l governo prova a mostrare due anime in campagna elettorale, provando a tornare forse a prima del tempo del “Contratto” che ha unito Lega e Cinquestelle nel patto di sciagurata gestione del Paese: un tentativo di diluizione di alcuni appesantimenti di “destra” per i pentastellati sui temi dell’immigrazione e del contenimento del dissenso che si manifesta contro il ministro dell’Interno in giro per comizi in tutta Italia e, parimenti, non tanto un tentativo, ma una esplicita volontà di alzamento dei toni muscolari della propaganda. Va da sé che sono due atteggiamenti contrapposti che però non fanno dei Cinquestelle un soggetto meno pericoloso per la democrazia repubblicana di quanto non lo siano stati fino ad oggi e anche ben prima delle elezioni politiche del marzo 2018. I rimbrotti di Di Maio a Salvini sulla gestione proprio dell’opposizione sociale e politica a quanto va dicendo più il ministro dell’Interno rispetto all’impostazione complessiva del governo (che potremmo dire riassunta bene nella pacatezza di Giuseppe Conte, in un suo schierarsi ultimamente – caso Siri – con la parte maggioritaria dell’esecutivo proprio per salvaguardare princìpi fondamentali del movimento stellato), sono l’ultima possibilità di recuperare, in meno di quindici giorni dal voto, un aspetto più umano, diciamo pure democratico, consono quanto meno al rispetto delle minoranze, biasimando così gli eccessi verbali di una Lega che pare irrefrenabile. Rilancia Salvini affermando che le elezioni europee saranno uno spartiacque, un referendum: per la Lega sicuramente, per il Paese forse, per il governo quasi certamente. Perché gli equilibri, al di là delle promesse a mani giunte di non chiedere nuove postazioni ministeriali nell’esecutivo o un maggiore bilanciamento di peso se Alberto da Giussano fosse barrato tante volte da arrivare oltre il 30% dei consensi, sarebbero comunque compromessi avendo non dei sondaggi tra le mani ma il chiaro risultato di un voto che rischia di pesare ancora di più se il sovranismo dovesse trovare ampi margini di approvazione in altre nazioni europee. Dunque il quadro europeo influirà su quello nazionale e viceversa: il primo dopo il voto con un peso certamente maggiore del secondo che si sarà già espresso nel ridisegnare i confini politici di una Europa che, aspettiamocelo ma lavoriamo per evitarlo, si sposterà a destra. I singoli “sovranismi” nazionali sono una proposta molto articolata e molto poco omogenea se declinata proprio nelle singole patrie che pretendono di difendere, laddove la parola d’ordine primaria è: “Prima…” e aggiungete poi a piacimento il popolo cui Orbàn, Salvini, Le Pen fanno riferimento. Prima ciascun popolo: ma se sono primi tutti, verrebbe da dire filosoficamente parlando, nessuno lo è davvero. Primo è chi è avanti agli altri anche solo di un palmo. Tutti primi, nessun primo. Siamo dunque davanti ad una proposta politico-sociale in forma egualitaria per una Europa “dei popoli”? No, affatto. Questo perché la difesa dei ceti meno abbienti e del moderno proletariato europeo che propongono le forze di destre estrema contempla la piena compatibilità tra interessi degli sfruttati e gestione economica da parte degli sfruttatori: contestano il sistema bancario, lo strozzinaggio e l’usura istituzionalizzata ma non metteranno mai al centro della questione la “contraddizione” per antonomasia, ossia il capitalismo come sistema da capovolgere e ribaltare per creare un vero socialismo. Del resto, come non è mai stato socialista (seppur si richiamasse nel nome della forza politica) il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori tedeschi di Hitler, così non sono “socialiste” o anche semplicemente “sociali” forze politiche che utilizzano soltanto la rabbia popolare per innescare contraddizioni a livello etnico, culturale e politico che consenta loro di avanzare nella scalata al potere. Nel giugno del 1945, appena terminata in Europa la Seconda guerra mondiale, ad