Di fronte alla rapida diffusione del coronavirus, l’Unione Europea si è trovata ancora più divisa di prima. Anche se sembra pronta a sospendere i vincoli di bilancio, non sembra però pronta alla vera trasformazione che può nascere solo da rivendicazioni comuni.

L’espansione dell’epidemia vista dal centro sud-Italia ha risuonato come l’eterno ritorno dell’eguale. Si inizia con sporadici casi in una provincia che vengono presi sotto gamba dalle istituzioni, le dichiarazioni di politici sono contraddittorie, i protocolli sanitari poco chiari, si rimpallano meme simpatici sui social e tutti ridono seguendo gli stereotipi nazionali. All’espansione del virus su scala regionale seguono le prime ordinanze e chiusure, il dibattito politico rimane contraddittorio e risuonano messaggi come «la tale città non si ferma» o «non cambieremo il nostro stile di vita». Il ciclo si conclude con contagi su scala nazionale, numeri che raddoppiano a vista d’occhio, misure drastiche e severissime e dai toni scherzosi si passa all’unità nazionale, agli inni, al tricolore e al richiamo alla storia eroica del paese.

Mentre scriviamo chiusi in casa da più di una settimana, abbiamo visto questo ciclo ripetersi in diversi stati europei, seguendo purtroppo gli stessi errori sociali e politici del nostro paese

Dagli aperitivi anti-virus al panico nei supermercati, mentre nelle nostre camerette ci siamo sentiti inermi di fronte all’incapacità di far comprendere cosa stesse realmente accadendo. E così ci siamo limitati scrivere a qualche amico sparso nei vari paesi europei di comprare mascherine, guanti e disinfettanti finché erano in tempo. Ci cono evidenti differenze nella gestione della crisi dovute al diverso assetto istituzionale, alla cultura politica, alla capacità di gestione dell’emergenza e alla diversa risposta sociale dei diversi paesi europei. Eppure stupisce, come di fronte alla possibilità del contagio, e di fronte alle misure drastiche prese dall’Italia in così pochi giorni, la risposta dei paesi europei sia stata nulla finché i contagi non sono arrivati a contare numeri elevatissimi anche sul proprio territorio nazionale.

Insomma, dopo la crisi finanziaria e del debito pubblico, dopo la crisi dei rifugiati e dopo una crisi democratica che ha portato all’emersione di movimenti xenofobie razzisti – tutte crisi simili ma che in ogni paese si sono sviluppate secondo specificità nazionali – l’Unione Europea si è trovata ancora divisa e incapace di rispondere in maniera coordinata alle sfide globali. Forse, però, non dovrebbe stupire questa modalità di gestione della crisi, perché segue un pattern già ben definito dalla governance europea. Cioè un coordinamento che avviene tramite competizione di istituzioni e stati membri, meccanismo di governo del progetto neoliberale europeo, che infatti ha sempre avuto un bassissimo livello di legittimità sociale.

IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA È MORTO. VIVA IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA

È già chiaro da più di una settimana che l’Italia affronterà una delle più grandi crisi economiche della sua storia, forse equiparabile alla situazione seguente alla prima guerra mondiale, ed è oggi chiaro che la situazione non sarà solo italiana ma europea e mondiale. I tonfi nelle borse mondiali si susseguono, ma soprattutto preoccupa il blocco della produzione, la limitata circolazione delle merci e la salute fisica e psicologica della forza lavoro. Di fronte a questo l’Italia e tutti gli stati europei si stanno preparando a spendere più del famoso vincolo del 3% sul PIL. Toni roboanti hanno già sancito la fine del Patto di stabilità e crescita, e c’è chi già chi intravede il ritorno a una spesa keynesiana. Forse vale la pena soffermarsi quindi su come funziona il Patto di stabilità per capire se effettivamente sia così.

Il “vincolo del 3%” non è un vincolo nominale, ma dalla riforma del 2005 del Patto di stabilità, questo calcolo avviene in termini strutturali, cioè filtrando le misure temporanee dal Pil e cercando di prendere in considerazione le oscillazioni del ciclo economico. Sul calcolo di quali siano le componenti strutturali e temporali del Pil si sono aperti diversi scontri tra i ministeri dell’economia nazionali e la DG Economia e Finanza della Commissione Europea. Nel 2015, il Ministro Padoan, durante il governo Renzi, contestò apertamente i calcoli della Commissione Europea all’interno del Documento programmatico di bilancio. In seguito a questo scontro, la Commissione pubblicò una comunicazione sull’uso della flessibilità nel Patto di stabilità facendo riferimento a tre clausole di flessibilità: la clausola per gli investimenti, la clausola per le riforme strutturali e la clausola riguardante le condizioni congiunturali. Queste clausole consentono di tenere in considerazioni la flessibilità nel calcolo del Pil potenziale, ma non mettono in discussione la logica di fondo del Patto. Pochi anni dopo, richieste di maggiore flessibilità sul calcolo del deficit da parte del governo giallo-verde hanno ricevuto reazioni completamente diverse da parte della Commissione Europea, creando enormi ripercussioni sui mercati internazionali, e costringendo il governo italiano a rivedere, almeno parzialmente, i suoi piani.

