciuto il ruolo indispensabile di entrambe le attività in questo modo di produzione (anche se queste attività, a differenza del lavoro domestico, sono riconpensate da profitti).

Marx definisce il lavoro produttivo come quel lavoro che genera valore di scambio: questa definizione è specifica e risponde alla descrizione della logica peculiare di un determinato modo di produzione (il capitalismo):

Lavoro produttivo è una determinazione di quel lavoro che in sé e per sé non ha assolutamente niente a che vedere con il contenuto determinato del lavoro compiuto, con la sua utilità particolare o con il valore d’uso peculiare con il quale si manifesta. Ne consegue che un lavoro di identico contenuto può essere produttivo o improduttivo[4].

Marx non si occupa in modo specifico delle caratteristiche di questo lavoro riproduttivo, ma  afferma con chiarezza l’esistenza del “vincolo necessario tra produzione e riproduzione al di là della sua separazione apparente” [5]. Nell’introduzione ai Grundrisse, il monumentale progetto del 1857 de Il Capitale, evidenzia come le categorie dell’economia capitalista –la produzione, la circolazione e la riproduzione (economica) del capitale– devono essere comprese all’interno di un socio-metabolismo molto più ampio, che include  tutte queste attività fondamentali per la riproduzione della società che l’economia politica, con uno sguardo non includente nei confronti di ciò che accade nel mercato,  lascia da parte. Marx offre, con queste poche ma fondamentali indicazioni, le basi per comprendere come il lavoro domestico rientri a pieno titolo nella totalità del modo di produzione di valori: con la produzione di valori d’uso che non si convertono in valori di scambio, ma che si esauriscono in un “consumo produttivo” nella stessa sfera privata nella quale sono stati generati con l’effetto ulteriore di essere vitali per la riproduzione della forza lavoro. Tithi Bhattacharya, intellettuale femminista della corrente denominata teoria della riproduzione sociale, vede nel lavoro umano, allo stesso modo di Marx, la “premessa della storia umana” e sostiene che,

Il capitalismo, sebbene riconosca il lavoro produttivo per il mercato come l’unica forma di “lavoro” legittimo, allo stesso tempo considera per natura non esistente l’enorme quantità di lavoro familiare, al pari di quello comunitario, che serve per sostenere e riprodurre la lavoratrice o, in maniera più specifica, la sua forza lavoro. [6].

Il capitalismo relega le donne (oggi dovremmo dire, per una maggiore correttezza, che la sovraccarica con) al lavoro di  riproduzione non remunerato. In questo modo, il capitalista, pur non estraendo plusvalore da questa attività, dato che si tratta di un lavoro che non genera valore di scambio (vale a dire, non è passibile di essere scambiato sul mercado), conta su questi compiti eseguiti in forma non salariata per garantire la riproduzione della forza-lavoro. Ecco, qui si mostra chiaramente come il lavoro di riproduzione sia indispensabile anche se non genera valore né, di conseguenza, plusvalore e quindi, dal punto di vista della ristretta logica del capitale, sia da considerare lavoro non produttivo.

Il lavoro di riproduzione è utile, anche se non viene definito produttivo dal punto di vista del capitale,  e  non è necessario cercare in che modo possiamo incorporarlo nella logica di estrazione del plusvalore perché possa essere riconoscito e “valorizzato” socialmente. Questo fu il cammino intrapreso da alcune teoriche femministe, le quali cercarono di spiegare che se il lavoro di riproduzione “produce” la merce forza lavoro, allora deve essere considerato produttivo, ed è proprio l’esistenza di un’oppressione (ideologica, culturale) patriarcale, a mantenerlo sottomesso, recluso all’interno dei singoli “focolari” e costretto ad essere realizzato gratuitamente dalle donne [7]. Ma Daniel Bensaïd fa notare che

Le norme tra un lavoro realmente sottomesso al capitale per il funzionamento del mercato e un attività privata sono difficilmente comparabili (taylorizazione del lavoro in cucina e negli hotel). Gli strumenti di misurazione dipendono da una determinazione arbitraria inadeguata: si tratta di calcolare quello che una persona potrebbe guadagnare nel mercato del lavoro durante il lasso di tempo consacrato all’attività domestica (costo in guadagno potenziale ),e calcolare, allo stesso tempo, quello che si dovrebbe pagare nel mercato per ottenere un servizio equivalente (costo dell’acquisto sul mercato) [8].

