Non si sa bene, ma forse si sa, se in questa crisi di governo stiamo oscillando tra una sorta di recupero dei “valori” primordiali del Movimento 5 Stelle e della naturale collocazione della Lega nell’alveo del centrodestra, oppure se siamo davanti ad un tale precipitare degli eventi, così repentino ed immediato, da rimescolare le carte sul tavolo e costringere un po’ tutto e tutti a fare i conti con granitiche certezze organizzativo-politiciste interne e contratti di governo dissoltisi in un batter di ciglia. Probabilmente entrambi gli aspetti, volontà e coercizione, si fondono molto poco amabilmente: dolenza e nolenza al tempo stesso che riaprono non soltanto i giochi di palazzo per trovare una nuova maggioranza cui affidare le disgraziate sorti del Paese, ma che ripropongono il tema del ruolo di un partito, di un movimento, di una forza politica insomma dentro le istituzioni repubblicane. La fenomenologia grillina, l’impatto tutto “filosofico” del Movimento 5 Stelle verso la popolazione (conoscendo bene l’idiosincrasia dei pentastellati per le “ideologie” mi guardo bene dall’attribuire loro una costruzione di questa fatta), l’impatto verso l’elettorato (che è parte specifica della prima, quindi parte convinta e convincente verso altri settori della italica gente), è stata costretta ad una mutazione repentina rivolta prima di tutto a sé stessa: siamo passati dal comunicare urbi et orbi lo splendido isolazionismo purista del primo grillismo d’annata all’ipotizzare alleanze con liste civiche nelle amministrative (e pure nelle politiche) per terminare questa ingloriosa parabola con l’ipotesi sempre più accreditata dalle ore che passano di un esecutivo insieme al tanto odiato Partito democratico. Non si tratta del trasformismo di fine ‘800 e inizio ‘900. Qui siamo davanti ad uno stato di necessità politica che viene fatto passare per grande coscienza, per assoluta consapevolezza delle necessità del Paese cui tutti si aggrappano quando devono giustificare giravolte di questa fatta. Naturalmente non è molto diverso il versante divenuto ora “opposto“: la Lega da “Nord“, da secessionista e separatista, è divenuta nemmeno tanto lentamente un partito nazionalista dei più accesi e veementi. A tutto questo il Paese, almeno larga parte di esso, ha assistito metabolizzando con la storica tradizionale acquisizione degli eventi in modo passivo, digerendo ogni sorta di salto mortale che contraddiceva le parole appena stragiurate qualche settimana prima e ha convenuto che era spuntato, come un fungo dalla larga cappella ben visibile tra foglie e arbusti di un fitto sottobosco, un nuovo leader cui affidarsi anima e core, che riempiva (che riempie…) le piazze con una prosopaica retorica mista di tante fobie e paure, ossessioni e compulsioni da regalare al cinguettio dei tweet o alle dirette Facebook. Il Paese, pertanto, può anche essere pronto a digerire una nuova giravolta di contenuti, di programmi e di fondamenta per un governo di legislatura, così come lo richiede Zingaretti ai Cinquestelle, proferendo cinque punti su cui innestare anche un ministero per Luigi Di Maio, lanciando quindi ponti all’avversario di pochissimo tempo fa. A pensarci bene, le metafore storiche si possono sprecare in questa crisi di governo: è come trovarsi all’8 settembre 1943, scompaginati, smarriti, senza una linea precisa su cui camminare, frastornati e storditi dal cambio di campo. Ieri Lega e Cinquestelle al governo. Oggi Lega all’opposizione, Cinquestelle forse ancora al governo e PD, che era all’opposizione, al governo con i pentastellati. Guardando meglio in casa del movimento grillino, sembra d’essere non tanto alla resa dei conti finale ma ad una sorta di controffensiva delle Ardenne, l’ultimo tentativo di riscossa di un movimento politico che, qualora Salvini dovesse ritrovare voce e capacità di ribaltare l’errore che ha commesso relegando soprattutto sé stesso in un angolo, pur apparendo ancora come il “capitano” sostenuto dall’unanimità dei gruppi parlamentari leghisti, sarebbe nuovamente in grande difficoltà nel proporsi come “responsabile” nonostante l’allontanamento draconiano dai princìpi ispiratori del primo grillismo, quelle erede dei “meet up“. Se ascoltate qualche intervista fatta a Di Maio o anche ai sottosegretari del M5S, se la paragonate alla fisionomia del grillino duro e puro delle origini, troverete ben poche similitudini: non è qui tanto il potere a cambiare le persone ma le necessità della sopravvivenza di una esperienza politica che va oltre ora lo stesso governo che ha guidato con la Lega per un anno. Ciò che resta di buono è il carattere “parlamentare” della nostra Repubblica, la centralità che proprio in questi giorni il Parlamento stesso si è ripreso diventando la scena prima della politica italiana, mettendo in secondo, terzo piano le comiziate di Salvini (fatto salvo un tentativo di recupero in extremis di notorietà attraverso il bacio del rosario addirittura dai laici banchi del Senato della Repubblica): in dubbio è la capacità del popolo italiano di percepire tutto ciò, di vedere anche in questo pandemonio di posizioni che si accavallano, si superano, si capovolgono, qualcosa comunque di buono. Ma il “buono” si ferma solo alla forma che si reimpone, alla dimensione politica che non esclude la partecipazione ma che si riprende il suo spazio istituzionale, il necessario protocollo dettato dalla Costituzione, il ruolo di arbitro del Presidente Mattarella: per il resto sappiamo che qualunque governo trovi composizione all’interno delle Camere, con la prossima manovra finanziaria ci attende, secondo quanto richiesto da Zingaretti al M5S, una piena adesione ai princìpi europei, quindi una assoluta fedeltà alla Commissione guidata da Ursula von der Leyen, del resto già votata da PD e grillini all’Europarlamento. Il punto economico è quello dirimente, quello su cui misurare la possibile durata di un esecutivo di legislatura. Sarà interessante appurare le differenze di approccio tra Cinquestelle e Lega e Cinquestelle e PD in tal senso: al momento l’essenzialità dell’acqua è confermata. Ha la maggioranza relativa in Parlamento, prende la forma che più le piace e rimane comunque, apparentemente, incolore. Quindi buona un po’ per tutte le stagioni.

Tanti auguri, Italia…

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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