di Salvatore Spampinato
In ogni caso, dopo due anni il mondo è – se possibile – più ingiusto di allora: le forze fasciste e reazionarie impazzano per il pianeta; chi era già povero si impoverisce ancora, perché il ricco sia più ricco; chi è nero, indios, donna, gay, classificato per opportunismo come diverso, ora è più discriminato di prima; i colonizzati sono capri espiatori perché continui la guerra tra poveri idioti. Allora, forse, data la situazione, l’emozione provata quel giorno e le domande che ne sono seguite potrebbero ancora essere utili a qualcuno che leggerà questo documento.
«Condenad me, no importa. La Historia me absolverá». Così Fidel Alejando Castro Ruz, nel 1953, rispondeva ai suoi giudici in un processo riguardante il famoso assalto alla caserma Moncada del 26 luglio precedente. E sembra che, a distanza di 63 anni, la Storia lo assolva davvero oggi, nel giorno della sua dipartita. Almeno così appare, dando un’occhiata a molti titoli della stampa italiana e internazionale. Persino alcune testate statunitensi, come il New York Times, cercano un approccio neutro nel racconto della vita e della morte del Lider Máximo. Oggi sono tutti rivoluzionari, come quando morì Mandela per un giorno furono tutti democratici antirazzisti e quando morì Lucio Dalla tutti ascoltarono “Piazza Grande”. La morte, almeno per un giorno, assolve tutti, dà a tutti ragione. Chi lotta per un mondo più giusto sa però bene che domani dovrà ricominciare da capo, e riabituarsi ad avere torto. L’illusione dura poco. Presto la pubblicità dei viaggi a Dubai per superricchi inserita su YouTube prima dei video-omaggio al castrismo ci ricorda la tristezza impacchettata del tempo in cui viviamo e smaschera il suo appropriarsi di ogni cosa, banalizzandola a macchietta, riducendola a discorso-merce buttato in pasto alla macelleria delle idee che è il sistema di informazione in cui siamo immersi.
Oggi, con cordoglio e ipocrisia, si seppellisce l’ultimo bastione del comunismo novecentesco. Chi è sopravvissuto a 638 attentati terroristici pianificati dalla C.I.A. ora non morde più, dall’interno della sua urna di ceneri. Però, oltre alla nostra società-vetrina di libertà e voucher, più in là c’è il mondo. Se quattro idioti arricchiti a Miami sbattono padelle sopra Mercedes da decine di migliaia di dollari, a novanta miglia più a sud la percezione è profondamente diversa. Non dimenticherò mai la risposta che mi diede il mio professore di Storia a Siviglia, cubano, quando gli chiesi cosa pensasse della situazione politica del suo Paese. Mi disse che, per quanti problemi ci potessero essere lì, lui, figlio di contadino, se fosse nato in Colombia non sarebbe diventato insegnante. Chiedete ai latino-americani cosa ha significato la rivoluzione cubana di Fidel Castro, e chiedete in Africa. In Angola, in Sudafrica, in Congo, in Guinea-Bissau. Andate un po’ più in giù nel vostro mappamondo di informazione. La Rivoluzione cubana ha avuto un significato enorme che si è esteso molto al di là dell’isola piccolissima del Centroamerica in cui si è realizzata: essa è stata ed è, per miliardi di persone, la prova che anche il popolo del più piccolo Stato della Terra, il più sfruttato e sottomesso alle grandi potenze militari ed economiche, può ribellarsi e conquistare, lottando, la libertà. È una promessa, la Rivoluzione: che i miseri, gli ultimi del mondo possano riprendersi la loro indipendenza e la loro dignità. Degli USA loro hanno visto gli aerei e le bombe, dei cubani hanno visto e vedono i medici, gli aiuti, le università. Nelle baraccopoli di Caracas, di Luanda, di Joannesburg oggi si piange. E anche qui, nelle patrie precarie del neoliberismo avanzato. Anche qui chi cambia lavoro ogni due anni e non ha diritto allo sciopero sa che è un giorno triste, perché se Fidel ha vinto la sua battaglia, noi stiamo perdendo la guerra. Sappiamo, da ogni parte del mondo, che abbiamo perso il nostro Davide che ha sconfitto Golia.
