La settimana prossima il massimo organismo dirigente del Partito della Rifondazione Comunista, il Comitato politico nazionale, si riunirà per decidere tanto delle dimissioni dell’intera segreteria nazionale, dopo la sconfitta elettorale dello scorso 26 maggio, quanto del futuro intrecciato del PRC con La Sinistra. Se per un attimo soltanto si ritorna alle cifre che descrivono l’entità della mancata affermazione elettorale (dunque anche e soprattutto sociale) della lista “La Sinistra”, ci si accorge – con opportuni raffronti con le politiche dell’anno precedente e con le europee di cinque anni or sono – che non è più sufficiente alcun esperimento aggregativo improvvisato uno o due mesi prima del voto per poter costruire un consenso, se non proprio di massa, almeno sufficiente a rideterminare una piattaforma politica per un rilancio delle istanze progressiste in Italia. Sappiamo benissimo tutte e tutti che la crisi della sinistra di alternativa (e della sinistra in generale) attraversa quasi tutti i paesi europei: addirittura si può dire che una proposta di rovesciamento del sistema capitalistico o anche di sua timida riforma nel nome della giustizia sociale, è stata scavalcata ampiamente da trumpismo, sovranismo (quindi neo-nazionalismo fortemente identitario, razzista e xenofobo) e nuove destre che propongono una ricetta antisociale per la non soluzione di problemi sociali: quindi forme di populismo si sono saldate a vecchi schemi del conservatorismo (anche clericale, fra l’altro…) offrendo ai popoli quel “bisogno del nemico” per poter sopravvivere in tempi così difficili. La lotta di classe, che esiste anche se non la si percepisce per la mancanza di una unità delle vertenze e degli scioperi su scala quanto meno nazionale, viene considerata alla stregua di una immagine analitica del passato e si preferisce parlare di “sviluppo mondiale“, di “evoluzione” e di “superamento della povertà“, eludendo quindi il cuore del problema sociale e portandolo su un terreno meramente riformista, perché ciò fa comodo ad una certa sinistra che insegue ancora sogni di governo con un rinnovamento unitario con un centro molto poco simile a quello di Prodi, identificabile oggi nei piani di Calenda e di Bonino. Da questa visione liberal-liberista, tutta interna al PD di Zingaretti, si è sottratta La Sinistra, la lista unitaria formata da Sinistra Italiana, Rifondazione Comunista, Convergenza socialista e altre forze di movimento: un tentativo generoso non di essere per antonomasia il punto di ripartenza dell’antiliberismo e dell’anticapitalismo in Italia; semmai il punto di approdo di una logorante ed esasperante consunzione delle forze tanto politiche quanto organizzative che hanno avuto la giusta presunzione di offrire una alternativa all’elettorato: quella di non scegliere nessuna delle tre destre in campo. La destra populista dei pentastellati, quella sovranista di Lega e Fratelli d’Italia e quella economica rappresentata dal duo Zingaretti-Calenda. Ma la domanda di sinistra, come spesso ho avuto modo di scrivere, in questo Paese non esiste nelle forme e nei punti di riferimento di un tempo: oggi gran parte di chi si dichiarava comunista ha finito col perdere per strada il significato importante di quell’aggettivo, di quell’attributo e ha accettato di cadere nella vaghezza del termine “sinistra” che, adoperato sapientemente dai mass media, ha finito col vivere della rendita di un passato che più non gli appartiene: quello del PCI e persino del PDS, irriconoscibili già nella fusione a freddo tra DS e Margherita. Trasfigurati poi nella creazione di un PD a guida renziana, tutto rivolto al centro, e, infine, privi di alcun legame storico e politico con la conversione fintamente a sinistra di Zingaretti che ha condiviso, fino alle primarie che lo hanno eletto segretario, buonissima parte delle scelte politiche di Renzi. Ad iniziare dal referendum anti-costituzionale del 2016. Eppure, nonostante la trasfigurazione da centrosinistra a centro-liberista con alcune dipinture di progressismo legate alla difesa della democrazia veramente borghese, quella che si esprime esclusivamente sui diritti civili, sulle libertà di parola ed espressione e che non trova alcuna contraddizione nel far convivere tutto ciò con l’amputazione dei diritti sociali mediante le leggi Fornero, il Jobs Act, la Buona scuola, passando per una controriforma statale che avrebbe dato poteri all’esecutivo non meno di quanti ne sognano oggi i sovranisti, ebbene, nonostante tutto ciò, risorge dalle sue ceneri il pericolo delle destre e tutto diventa più grave e imminente. Quindi il “voto utile“, anche se molto poco nominato ma molto praticato, assume le proporzioni di un tempo e milioni di moderni proletari, di sfruttati, di lavoratori e lavoratrici invece che avvertire il bisogno di una unità che parta proprio da loro stessi, la ricercano in quella della rappresentanza politica, commettendo l’ingenuo errore di affidare a forze come