Dei decenni passati, per quanto riguarda i dibattiti che hanno posto le une di fronte agli altri, femministe e marxisti, non è possibile non condividere le parole di Bensaïd quando sostiene che “trasportare imprudentemente i concetti di Marx fuori dal loro campo specifico spesso occulta i problemi, come evidenzia la manipolazione approssimativa delle nozioni di valore e lavoro produttivo” [9].

 

(Ri)produzione familiare

In linea con la lettura della “distorsione maschile” o “ pregiudizio maschile” che trova espressione nel lavoro produttivo del capitalismo, la Federici si domanda,

Come sarebbe la storia dello sviluppo del capitalismo se invece di raccontarla dal punto di vista del proletariato salariato la raccontassimo dalle cucine e dalle stanze nelle quali, giorno dopo giorno e generazione dopo generazione, si produce la forza lavoro[10].

Con questa domanda, la Federici, forma l’impianto della sua critica a quella che lei considera la visione (o per meglio dire, la cecità) di Marx (e poi, del marxismo ) circa il ruolo che la donna ha nella riproduzione della forza lavoro e, a sua volta, della riproduzione del sistema capitalista stesso.

Sebbene ne Il Capitale non si approfondisca la natura della produzione della merce “forza lavoro”, è giusto mostrare che, qui, la divisone per sesso del lavoro  –  caratteristica  della società del patrircato – viene considerata antecedente al capitalismo e non sorge con l’accumulazione originaria. Il patriarcato era già lì; ciò che fece il capitalismo fu adattare questa relazione alla sua logica e subordinarla alle sue necessità.

Per Marx, il capitalismo è una totalità organica, un sistema al cui centro di gravità  è posta la generazione di valore di scambio e l’estrazione di plusvalore. Da questo punto di vista, il funzionamento del modo di produzione capitalistico si incentra sullo sfruttamento della forza lavoro, quella merce unica e speciale proprio perché capace di produrre valore di scambio. E se il capitalismo si avvale e si regge sullo sfruttamento del lavoro salariato, non significa che non sfrutti altre forme di lavoro non salariato sottomesse a quella centrale che sola  rende possibile l’estrazione di plusvalore. Bhattacharya  mostra che ne Il Capitale, “Marx non teorizza questo secondo circuito, ma, semplicemente, il mantenimiento e la riproduzione della classe lavoratrice permane come una condizione necessaria per la riproduzione del capitale” [11].

In questo senso è interessante riportare anche ciò che fa notare Lise Vogel riguardo al ruolo della famiglia, l’“unità riproduttiva” per eccellenza; anche se si tratta di un’istituzione preesistente al capitalismo, Vogel attribuisce alla famiglia lavoratrice – ovvero quella in cui viene riprodotta la forza lavoro – un ruolo indispensabile nel sistema capitalista e “privilegia l’analisi della relazione strutturale che la vincola alla riproduzione del capitale, invece di analizzarne la struttura interna e le dinamiche che la caratterizzano”[12]. Bisogna, cioè, porre la famiglia nel contesto delle relazioni sociali dominanti (capitalistiche), ciò permette di vedere il ruolo di questa istituzione che, pur essendo preesistente alle relazioni sociali come sono attualmente conformate, è stata trasfromata e adattata ad esse e ha assunto una forma specifica (famiglia operaia); tantomeno bisogna isolare la loro dinamica interna nella quale possiamo riscontrare il funzionamento di gerarchie di genere e di età e il suo essere funzionali al capitalismo.