un mese dal suicidio di quello che il colonnello generale Alfred Jodl (dapprima feroce critico e poi idolatra, come Keitel, del Führer) definì “il più grande esperto condottiero e militare della storia tedesca“, un grande intellettuale che era stato costretto all’esilio, Thomas Mann, aveva a scrivere a proposito della libertà dentro e fuori la “germanicità” dell’individuo tedesco che era completamente immerso nel pangermanesimo hitleriano: “Il concetto tedesco di libertà fu sempre rivolto soltanto all’esterno; intendeva il diritto di essere tedesco, solo tedesco e nulla di diverso, nulla che lo oltrepassasse; era un concetto aggressivo di difesa autocentrata contro tutto quanto tentasse di condizionare e limitare l’egoismo etnico, domandolo e costringendolo a servire la comunità, a servire l’umanità. Un individualismo prepotente all’esterno, nei rapporti col mondo, con l’Europa, con la civiltà, si accodava all’interno con una stupefacente misura di dipendenza, di inferiorità, di servilismo.“. (“La Germania e i tedeschi”, discorso alla Library of Confress di Washington, 6 giugno 1945). La contraddizione che evidenzia Mann è trasportabile ai giorni nostri, all’incentivazione sovranista ad essere sudditi di sé stessi, di un italianesimo nazionalista che li rende ottusi, privi della capacità di vedere il proprio Paese inserito in un contesto mondiale e, prima ancora, europeo. Gli italiani seguono Salvini in questo viatico di larghe proporzioni demagogiche e di strettoie che limitano sempre più le libertà di espressione, assemblea, riunione, dissenso, contestazione e che non risolvono i problemi dei lavoratori, che non attenuano lo sfruttamento dei padroni nei confronti di mano d’opera comperata sempre a più basso costo e contrattualizzata con una precarietà inimmaginabile attraverso quei luoghi di procacciamento dei moderni schiavi che si chiamano “agenzie interinali”. I luoghi della politica dove tutto è “logico” e dove tutto è “benessere” per il popolo sono l’esatto contrario di ciò che appaiono e intendono apparire per poter essere tali. I luoghi della ricerca del lavoro sono l’esatto contrario anche essi di ciò che dovrebbero essere: non prospettive di vita ma solo prospettive di sfruttamento becero: ma, del resto, si sa, il capitalismo non segue altra morale se non quella dell’accumulazione del profitto. I sovranisti moderni, nuovi autoritaristi e fascisti, sono schierati da questa parte: dalla parte dell’economia di mercato, del capitalismo, dello sfruttamento. Il loro essere “socialmente nazionali” è un patetico rinverdimento del “nazional socialismo” dei primi decenni del ‘900, abbellito e ammodernato con tutta l’adattabilità del caso ai sentimenti di frustrazione di masse tradite da una politica di centrosinistra che si è spacciata per troppo tempo come progressista e che ha favorito invece soltanto le classi dirigenti, i ceti abbienti e i grandi ricchi. L’inversione di rotta è possibile ma deve farsi largo tra un PD che si inventa una verginità politica per poter ancora essere definito “di sinistra” (mentre continua ad essere di centro) e tra le destre di varia espressione che catalizzano l’attenzione di un popolo sempre meno capace di fronteggiare le menzogne e sempre più conquistato dalle banalizzazioni di concetti e problematiche importanti. La soluzione facile fa presa. Il ragionamento e la spiegazione annoiano. La Sinistra deve trovare un modo di comunicare che liberi le soluzioni dal pressapochismo falsificatore dei sovranisti e che, al contempo, le unisca ad una ragionata disamina dei problemi sociali, economici e civili che viviamo ogni giorno. Perché le facili soluzioni sono inganni ma anche le complicazioni in stile cattedratico, le elucubrazioni soloniche non portano da nessuna parte.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

Un pensiero su “NAZISTI E SOVRANISTI: FALSI SOCIALISTI IERI, FALSI SOCIALISTI OGGI”

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