Non sempre le prime pagine di The Economist sono allegre. Quella di fine maggio 2019 era però colorata e attraente e accompagnava il titolo “The great jobs boom” che chiedeva attenzione. Boom dei lavori, proprio quando il lavoro in Italia è oggetto di diffuse preoccupazioni, per il passato, il presente e l’incerto futuro? Tra l’altro c’è un vago ricordo che il settimanale faccia capo al gruppo Agnelli, un tempo italiano. Tornando a “The great jobs boom” dell’illustrazione, vi erano rappresentati uomini e donne, attivi nei servizi di ogni genere e sorta e nell’attività edilizia, una scolaresca a un incrocio, un gig-pizza in moto, redarguito da un agente del traffico, un funerale d’alto bordo, una ballerina con un severo costume a righe, un giudice in tocco e toga, un carcerato nel vestito di prammatica, fotografi dappertutto e artisti vari, una nave al bordo del porto con uno sfondo di grattacieli e gru in buon numero; e molto altro ancora che chi vuole può immaginare da sé pur senza vedere l’immagine, ma entrando nello spirito. Sospetto italiano Leggendo il testo collegato all’affresco di copertina con il titolo working it, (come dire: se ci provi, funziona!) sembra chiaro che il boom e il connesso racconto riguardi solo il pubblico dei lettori che contano, quelli che sanno apprezzare il successo capitalistico. Sono in fondo quelli che per partecipare cominciano a leggere l’antico periodico: Usa, Londra, Europa ricca di Francoforte, Amsterdam e dintorni. E poi la finanza, la pubblicità degli affari che mostrano i casi e le scelte di acquisto dei ricchi. Non c’è l’Italia, non tutto il Sud dell’Ocse. L’Italia non interessa; è citata malvolentieri, nel testo di appoggio, come economia in controtendenza, disordine da evitare. Per quanto riguarda poi le altre economie del mondo, quelle miserabili e quelle medie (da distinguere – come fanno all’Onu – tra medie basse, medie mediane, medie alte) vale la pena di occuparsene? Sì e no, decide il Vangelo dei ricchi. La Cina per esempio non va trascurata e neppure l’Antico Impero, un po’ usurato, di Elisabetta regina e di Theresa May. Il rapporto dell’Ilo Nell’anno del centenario (1919-2019) festeggiato dall’Organizzazione internazionale del lavoro, l’Ilo, l’Organizzazione, nella sua sede di Ginevra, ha cercato di riflettere un po’ di più sui risultati raggiunti (e su altri mancati) nel corso di un secolo. I temi principali sono stati: libertà del lavoro; pari retribuzione per pari lavoro nelle situazioni più diverse, perfino tra uomini e donne; proibizione o controllo del lavoro minorile. I progressi ottenuti non sono stati tali da accontentare: proclami, molte promesse, risultati lenti e parziali; e il lavoro resta – tutti all’Ilo ne sono convinti – l’unica via percorribile per il progresso umano, per lento e difficile che sia. Lavoro e non lavoro nel mondo: quanti e quante lavorano; e come L’affresco del lavoro umano è assai ampio; quello usato da The Economist è un “particolare”, come direbbero gli storici dell’arte. Gli umani registrati sulla faccia della terra sono, alla fine del 2018, 7,6 miliardi. In età di lavoro sono 5,7 miliardi. Si chiarisce subito che se è proibito o almeno contrastato il lavoro infantile, non c’è un’età massima, un limite per gli anziani. L’Ilo mette subito le mani avanti, e spiega che “una gran parte della popolazione mondiale non usufruisce dei benefici dell’età avanzata”. In altre parole, “molta gente non ha scelte diverse dal lavorare finché è in grado di farlo” (Global Employment and social trends, p.5 nota). A lavorare è il 58,4%. pari a 3,3 miliardi di viventi. Se si sommano 172 milioni di disoccupati, la forza lavoro complessiva ammonta a 3,5 miliardi, pari al 61,4% degli adulti. Facendo una semplice sottrazione, per l’Ilo il 38,6%, 2,2miliardi, come dire una popolazione pari a tutti gli abitanti dell’India più metà dei cinesi, non svolge alcuna attività lavorativa, vive di rendita o comunque a spese degli altri sei decimi dell’umanità. Per aggiungere un numero soltanto, è di 140 mln (Germania più Italia o poco meno) il conto della forza lavoro potenziale, formato da chi non ha trovato o non ha cercato lavoro. Leggendo le cifre, il lavoro non è in gran forma; non è proprio così che va avanti il mondo. All’inizio del secolo l’aumento delle persone al lavoro, uomini