 

La contraddizione come opportunità

Senza dubbio, con il riferimento alla famiglia operaia la Federici mostra che c’è stato un processo di trasformazione a partire dalla seconda metà del XIX secolo che lascerà dietro di sé la famiglia come  l’ha conosciuta la Rivoluzione industriale. La Federici sostiene inoltre che anche se Marx ha teorizzato la distruzione della famiglia a causa dello sruttamento capitalista, egli considera – al pari di Engels– l’inserimento delle donne nel mondo lavorativo come positiva, senza essersi, però, reso conto “del processo di riforma che sta avendo luogo e che crea nuove forme di patriarcato, nuove forme di gerarchia patriarcale” [13]. Per l’autrice di El patriarcado del salario,

A partire dalla fine del secolo XIX, con l’introduzione del salario familiare, del salario operaio maschile (che si raddoppia tra il 1860 e la prima decade del XX secolo), le donne che lavorano in fabbrica sono rifiutate e riportate a casa, così il lavoro domestico si converte nel loro primo lavoro e diventano dipendenti [14].

Secondo la Federici, il capitalismo crea la forma “famiglia operaia” per pacificare il proletariato ribelle nei confronti dello sfruttamento a cottimo, riuscendo così a garantire una classe più produttiva e meno irrequieta. Nella sua prospettiva sono assenti i processi contradittori di lotta di classe dato che, con una visione quasi cospirativa, la classe dominante sembra essere detentrice di un potere illimitato nell’imporre le condizioni non solo di di sfruttamento ma anche  di riproduzione della classe operaia, senza ostacoli né resistenze.

La trasfomazione che descrive la Federici e che culminerà nella formazione della famiglia nucleare, ovvero l’unità familiare identificata dal fatto che si costituisce attorno al salario fornito dall’operaio maschio e da una donna convertita in padrona di casa dipendente da questo salario che garantisce la riproduzione della forza lavoro, è un processo storico che posto in questi termini appare come esente da lotte per l’aumento del salario, per la riduzione della giornata lavorativa, da vittorie e sconfitte parziali, attuatosi solo per quelle concessione che i capitalisti  sono stati obbligati a fare per poter continuare a sfruttare il lavoro nelle migliori condizioni possibili all’interno delle relazioni di forza tra le classi. È invece necessario ribadire che questo, come altri processi ai quali assistiamo nel modo di produzione capitalistico, è contraddittorio: da un lato le donne vengono espulse dal mondo produttivo per garantire la riduzione del costo della forza lavoro mediante la sua dedizione esclusiva al lavoro di riproduzione non remunerato; ma, dall’altro, l’effetto è la riduzione della popolazione disponibile per lo sfruttamento, ovvero quella dalla quale il capitalista può estrarre plusvalore.

Per la classe operaia, la difesa dei lacci familiari di fronte alla voracità dell’industria che non distingue tra uomini e donne o tra adulti e bambini quando si tratta di sfruttamento ha significato anche affrontare il capitale per migliorare le sue condizioni di vita. Con l’accesso massivo alle scuole, agli ospedali e altri servizi pubblici, migliorano le condizioni di vita del popolo lavoratore e viene trasferita anche una parte del carico del lavoro di riproduzione dalla dimensione domestica privata allo Stato capitalista. Le conseguenze “benefiche” per la classe lavoratrice vengono ben comprese se esaminate dal lato del negativo: la privatizzazione o eliminazione dei servizi pubblici sono manovre sempre avverse alle masse dato che sono sempre riconducibili a un colpo al “portafoglio” delle famiglie operaie e/o un aumento del lavoro di riproduzione nella vita domestica privata che costituisce un aggravio che pesa ulteriormente sulle donne della famiglia.

