La vicenda spettacolare di Cesare Battisti, con tanto di inciampi ministeriali nei video di propaganda governativi, consente di riprendere un argomento che a molti potrà apparire trascurabile, “con tutti i problemi che abbiamo” (la frase retorica la aggiungo prontamente io, così evitiamo tante inutili lagnanze), ma che invece attiene alla civiltà giuridica del nostro Paese: si tratta della pena dell’ergastolo. Ampiamente maggioritaria è l’opinione che il “fine pena mai” sia una norma di un diritto che rispetta i detenuti, che mantiene alto il livello di coscienza civica in materia di diritto e che, quindi, qualifica un paese diversamente da come si giudica invece chi pratica ancora oggi la pena di morte, la vendetta di Stato, come massimo della pena, per l’appunto. Dunque, l’ergastolo sarebbe un avanzamento rispetto al patibolo. E, se visto solamente da questo punto di vista, certo che sì: vivere è pur sempre meglio che morire. Ma vi sono tanti modi di vivere e vi sono tanti modi di morire. Non è soltanto terribile la morte immediata, ma è tremendamente crudele anche la morte lenta, messa in pratica quasi per consunzione dei corpi e delle emozioni, delle espressioni materiali e morali di un individuo a cui è stata tolta la libertà per aver commesso dei reati. Si dirà che l’ergastolo non è poi così atroce perché in Italia viene applicato raramente, in casi eccezionali, per gravissimi fatti di sangue: stragi, terrorismo, per l’appunto. In Italia è previsto dall’articolo 22 del Codice Penale e può essere “normale” od “ostativo”: nel caso di Cesare Battisti, abbiamo potuto imparare che il secondo non contempla alcun beneficio previsto dalla Legge e quindi è il regime carcerario più duro che diventa “flessibile” soltanto nel caso in cui il reo divenga un “collaboratore di giustizia”. Per quanto concerne, invece, l’ergastolo normale, potendo beneficiare di alternative alla reclusione 24 ore su 24, il condannato può avere dei permessi per lavorare esternamente al carcere, affidamenti in prova e detenzione domiciliare. A tutta una serie di ergastolani anche famosi, tanto del cosiddetto “terrorismo rosso” quando di quello “nero”, sono state applicate misure simili proprio in virtù della collaborazione stabilita con lo Stato italiano nella risoluzione di indagini particolarmente complesse. Seguendo la vulgata popolare e comune, dovremmo dunque concludere che siamo innanzi ad una mediazione tra massima espressione della condanna, attribuzione della pena e trattamento umanitario del detenuto. Eppure, l’ergastolo è anch’esso, come la pena di morte, una contraddizione in termini per il diritto moderno: pretende di essere una misura che riabilita il condannato, secondo il dettame costituzionale, ma impedisce un reinserimento nella società del reo. Lo depriva della libertà per sempre e, così facendo, come pena si adegua più al Codice Rocco rispetto alla Costituzione repubblicana. E’ un conflitto fra legislazioni che non sono state aggiornate dopo la fine della Seconda guerra mondiale e che, quindi, entrano in contrasto pur mantenendosi in equilibrio grazie ad una generale considerazione del “fine pena mai” come una norma poi non così crudele e che l’”opinione pubblica” richiede quanto meno a risarcimento della fine della mostruosità antigiuridica della pena di morte. “Già non li ammazziamo più (gli assassini, i terroristi, i mafiosi, ecc.), almeno che stiano dentro per sempre e si butti via la chiave!”. L’ho sentita tante volte questa frase e chi la pronunciava si vantava d’essere civilissimo; anzi, più civile di me che storcevo il naso e pensavo ad alta voce che l’ergastolo fosse una vendetta di Stato tanto quanto la pena di morte. La differenza stava soltanto nel fatto che ad una morte immediata veniva sostituita una morte lenta: una inedia carceraria che sopraggiunge anche se sei trattato “umanamente”. Mi rendo conto che i detrattori diranno: “Ma vuoi forse rimettere in circolazione un terrorista, uno stragista di mafia?”. Troppo facile esprimersi così, provando a dimostrare che il “buonismo” è una debolezza, una miopia sociale, politica e persino giuridica in chi esprime una critica verso una modalità di punizione del reo che non lascia possibilità di riconversione ai princìpi fondanti la società repubblicana e costituzionale.

Semmai ci si dovrebbe domandare perché fenomeni come quello mafioso, camorrista, ‘ndranghetista hanno continuato a prosperare nonostante la presenza mai negata dell’ergastolo e la sua applicazione con carcerazioni dure e speciali come quelle previste dal famoso e poco conosciuto “41 bis”. La risposta più immediata è che non esiste mai una correlazione tra reato e pena e viceversa: i reati sono commessi su una spinta generata da grandi interessi economici per quanto concerne il mondo mafioso e da differenti interessi, anche politici, per quanto concerne il terrorismo di vario colore. Il ruolo deterrente della prospettiva della pena non funziona perché il criminale, essendo protetto da una rete di contatti che gli garantisce una buona percentuale di impunità e di fuga dalle grinfie dello Stato, pensa di riuscire a sfuggire al sistema e di poter continuare a battersi per i suoi sporchi interessi o le sue bislacche idee di sovvertimento sociale. Dunque, la misura dell’ergastolo, tanto quanto la pena di morte, interviene sempre e solo dopo che i crimini sono stati commessi e non permette nessuna riabilitazione del criminale più o meno incallito, più o meno feroce. Non si tratta di abolire l’ergastolo dall’oggi al domani, ma di riformarne la struttura, di ripensarlo valutando nuovi criteri di “pericolosità sociale” del reo e quindi di applicazione del “fine pena mai”. Non pensate che un criminale, uno stragista che dopo venti, trenta anni di carcere sia riabilitato e possa rientrare a far parte della società sia più pericoloso, come esempio, proprio per le organizzazioni criminali rispetto alle minacce di militarizzazione del territorio e controllo poliziesco del territorio dello Stato? Io penso di sì. Penso che proprio dagli esempi si riconosca la capacità di cambiare lo “stato di cose presente”: senza la dimostrazione che il cambiamento è possibile e, quindi, concretizzabile, finiremmo per accettare sempre la verità quasi innata secondo cui non c’è mai alternativa, non c’è mai via d’uscita da questo mondo che crea i mostri e poi li uccide dicendosi buono, santo e misericordioso.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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