La pandemia ha sollevato molti interrogativi sui disastri dell’economia privata, dell’iniziativa imprenditoriale e ha reso nuovamente manifeste, oltre un orpello quasi ideologico ispirato dal “pensiero unico“, tutte quelle possibilità di riscatto sociale che parevano destinate a non avere più un ruolo attivo nelle dinamiche della vita quotidiana.
Si va dalla consapevolezza della necessità di un ripristino di uno stato-sociale depredato nel corso di decenni, dopo la fine della prima stagione della nostra Repubblica, fino alla palese riduzione del lavoro giovanile – primo fra tutti quello dei riders e dei tanti precari – a forme di caporalato che oltrepassano i confini dei campi: il modernissimo schiavismo si estende dal settore anticamente agricolo a quelli in cui è possibile gestire unitamente tempistiche, orari e prestazioni tramite l’arma del ricatto permanente.
Non sarebbe, di per sé, una novità se parlassimo del sistema di fabbrica e di azienda: dal cottimo all’aumento della produzione attraverso una spinta meccanizzazione sostitutiva della forza-lavoro manuale. Ma diviene una novità se siamo consapevoli di riferirci a nuove tipologie di lavoro, inventate da una trasformazione delle abitudini sociali indotte dal capitalismo per aprirsi spazi di mercato laddove non era immaginabile che potessero esistere fette consistenti di domanda.
Bisogni indotti, mostrati come facilitazioni della vita: tutto è classificato dietro l’ipocrisia della semplicità che deriva dall’”intelligenza” applicata alla frenesia dei “tempi moderni“. La parola più ricorrente è: “smart“. “Smartphone“, “Smart-city“, “Smart-working“… Tutto viene etichettato come “intelligente” e, in quanto tale, contribuirebbe ad un miglioramento dello stile di vita di ciascuno di noi per consentirci di apprezzare al meglio la vasta offerta che il mondo delle merci e del profitto ci mette davanti ogni giorno.
Del resto come può qualunque cosa che abbia il marchio dell’intelligenza non essere conseguentemente anche utile? E’ un altro passo del “pensiero unico”, trasformato questa volta in una tragica, devastante consapevolezza del non poter più fare a meno di determinati dispositivi che ci interconnettono, senza i quali la scuola, i rapporti sociali, quelli di lavoro, quelli con la burocrazia amministrativa, il semplice pagamento delle bollette o il dialogo con la banca di cui si è correntisti torna indietro ad epoche epiche, che paiono lontane anni luce da una modernità che ci chiede solamente di impostare pin, passwords e indirizzi e-mail; a volte qualche riconoscimento facciale, e poi via veloci sulle ali della moderna intelligenza telematica che tutto gestisce e tutto controlla.
Da un lato, dunque, abbiamo un mondo del lavoro che viene riportato indietro nel tempo, rimodulato e riadeguato a modelli di vero e proprio schiavismo nell’ambito di una precarizzazione contrattuale che non conosce limiti; dall’altro, appena si fuoriesce dal tempo che ci occupa il servaggio vero e proprio sul posto (o sul sellino da bicicletta o scooter) di lavoro, entra massicciamente nel nostro tempo libero, familiare, quello anche fatto per pensare, per rilassarsi, per istruirsi e godere di qualunque forma di cultura e di divertimento, la presenza “social“, la presenza sui social.
E’ una induzione a non staccare mai la spina dall’intelligenza, dal mondo “smart“: tutte le reti sociali (impropriamente definite tali) emanano il messaggio induttivo per cui rimanere collegati è imprescindibile e non sminuisce i ritmi della vita vissuta, della vita reale e concreta. Puoi andare a passeggiare in un bosco, in riva al mare, fare la tua corsa giornaliera, cucinare, leggere, vestirti alla moda, dipingere e “socializzare” tutto.
La nostra vita non ha più nessun angolo buio in cui si possa trovare rifugio e fare di questo benefico calare delle luci e dell’attenzione del mondo su noi (e viceversa) il nostro momento di intimità per antonomasia. Non si tratta tanto di “staccare la spina“, di accantonare il cellulare, il tablet, il computer, di spegnere la “Smart-tv“; semmai si tratta di trovare qualcosa da non raccontare a nessuno, di tenerlo per noi: perché in quel momento quel fatto, quell’emozione non detta, celata al mondo intero, anche alle persone più intime e care, quello siamo noi stessi nella nostra pienezza.
L’essenza individuale, priva di egoismo, semplicemente il riconoscimento della nostra insostituibile somma di particolarità singolari, il nostro riconoscerci come unici e irripetibili si concretizza nella celebrazione del silenzio. Anche nei nostri confronti: tanto una gioia quanto un disagio, se nascosto all’”intelligenza” di ogni apparecchiatura, all’occhio indiscreto di qualunque videocamera o storia di questo o quel social-network, divengono un elemento fondante la nostra crescita personale, sociale e culturale.