Negli ultimi decenni il capitalismo nella sua forma “neoliberale” ha attaccato i sindacati e le altre organizzazioni proprie della classe operaia salariata, al fine di ristrutturare la produzione e incrementare lo sfruttamento su più fronti. Questi  colpi  sono stati diretti anche al processo di riproduzione sociale della forza lavoro attraverso la privatizzazione di imprese pubbliche, riduzione e eliminazione di diversi programmi di sicurezza sociale, aggiusti di bilancio che deteriorarono l’educazione e la salute pubblica, aumenti delle tariffe dei trasorti e di altri servizi essenziali che ricadono sull’economia familiare del popolo lavoratore. Di questo parliamo quando denunciamo che l’indebitamento dei paesi sottomessi dall’imperialismo si serve di manovre politiche di bilancio traendo da esse un incremento del lavoro di riproduzione realizzato, gratuitamente, da donne e bambine. La lotta contro questa manovra offensiva del capitale sulle masse si realizza anche come “sforzo della classe nel chiedere la sua porzione di civilità” [15].

Che la forma familiare regolata dal “patriarcato del salario” abbia anche un aspetto funzionale al capitalismo, non significa che non includa contraddizioni segnate dal continuo contrattare tra capitale e lavoro e determinate dalla lotta tra le classi.

La contraddizione è ineludibile perché la produzione capitalistica è incentrata sull’estrazione di plusvalore che origina dallo sfruttamento del lavoro salariato, ma, allo stesso tempo, non si può prescindere dalla riproduzione sociale della forza. La tendenza alla trasformazione in forza lavoro di settori sempre più ampi delle masse, destabilizza i processi di riproduzione che, come abbiamo più volte ripetuti, sono necessari. Questo, come sostiene Nancy Fraser, conduce a crisi ricorrenti; per le femministe nordamericane si tratta di una contraddizione che “non è situata all’interno dell’economia capitalista ma piuttosto sulla frontiera che separa e, allo stesso tempo, connette produzione e riproduzione. Non intraeconomica né intradomestica, è una contraddizione tra due elementi costitutivi della società” [16].

Da questa prospettiva il nucleo del funzionamento del capitalismo non può essere trovato nelle “cucine e nei dormitori” come sostiene la Federici, anche se sulla base di arcaiche forme patriarcali quello che succede in quei luoghi è modellato dal modo di produzione capitalistico in questo modo vengono  sussunti i processi di riproduzione sociale e sottoposti alla sete di profitto del capitale. “L’ integrazione indiretta del lavoro domestico nella determinazione del salario crea un vincolo personale (e spesso giuridicamente codificato) di dipendenza. Non definibile nel senso specifico che assume la relazione di sfruttamento al fine di estrazione di plusvalore questo vincolo si avvicina più ad una relazione di dominazione gerarchica che a quelle moderne di classe”, dice il marxista francese Daniel Bensaïd [17]. È ciò che la teorica Tithi Bhattacharya definisce quasi aforisticamente quando scrive: “la relazione salariale impregna gli spazi non salariati della vita quotidiana” [18].

In questo vincolo ineludibile si radica la necessità di lottare contro l’oppressione delle donne adottando una prospettiva antcapitalista e, più precisamente, socialista e rivoluzionaria; ragion per cui tutta la lotta della classe lavoratrice contro lo sfruttamento capitalista non può prescindere da una programma di azione contro l’oppressione delle donne che, in questo sistema, si fonda sulla riproduzione gratuita della forza lavoro spacciandola come determinata per natura.