il PD il compito di contrastare le politiche antisociali delle destre. Qualora ciò, pur in ipotesi, avvenisse (nonostante i tanti esempi contrari che abbiamo: governo Monti, governo Letta, governo Renzi, governo Gentiloni…) altra dimensione non creerebbe nella politica italiana se non quella di una illusione nel riuscire, attraverso nuove riforme a protezione di grandi interessi finanziari e borsistici, nella contraddizione irrisolvibile di tutelare ed accrescere al contempo anche i diritti sociali delle fasce più indigenti della popolazione. L’unica soluzione possibile per dare seguito ad una vera stagione di riforme in favore dei lavoratori e delle lavoratrici, dei precari e dei disoccupati, per una riformulazione delle garanzie di un vero e proprio “stato-sociale”, è un impegno davvero di lunga lena che non può risolversi, per l’appunto, nella costruzione di una lista elettorale con solerti ambizioni di poter diventare qualcosa di più, diffondendosi nel sentire comune proprio degli sfruttati, dei poveri, di tutti coloro che riescono a malapena a sbarcare il lunario. Questo impegno politico deve assumere una connotazione fortemente sociale e culturale: deve proseguire puntando non all’annientamento dei soggetti che ne fanno parte ma al loro potenziamento, alla volontà di rimettere ciascuno a posto la propria casa per rendere più solido l’intero stabile. L’atto delle dimissioni tanto di Fratoianni quanto di Acerbo e delle rispettive segreterie nazionali deve essere un punto di non ritorno: la colpa del disastro elettorale non è singolare ma solo declinabile al plurale. Quindi è responsabilità tanto dei partiti quanto dei movimenti che hanno partecipato alla nascita de “La Sinistra”. Nell’assemblea romana, tenutasi poco dopo l’esito del voto, ancora troppe sono state le parole che ci siamo detti addosso e che non servono a tracciare una linea per far nascere, prima ancora del soggetto stesso nella sua forma organizzativa compiuta, un soggetto emotivo che emerga dalla necessità di una unità molto più ampia di quella immaginata, che si pensi estendibile in tutti i settori di rappresentanza del sociale: sindacato, cultura, vita civile di ogni giorno. Il progetto della sinistra di alternativa deve essere nuovo in questo senso: non deve somigliare più a nessuna forma del passato. Rifondazione Comunista ha un compito preciso davanti a sé: rendersi disponibile pienamente nella riuscita della rifondazione non soltanto del movimento comunista in Italia, che rimane una sua prerogativa cui non può e non deve rinunciare, ma dire a tutte le comuniste e i comunisti che oggi il rinnovamento parte proprio da noi stessi, dalla capacità che avremo di rinnovare il quadro dirigente del Partito e di farlo traghettandoci al prossimo congresso nazionale con un comitato di gestione unitario che, allo stesso tempo, tenga fedeltà al mandato ricevuto e si dedichi, nella sua piena autonomia, a non creare alcun presupposto per la fine dell’esperienza de “La Sinistra”. Non è tanto una questione di “comprensione” o meno da parte dei cittadini e, prima ancora, delle compagne e dei compagni del Partito. E’ semmai praticare una sorta di “piccola palingenesi” per salvarci dalla completa rovina e distruzione e, fuori da ogni cosiddetto “egoismo di partito”, provare a salvare ciò che rimane di una sorta di coscienza di classe in questo Paese che tra quelli europei rimane il più aggredito dalle forme di neo-autoritarismo che avanzano con grande prepotenza. Ecco perché Rifondazione Comunista va ripensata nella sua organizzazione e nella proposta di una futura segretaria o di un futuro segretario nazionale: non è detto che attualmente lo si abbia tra le nostre fila. Così accadde con Fausto Bertinotti che divenne l’immagina di Rifondazione Comunista dopo essere uscito dal PDS e aver accettato l’invito di Armando Cossutta ad entrare a far parte del Partito insieme ad un nutrito gruppo di sindacalisti della CGIL. Così potrebbe anche accadere oggi. Magari le energie migliori sono “fuori da noi”. Forse tra i nostri giovani possono emergere nuove speranze in tal senso. Ma questa ricerca del rinnovamento noi la dobbiamo attuare non solamente pensando ad un nome di una segretaria o di un segretario, ma riattualizzando la nostra cultura politica, liberandoci da sterili riferimenti del passato, da iconografie ormai consegnate alla storia. Rifondazione Comunista rimarrà quella volontà originaria di conservazione e rinnovamento al tempo stesso del movimento comunista solo se sarà in grado di esprimere una cultura politica che formi il corpo del Partito con l’obiettivo di un partito di massa, capace di trasferire la sua visione alternativa della società proprio alla società stessa: non con slogan o proclami, ma mettendo da parte la rassegnazione e prendendosi sulle spalle il compito gravoso di iniziare una nuova vita.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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