L’arricchimento vero è lontano dalla sperimentazione del confronto dei propri convincimenti mediante eterni fraseggi su frasi corte o lunghe scritte e riscritte su Facebook, Twitter, corredate da foto o da video su Instagram, rimbalzate su Whatsapp e su Telegram o, ultimo ingresso tra i giovanissimi (anche se lo utilizzano anche politici sovranisti di non primissimo pelo… il che dovrebbe suggerirci qualcosa in merito…), su Tik Tok.
L’arricchimento vero viene dall’obliare tutto quanto, da quel “bel tacer” che “non fu mai scritto” e che tutt’oggi deve rimanere inscrivibile, incomunicabile. Non tanto per evitare di fare brutte figure con qualche scivolone lessicale o qualche cretinata scappata lì per lì nel furoreggiare delle presunte discussioni internettiane; quanto, semmai, ricostruire noi stessi, alienandoci dall’alienazione prodotta da un liberismo che l’ha estesa sapientemente ad ogni ambito della nostra vota: dentro e fuori dalla fabbrica, dentro e fuori dalla scuola, dentro e fuori dall’ufficio.
Continuando ad inseguire la semplificazione della vita esterna a noi stessi, ritenendo sempre più “smart” questa esistenza grazie a protesi tecnologiche di ogni tipo, abbiamo finito col trascurare tanto la percezione reale dei rapporti di forza esistenti nella società quanto l’intima coscienza che si aggrappa a valori che conserviamo in noi ma che abbiamo relegato dietro le quinte di un palcoscenico dove tutto deve essere visibile e comunicabile.
Questa nuova mitologia della presentazione ossessiva di noi stessi, minuto per minuto, ora per ora, ogni giorno dell’anno, senza alcuna soluzione di continuità, deve essere smontata da una critica feroce, niente affatto accondiscendente verso le esigenze indotte dal sistema capitalistico per aumentare i profitti di pochissimi elementi su oltre sette miliardi di abitanti del pianeta.
La straordinaria progressione scientifica, che deve poterci migliorare la vita, non può farlo a discapito della consunzione delle emotività interiori che sono costrette ad esteriorizzarsi e a diventare spettacolo per il mondo. Più sentimenti e pensieri teniamo in un nostra ideale casa interiore, più avremo la possibilità di percepire la coscienza individuale, frutto della nostra vera essenza e arrivare così alla comprensione delle tante contraddizioni sociali che ci pervadono.
Recuperando il rapporto con noi stessi, con quegli esseri sociali che siamo, recuperiamo prima di tutto una visione critica del mondo e sviluppiamo tutta una serie di dubbi che oggi sono invisibili, nascosti dalla voglia di protagonismo esacerbata dall’alterazione globale dei rapporti di comunicazione interpersonali e dal considerare tali dei semplici messaggini con qualche faccina scambiati sulle mille chat che conserviamo sui nostri telefonini.
Il capitalismo vive dell’alienazione del lavoratore, del disagio anti-sociale del precario, del disoccupato: ne fa elemento strutturale della propria capacità di adattamento alle crisi che incontra ciclicamente sulla sua strada. Ma ora ha scoperto che l’alienazione può oltrepassare i cancelli dell’azienda, le mura delle scuole e quelle di qualunque luogo dove si produce per immettere sul mercato nuove merci, nuovi bisogni indotti e veicolati non solo dalla pubblicità classica, ma da altri, nuovissimi “status-symbol” rappresentati da prodotti che dipingono i contorni dell’individuo e lo classificano come appartenente a questo o a quel gradino sociale.
Nel dopoguerra questo accadeva con le automobili, la Vespa, la moto, il frigorifero nuovo, la televisione… Poi è arrivato il grande mondo della tecnologia interattiva che ha fatto quello che la Vespa o l’auto non potevano fare: assorbire le nostre energie quotidiane per ridicolizzare l’impegno sociale, renderlo marginale ed esaltare invece la presenza sui “social” come unica forma di dibattito culturale e politico.
Dal “lusso” di una opinione politica si è passati alla vendita a buon mercato non più di opinioni politiche, fondate su un riconoscimento personale con determinati valori e princìpi ideali, ideologici, bensì di semplificazionismi così banali e nozionistici da far retrocedere la cultura dell’intero Paese. L’agonia del pensiero è diventata l’agonia di chi viveva dell’unità tra parte spirituale e parte materiale della vita propria.
Tutto è stato ridotto ad una materialità che è priva di uno “spirito del mondo” che Marx aveva individuato nella passione. Qualunque essa fosse. Un afflato necessario alla vita, per non morire stritolati dagli ingranaggi della macchina.
Ne “L’ideologia tedesca” del 1845/46, scrive Marx a proposito del rapporto di interdipendenza tra individuo e società: “Le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze“. Può sembrare un gioco di parole, invece è un fondamento della scoperta del rapporto di causa ed effetto, di passività ed attività che si compenetrano nella dialettica dello sviluppo umano.
Ne consegue che riuscire ad essere consapevoli delle circostanze in cui si vive, del modo in cui si “sopravvive” nel caso di milioni di lavoratori sfruttati da moderni caporali telematici e non, è fare il primo passo per attivare quel circuito di cambiamento necessario che, una volta messo in moto, diventa irrefrenabile se capovolge l’esistente, se lo rende incapace di ritornare al punto precedente di partenza.