 

A mo’ di conclusione

Il dibattito sulla relazione contraddittoria tra produzione e riproduzione non deve prescindere da un dato che modifica sia il punto d’osservazione sui quali si fondano questi stessi dibattiti teorici, sia quello politico di coloro che hanno interesse nella liberazione da tutte le forme di sfruttamento e oppressione: per la prima volta nella storia del capitalismo le donne costituiscono, approssimativamente, il 40 % della classe lavoratrice mondiale. Questo significa che il  54 % delle donne, in età economicamente attiva, partecipa al mercato del lavoro come lavoratrice salariata [19]. Quanto di questo milione e trecentomila donne svolge anche lavoro gratuito che permette la riproduzione della loro stessa forza lavoro come quella di altri ed  altre? Quante sono quelle che fanno un lavoro domestico in cambio di un salario perché la sua datrice di lavoro possa essere sfruttata nel mercato del lavoro, coprendo con il suo stesso salario il costo di quei servizi che riducono il lavoro di riproduzione necessario per se stessa?

La fenomenale transizione della forza lavoro su scala mondiale ha anche trasformato radicalmente le famiglie della classe lavoratrice. Qual è stato l’incremento dei nuclei familiari sostenuti dal salario femminile, quante sono le famiglie  “monomaternali”? Come sono le reti di donne che con o senza salario, sostituiscono i lavoratori domestici e di cura di altre lavoratrici salariate?

In questa complessa e nuova realtà non c’è spazio per il riduzionismo proprio di un corporativismo sindacale economicista che include unicamente una classe operaia maschile (e, perché no, bianca, nativa ed eterosessuale). Non possiamo nemmeno limitare la lotta delle donne per la loro emancipazione ad un soggetto stereotipato – l’anima della casa- la cui esistenza è cambiata sostanzialmnete negli ultimi decenni, prescindendo dalla totalità organica capitalista e dalla sua prospettiva, giungendo a questo nuovo volto di una forza lavoro femminilizzata.

Quale sarà l’impatto che le lotte delle donne nello spazio della riproduzione avranno sulle lotte di una classe operaia sempre più femminilizzata? In che modo l’emancipazione delle donne, attraverso la riemergenza del femminismo a livello mondiale, avrà un impatto sulle donne sfruttate e quali saranno le conseguenze per un sindacalsmo maschile, incapace di incorporare i settori più oppressi della classe?

Il femminismo che aspira all’emancipazione delle donne da tutte le forme di oppressione patriarcale che esistono oggi, non può eludere gli ostacoli che il capitalismo oppone alla sua realizzazione, cominciando da ciò che è più evidente: ad una delle due estremità di una linea immaginaria della popolazione mondiale ordinata secondo la richezza posseduta, troviamo 8 uomini che accumulano una quantità di denaro equivalente a quello che, all’altro estremo, serve per sopravivere a 35.000 milioni di persone tra le quali ben il 70% sono donne e bambine. Le donne trovano un’alta rappresentanza nelle cifre che indicano povertà, precarietà e lavoro nero e tutto questo non può essere separato dalle condizioni in cui si protrae il nostro lavoro di riproduzione.

Lottare contro la disuguaglianza di genere non può evitare di rivolgersi e pianificarsi a prescindere dall’aspirazione di vivere in una società di uguaglianza reale epiena. Vogliamo lottare perché vi siano quattro donne tra le otto più ricche del pianeta ed essere un generico “equo” 50 %  della popolazione più povera? Se il centro attorno a cui il capitalismo gravita è e sarà lo sfruttamento del lavoro salariato e l’estrazione di plusvalore allora è  possibile pensare l’emancipazione delle donne eludendo questo nodo vitale del funzionamento della società in cui viviamo? Dopotutto anche se le lotte segnate dalla relazione capitale/lavoro e quelle segnate nello spazio della riproduzione sociale hanno la loro specificità, dobbiamo ugualmente cercare le forme con cui affrontare la divisione e l’antagonismo che impone la classe dominante, di unire quello che il capitalismo ha storicamente diviso. Oggi, più che mai prima d’ora, è possibile questo cammino perché, forse per la prima volta, possiamo dire che si tratta di noi donne, il proletariato.

https://www.lavocedellelotte.it/it/2018/08/11/noi-donne-proletarie/

 

 

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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