e donne, era di cinquanta milioni l’anno; poi calato a quaranta milioni o anche meno intorno agli anni ’10 del secolo, intorno ai trenta milioni nei nostri anni, poco più di venti negli anni avvenire, sui quali si butta un occhio. Questo dimagrimento avviene alla presenza di una crescita considerevole della popolazione mondiale. In termini percentuali nel duemila erano stimati al lavoro il 61,2% degli esseri umani di 15 anni e più. Si trattava del 74,4% maschi e il 47,9% femmine. Nel 2018 al lavoro era il 58,4%, con i maschi scesi al 71,4% e le femmine al 45,3. Le previsioni dell’Ilo al 2023 indicano un 57,8 complessivo, con maschi al 70,5% e femmine al 45,3. Che abbia prevalso un criterio di decrescita felice? O forse è il caso di un capitalismo affidato ad Amazon e Google, agli omologhi cinesi, e deciso a fare profitti con poco lavoro, sfruttato in modi adeguati? Quattro secoli fa Tommaso Campanella proponeva nella “Città del Sole”, per tutti e tutte, un lavoro di quattro ore al giorno, egualmente pagato, egualmente rispettato. Per chi si lavora Il lavoro umano si divide, stando all’Ilo, in quattro categorie, di misure assai diverse. La più frequente e considerata è quella di chi lavora per un padrone – quale che sia il nome che si preferisce attribuirgli – in cambio di un paga (salario o stipendio). Essa riguarda il 52% del totale di 3,5 miliardi di umani. Lavorano “in proprio”, invece, 2,3 miliardi, cioè il 34% del totale. Undici su cento sono quelli che lavorano “in famiglia”, nella panetteria paterna o, per esempio, aiutando la madre sarta o il cugino taxista. Il tre per cento che manca al totale 100 consiste nei “datori di lavoro” di altri. Padroni e padroncini. Da notare ancora che nel mondo intero, il lavoro è informale per quasi due terzi mentre è formale per il 39%. Non si tratta di una differenza nominale, perché nel lavoro in senso proprio sono comprese le conquiste di duecento anni di lotte sindacali e politiche. Un rapido elenco comprende: lavoro sicuro per durata e orario, contributi per pensione, ferie, malattia; e non tutti e non sempre. Nei lavori che l’Ilo recensisce, con impassibile sguardo statistico, sono frequenti le sovrapposizioni e gli intrecci. Prendendo in considerazione le due maggiori categorie di lavoro, nel lavoro dipendente, di quello che si svolge in cambio di salario, risulta informale il 40%, mentre nell’altro caso del lavoro in proprio, è informale l’85% dell’insieme. Lontani come siamo dalla Città del Sole, nella terra di tutti giorni, quanti uomini e quante donne siano al lavoro, con quali compiti e quale paga è da sempre un problema latente e senza soluzioni definitive. In un passato remoto gli uomini avevano compito della caccia, della difesa e della guerra, le donne invece la cura dei piccoli e la ricerca e preparazione del cibo. In un passato prossimo, con l’agricoltura e l’allevamento, le funzioni si sono mischiate. L’aratro agli uomini, l’orto alle donne. Uomini e donne sono capaci di tessere, sono capaci di mungere e curare gli animali, conservare il fuoco acceso, cucinare, aggiustare gli oggetti; chi più chi meno. Con l’economia del mercato, nel presente, con la scuola, tutti e tutte saranno capaci di leggere e di scrivere, di imparare e insegnare, di vendere e comprare, anche se gli uomini manterranno più autonomia e meno vincoli negli spostamenti. Andranno tutti e tutte, lontano per mare e per terra. Andranno in guerra, sopporteranno le guerre. Massenzio Non c’entra con l’Ilo, l’altra sera alla Basilica di Massenzio, a Roma. C’erano quattro donne, scrittrici e scienziate assai note, che spiegavano alla platea, per lo più di lettrici appassionate, “il futuro dei classici”. (Martedì 25 giugno “Etica dei sentimenti” Tayari Jones – Ayesha Harruna Attah – Michela Marzano – Rachel Kushner) L’ultima delle quattro era una giovane, bellissima studiosa ghanese che raccontava il classico dell’Africa – passato e futuro – partendo dalla cultura iniziale comune, quella dell’Egitto. Una cultura antica, un’immagine nuova, fortissima. Negli applausi scroscianti della fine si è sentito più forte ancora il richiamo “mamma” di un bambino di due anni al massimo, stufo delle storie d’Egitto, felice di avere ritrovato la sua mamma, nella luce dei proiettori, in cima al palco, e voleva tornare tra le sue braccia.