La sconfitta eclatante dei socialisti francesi alle ultime elezioni presidenziali ha marcato un altro punto a favore della tesi secondo cui in tutta Europa (e non solo nel Vecchio Continente) non siano solo le forze che rappresentavano gli sfruttati, il cosiddetto “proletariato”, ad essere sulla scia di una rimodulazione dei rapporti interni ed esterni di forza e di connessione con la rispettiva classe sociale.

La sconfitta eclatante dei socialisti francesi ed oggi i battibecchi tra Movimento 5 Stelle e Lega sul posizionamento politico in vista delle prossime elezioni europee, conferma quella tesi: anche le forze conservatrici e liberiste, populiste o sovraniste che siano, stanno intraprendendo la ricerca di una collocazione adatta ad intercettare un consenso che, così narra la leggenda moderna, non sarebbe più distinguibile da un carattere anche ideologico ma esclusivamente dettato da fattori contingenti.

Dunque, l’assemblaggio anomalo tra Movimento 5 Stelle e Lega, tra populisti interclassisti e sovranisti ex sececssionisti, muove i primi passi soltanto ora nella definizione di una base di consenso che si stabilizzi, che diventi rionoscibile provando a superare la contraddizione dell’interclassismo per quanto riguarda i Cinquestelle e provando a superare quella, forse più semplice, del ricordo del recente passato anti-italiano e anti-nazionale della quasi ex “Lega Nord” mutata abilmente in “Lega”.

La borghesia nazionale francese si confonde oggi nei meandri anche dei gilet gialli: l’eterogeneità del consenso che raccoglie il movimento popolare e spontaneo che si riunisce ogni sabato e protesta vivacemente e mostra “ala dura” e “ali dialoganti”, è funzionale a molte forze politiche. Da destra estrema a sinistra estrema.

Ciò che è e rimane del tutto evidente è l’avversione unica e univoca che unisce i gilet gialli di qualunque precedente colorazione politica: abbattere il blocco di potere del presidente Macron, sostituirlo con una rappresentanza che, almeno così si legge nei nuovi cahiers de doléances, sia fortemente critica nei confronti delle politiche ispirate ad un dettame liberista e di globalizzazione economica che penalizza indubbiamente i ceti più deboli della Francia; ma, tuttavia, nelle intenzioni – e forse anche nella tentazione politica dei gilet gialli – non c’è una evoluzione classista del movimento proprio per la mancata parola d’ordine che dovrebbe nascere spontanea in un raduno popolare dove la grande massa delle persone viene dal mondo del lavoro e della precarietà: comunque dal grande moderno sfruttamento di classe. La parola d’ordine dell’anticapitalismo non viene pronunciata.

Lo fanno, per i gilet gialli, forze politiche come il Front de Gauche che si assumono un ruolo non marginale, anzi, un ruolo che, tenendo lontano l’intento di assumere un qualsiasi ruolo egemonico – e quindi di “guida” – sia sul piano culturale-ideologico sia sul piano meramente politico, prudentemente fiancheggia i settori di sinistra del movimento.

In Italia, sgonfiatosi il ruolo movimentista del Movimento 5 Stelle, è proprio dal “vertice” dello stesso movimento grillino che si tenta di rianimare il primigenio impeto di piazza alimentato dai “Vaffa day” e dallo sfruttamento di decenni di decostruzione dei luoghi politici della rappresentanza: destra, centro, sinistra; così pure lo svilimento delle categorie di interpretazione della società: sfruttatori e sfruttati, padroni e lavoratori.

L’interclassismo dei gilet gialli piace ai grillini socialnazionali di oggi: di destra come Di Maio e Di Battista, un po’ alla “programma di Verona”, al ritorno ad un socialismo di impronta italica, tutto patria e lavoro, patria e ambiente, patria e sviluppo. Che strizza l’occhio alla difesa dei beni comuni in nome del privilegio di nascita sul suolo italico: ecco perché poi, più di tanto, l’abbraccio mortale con la Lega che ama il tricolore e le divise della polizia e dei pompieri, al Salvini che ripercorre l’esibizionismo di un autoritarismo di vecchia annata indossando qualunque divisa, assumendo tutti i ruoli possibili e mostrandosi come “eroe” del popolo, quindi tribuno della plebe oggi e al contemplo ministro sia oggi sia domani, non è poi così strambo, bizzarro e bislacco.