Con la Rivoluzione uno dei Paesi più poveri del mondo è riuscito ad avere il numero più alto al mondo di medici e laureati per numero di abitanti e ha portato e mantenuto indici di mortalità infantile, aspettativa di vita e qualità di nutrizione da fare invidia alle economie industrializzate. Ma queste, si sa, sono conquiste ormai riconosciute da tutti che annoiano chi legge, perché date per scontate. Ci dicono che Cuba sotto Castro ha pagato tutto questo con l’alleanza con l’Urss, il partito unico, l’impossibilità, sancita in Costituzione, di non poter tornare indietro dall’economia socialista. Raramente tra chi fa affermazioni di questo tipo c’è qualcuno che sappia cosa sia stata l’invasione della Baia dei Porci, ancor meno sono quelli che si chiedono cosa sarebbe successo in Italia se a un certo punto della nostra Storia nazionale il PCI avesse vinto le elezioni. Sicuramente nessuno di costoro sa cosa fosse l’operazione Gladio, né conosce le vicende politiche del Cile di Allende, del Nicaragua sandinista, del Congo di Lumumba, del Burkina Faso di Sankara, del Venezuela di Chavez, dell’Haiti di Aristide etc. etc. etc.
Certo, nessuno e niente è immune da contraddizioni: e non esistono gli eroi. Ma, in un continente in cui – Canada a parte – gli standard del rispetto dei diritti umani è molto basso, la Cuba comunista è un Paese in cui nessun giornalista è stato assassinato, in cui non si è mai sparato a una manifestazione, in cui Yoani Sánchez, pur essendo finanziata da un governo che da cinquant’anni trama un golpe militare, può continuare a scrivere il suo blog da casa sua, incensata dalla stampa estera.
La Cuba castrista ci insegna un’idea di libertà che noi oscillanti tra gli stage gratuiti e la frenesia per un nuovo brand non possiamo capire. È la libertà di chi ha una scodella di riso e fagioli e guarda te con il tuo iPhone e non chiede la tua pietà, ma ha un moto d’orgoglio. Durante il período especial, per esempio, a seguito della disfatta dell’Urss, quando, a causa dell’embargo – che dura tutt’oggi – Cuba fu condannata all’isolamento e alla fame, il governo comunista guidato da Castro non eliminò la distribuzione dei beni di prima necessità, non tagliò i fondi alla sanità, all’istruzione, non deregolarizzò il lavoro in nome della crisi economica (che certo era, e per certi casi è ancora, di gran lunga più grave della nostra). L’economia cubana, trovandosi di fronte a enormi difficoltà – calarono circa il 70% delle importazioni – provò a rigenerarsi esplorando settori diversi, dalla macrobiotica alla biotecnologia, e dovendo affrontare anche la mancanza del petrolio, cercò di far di necessità virtù, facendo di Cuba anche il primo Paese al mondo a coniugare l’economia pianificata del socialismo alla decrescita e alla sostenibilità ambientale. Per tacere, poi, la Casa de las Americas, patria culturale di un continente che cerca la sua identità per liberarsi dalla colonizzazione, o, ancora, la parità di diritti per le donne.
Perché scrivo qui tutte queste cose? Perché conoscere la Storia è fondamentale se si vuole che ci assolva. E Fidel Castro, l’avvocato ventisettenne che rispondeva in modo arrogante ai leccapiedi di Batista e destinato poi a diventare un simbolo, chiede di essere giudicato per le sue azioni.
Bisogna ricordare i morti, ma non da seppelliti e, quindi, inermi. Bisogna ricordare i morti per la domanda che hanno lasciato a noi. E a cui noi dobbiamo rispondere.
La domanda che oggi Fidel Castro lascia al nostro presente è più importante delle conquiste sociali della Rivoluzione, del modello ambientalista, del simbolo della libertà di fronte all’imperialismo. Mi piace pensare che il più grande insegnamento di Fidel stia nella sua capacità di meravigliarsi nell’immaginare il futuro. Un profondo idealismo è alla base del suo pragmatismo politico. In lui l’intelligenza di uno dei capi di Stato più abili e più colti del Novecento è messa al servizio di un’innocenza visionaria e sognatrice, l’innocenza caparbia della coerenza. Questo lo ha reso invincibile.
In ogni momento della sua azione politica, l’uomo della piccola isola non si è mai rassegnato a rivendicare la sua libertà di fronte al conquistatore, perché aveva la coscienza di guardarsi da un punto in cui la concretezza quotidiana e popolare si intreccia a una prospettiva molto più larga: la prospettiva che attraversa i millenni. Era il più realista di tutti, perché voleva l’impossibile. In lui lo schiavo portato via dall’Africa e il contadino della Sierra Maestra urlavano insieme, mentre leggevano i classici dell’illuminismo e del marxismo europeo, e, uscendo da un silenzio forzato durato secoli, entravano a gamba tesa nella Storia.
E così Davide sconfisse Golia. E anche oggi, più di ieri, abbiamo davanti un gigante sempre più spietato e potente che distrugge le nostre vite e ci trasforma in schiavi. E anche oggi siamo armati solo di una fionda. Avremo il coraggio e l’intelligenza di usarla? In base alla risposta che ci daremo sapremo se la Storia assolverà anche noi.