Questo ci aiuta a comprendere l’enorme potere discrezionale in mano alla Commissione Europea, aumentato in seguito alle riforme avvenute dopo la crisi economica, tra cui il Fiscal Compact

La Commissione Europea e la sua DG Economia e Finanza in particolare possono decidere in che modo calcolare ciò che è temporale o strutturale all’interno del ciclo economico. Così oggi sono in grado di applicare in pieno le regole sulla flessibilità accettando ogni sforamento al vincolo di bilancio, e lasciando anche spazio per gli aiuti di stato per i settori produttivi più colpiti dalla crisi, senza di fatto rompere i vincoli iscritti nei Trattati.

Diventa, così, ancora più chiaro come la Commissione Europea in questi anni di crisi economica abbia deciso consapevolmente di bloccare ogni manovra espansiva anche negli stati membri più colpiti dalla crisi. Quindi questa interpretazione a maglie larghe del Patto di stabilità non sta cancellando il Patto stesso, né tantomeno la sua logica intrinseca di coordinamento tramite competizione tra gli stati membri. Grazie a questa sua capacità di gestire le crisi in maniera malleabile, il progetto neoliberale europeo, fino a oggi è stato capace di non collassare su se stesso nonostante il suo basso grado di legittimità.

LOTTE NAZIONALI SENZA UNO SPAZIO EUROPEO

Quello di cui abbiamo bisogno per cancellare i vincoli di bilancio  è ritornare a concepire un progetto europeo progressista e post-liberista, basato su un’idea condivisa di giustizia sociale e non più sull’individualismo proprietario e competitivo, sulla salvaguardia del pianeta e delle relazioni sociali, e non più delle aziende e della circolazione delle merci. Questo progetto europeo alternativo è sempre stato monco e si è completamente arenato dopo il referendum greco del 2015. Nonostante in molti paesi, come ad esempio la Francia, ci siano state lotte sociali fortissime, queste non hanno saputo tradursi oltre i propri confini nazionali. Questo perché oggi manca uno spazio di condivisione per le lotte europee, le reti europee esistenti si ritrovano più intorno alla bolla di Bruxelles che alle lotte concrete dei territori. Non solo manca una lingua comune, ma abbiamo perso anche quel linguaggio comune acquisito nelle lotte degli ultimi decenni, rimasto confinato a qualche attivista internazionalista, volontario terzomondista, o lavoratore di qualche Ong.

Oltre a invocare lotte europee – cosa che chi scrive ha fatto diverse volte proprio sulle pagine di questo giornale – dovremmo, però, capire come costruire queste nuove connessioni, che in questo spazio frastagliato stentano a emergere tanto più ora che siamo confinati nelle nostre camere.

Eppure in questi anni le lotte ambientali e i movimenti femministi hanno costruito lotte in tutto il mondo in grado di darsi parole d’ordine comuni e allo stesso tempo in grado di essere radicate sul territorio

Lotte in grado di reinterpretare il concetto di giustizia sociale e di violenza sistemica vissuta dalle donne e dalla terra in questo sistema capitalista. Ripartendo da là abbiamo bisogno di ritessere le fila delle lotte e degli scioperi che già in questi giorni stanno avvenendo in diverse parti di Europa per chiedere sicurezza e diritto alla salute nelle fabbriche, nel settore della logistica e nella sanità.

C’è però un altro fattore differente rispetto alle precedenti crisi vissute dall’Unione Europea: il coronavirus si è diffuso in tutta Europa in poche settimane. Forse tra pochi giorni potremmo ritrovarci con la maggior parte degli stati europei in quarantena e con misure “all’italiana” – anche se speriamo profondamente non con gli stessi numeri. Questa potrebbe essere un’inedita comunanza di eventi, che non ha mai avuto precedenti nella storia della moderna Unione Europea. In questa comunanza di eventi deve essere costruito un sentire comune, una nuova connessione costruita dal basso, di chi viene lasciato indietro nella gestione di questa crisi, abbandonato e invisibilizzato dalla richiesta di stare a casa e dal ritornello dell’andrà tutto bene.

Per costruire parole comuni dobbiamo ripartire dalle lotte che ci sono riuscite in questi anni, dal movimento femminista e ambientalista, anche se non sempre i loro linguaggi risuonano adatti per la costruzione di programmi politici puntuali per la sinistra europea.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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