Ma c’è una parte di Movimento 5 Stelle che fa riferimento anche all’umanità, ad un insieme di rapporti sociali che si ispirano a sentimenti leggermente meno nazionalisti e, senza azzardare troppo, ad una visione che oltrepassa gli stretti confini d’Italia in materia di diritti civili, di diritti, potremmo dire, “universali”. Fa capo a Roberto Fico e ai deputati e senatori “ribelli” ed anche a qualche sindaco ribelle che si unisce nella lotta contro il “decreto sicurezza” (purtroppo legge dello Stato) al fronte di amministratori locali e regionali che si amplia e fa ricorso alla Corte Costituzionale per ristabilire un po’ di dignità, di umanità delle istituzioni nei confronti proprio del popolo tutto.

Ecco perché questo gioco al compiacimento dell’azione dei gilet gialli francesi, viene studiato ad arte dai vertici del Movimento 5 Stelle: recuperare l’immagine sociale, di piazza, di lotta, eppure anche di governo. Cosa che la Lega non ha bisogno di ricreare: gli obiettivi sono diversi e, nonostante ciò, finiscono per convergere.

Da un lato il populismo interclassista del M5S prova a tenere insieme proletari moderni e moderno ceto medio borghese da Nord a Sud del Paese. Dall’altro la Lega agisce come forza corporativa e universale allo stesso tempo: protegge le autonomie locali incentivando una disuguaglianza nel Paese da regione a regione e, nello stesso istante, si fa paladina dell’interesse esclusivamente nazionale. Il sovranismo, modernissima forma di autoritarismo legato ad una difesa del profitto, è servito.

Al governo francese non è piaciuto l’appoggio dei Cinquestelle ai gilet gialli d’oltralpe: è comprensibile. La rappresentanza del padronato e del grande capitale incarnata da Macron rischia di crollare come un castello di carta sotto l’avanzata impetuosa anche a Parigi e nei grandi centri dell’esagono repubblicano di un movimento che cerca “casa”, che cerca alleati: paradossalmente, movimenti come quello dei pentastellati, che erano ormai radicati nell’opinione pubblica italiana, ora hanno la necessità di riconvertirsi alle origini della specie e, per farlo, devono servirsi anche di una ricerca di un legame con un movimento giovanissimo, indefinibilissimo, tanto quanto lo erano i Cinquestelle agli inizi della loro avventura, sospinti (non solo) dal comico genovese.

La contesa del consenso nell’agone politico di una borghesia priva di riferimenti politici certi è un dato molto accattivante da indagare e studiare nei prossimi mesi: la cara, rassicurante Democrazia cristiana non esiste più e non riunisce timidi laici e intransigenti cattolici uniti dal comune senso di obbedienza tanto alla Costituzione (che aveva contribuito a scrivere) quanto ai tentativi di superarla anche con mezzi che andavano oltre la Costituzione stessa e che la storia della “notte della Repubblica” ci ha insegnato a non sottovalutare.

Persino un organismo potente come la Chiesa cattolica ha dovuto ridisegnare i propri ambiti di intervento politico affidandosi al secolarismo rinnovato di un magistero che ha navigato a vista negli anni del passaggio dal pontificato di Giovanni Paolo II, che ha esercitato un ruolo di primo piano nell’annichilimento di una parte della cultura politica italiana di sinistra (proprio quella comunista) partendo da lontani esperimenti del “socialismo reale” sgretolatisi in breve e nel nulla, a quello attuale di Francesco mediante un tentativo di restaurazione del tradizionalismo con Benedetto XVI.

Segno che la difficile questione dei tempi (così l’avrebbe definita un marxista molto poco vicino a me ma abile nello studio della società attraverso le categorie marxiane) è tutt’altro che risolta: anche perché vederla risolta significherebbe aver visto risolta la questione di classe e la contraddizione capitalista in sé stessa. E’ impossibile nel capitalismo stesso veder risolto il capitalismo medesimo.

Dunque, non ci rimane che ricostruire a sinistra un fronte antiliberista seriamente tale, che sconfigga il tentativo dei populisti interclassisti di mostrarsi come “partito sociale” e che batta il crudelismo di altre destre che è più facile sconfiggere abbandonando etichette del passato e riproponendo invece definizioni che smascherino il meschino ruolo di classe che esercitano in nome di un “interesse nazionale” che si fonde benissimo con elementi di carezzevole e amorevole ipocrita cura per i bisogni dei più deboli, degli sfruttati tutti.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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