No, non è stata per niente una buona giornata quella di ieri e pure quella odierna non si preannuncia molto differente. Depressioni, ansie, colpi di calore o di qualunque cosa soffriate, qui si parla di lavoratori e lavoratrici dei call center di Taranto pagati 4 euro all’ora nel sottoscala di un palazzo, di autostrade, di sottopassi allagati, di candidati alle regionali che ricalcano lo schema governativo della maggioranza (fatta salva qualche eccezione per cui è sempre troppo di sinistra anche quello che gli altri propongono: la sindrome del “vedo comunisti ovunque“, sapientemente ideata da Berlusconi ormai più di 26 anni or sono…).

Una giornata d’estate piena di salite e discese, di presunte vittorie e di sicure sconfitte, di speranze dell’ultimo momento su un futuro da presidente di regione a certezze ormai consolidate sul grado di sfruttamento del lavoro e sulla mancanza di qualunque prospettiva di gestione, di costruzione di una vita tanto singola quanto familiare.

4 euro all’ora
Due giorni fa su “La Stampa” si apprende un fatto peraltro, purtroppo, per niente nuovo: una ventina di lavoratrici di un call center ricevono appena 4 euro all’ora per stare in un sottoscala a fare e ricevere telefonate per promuovere contratti dove la fibra magari viaggia pure veloce ma dove i salari sono fermi al palo.

Si tratta di una condizione di sfruttamento diffusissima, anche tra le più moderne aziende di vasti settori produttivi, tra i più differenti tra loro: contratti dove quei 4 euro miserabili sono pure lordi. E’ la paga che accetta chi è tanto ricattabile da dover sottostare a condizioni che sarebbero state inimmaginabili nella crescita delle protezioni sociali degli anni ’60 e ’70.

Non è il limite di un caso singolo, ma è la normalità di una condizione lavorativa creata dalle controriforme che si sono sommate in questi decenni e che, nel nome dello sviluppo dell’economia nazionale (ma non certamente pubblica), hanno portato decostruito una rete di diritti della forza-lavoro e hanno ampliato le facoltà di decisione delle direzioni padronali, consentendo così l’ampliarsi di uno squilibrio sostenuto da compromessi al ribasso da far rimpiangere le prime intese che pure negavano il Contratto nazionale collettivo di lavoro.

I lavoratori dei call center sono assunti con titoli contrattuali tra i più diversi. Quelli con la formula dei CO.CO.CO, che dovrebbero secondo la definizione comune (quindi statale, quindi dell’INPS) rappresentare “una categoria intermedia fra il lavoro autonomo ed il lavoro dipendente“, vengono divisi a volte in procacciatori di contratti telefonici quasi dati per certi (le chiamano le “liste dei privilegiati“, perché il lavoratore farebbe meno fatica a convincere i potenziali clienti all’altro capo del telefono, visto che sarebbero già quasi convinti…) e in altri che iniziano da zero, che devono praticamente mettere tutta la pazienza possibile per cercare di sganciare l’utente da una compagnia telefonica e trasferirlo a quella per cui si chiama.

Il ciclo delle assunzioni a termine comporta, inoltre, un ricambio quasi spontaneo, indotto dal ciclo produttivo: entrano a far parte del call center nuovi lavoratori o nuove lavoratrici e, automaticamente, viene assegnata a loro la mansione ricoperta da chi è stato in precedenza assunto: le liste dei numeri “privilegiati” si spostano da tavolo a tavolo e chi ha “più anzianità” (si parla di mesi… non certo di anni) finisce paradossalmente per guadagnare meno rispetto ai nuovi entrati.

Gli elementi per creare forme di ricattabilità interna si trovano: a maggior ragione se tutta l’impalcatura si regge proprio su una gestione del rapporto di lavoro poco chiara. Le cronache sindacali parlano di migliaia e migliaia di lavoratori cui, al termine del loro contratto, oltre i salari percepiti non è stato dato accesso a nessun diritto INPS su assegni familiari (dovuti), sulle indennità di disoccupazione per i lavoratori para-subordinati e, apice dell’ingiustizia, non è stato versato nemmeno un contributo pensionistico.

Ciò che “La Stampa” (che sotto la direzione di Giannini pare diventata “il manifesto” della borghesia illuminata moderna) denuncia è l’ennesima manifestazione di un regime liberista economico che si avventa sui diritti dei più deboli, come è naturale che sia, e che non si ferma davanti a nessuna rimostranza etica, visto che si tratta di “normali” rapporti di produzione.

Sull’autostrada cercavi…
Dai call center alle autostrade il passo è breve. Così come si è spacciato per decenni il lavoro interinale, a chiamata, persino il neo-schiavismo ciclistico dei riders come forma di occupazione flessibile, quindi gestibile in modi e forme tali da permettere maggiori adeguamenti ai bisogni sociali e, al pari, maggiori introiti per le aziende (su questi potete scommetterci pienamente), così adesso si tenta di chiamare “pubblicizzazione” delle autostrade un compromesso con un privato che non siederà più nel Consiglio di Amministrazione di ASPI (acronimo per “Autostrade per l’Italia“), visto che la quota azionaria scenderà dall’88% al 10%, che verrà fatta uscire gradualmente dalla società in cui subentrerà quella Cassa Depositi e prestiti pubblica che gestisce i risparmi degli italiani e li fa fruttare.

Per arrivare al 33% del controllo di ASPI, la Cassa Depositi e Prestiti sarà aumentata nel suo capitale e infine la stessa ASPI subirà la mutazione in “public company” per essere quotata in borsa. L’estromissione del privato – seppure spalmata su un piano temporale di un anno –  parrebbe un ritorno delle grandi infrastrutture come le autostrade in mano allo Stato. Una vittoria quindi del pubblico. Invece si tratta di un recupero di una azienda in difficoltà dopo il crollo del ponte Morandi, con tutte le manutenzioni da fare nel pieno dell’estate in decine e decine di gallerie, con tutti i controlli da effettuare per evitare di avere altre situazioni tragiche analoghe a quelle di Genova e della Torino-Savona nel suo tratto finale, appena scavalcato l’Appenino.

Una azienda il cui valore è andato decrescendo rapidamente: dai 15 miliardi di euro stimati dalle assicurazioni Allianz, Edf e Dif e dai cinesi di Silk Road ad una molto più modesta valutazione che si aggirerebbe sui 5 miliardi i euro. Un affare per la Cassa Depositi e Prestiti? Difficile dirlo, perché proprio la quotazione in borsa di ASPI non garantisce scenari di pieno controllo pubblico.

Secondo il protocollo di intesa, si dovrebbe arrivare ad una gestione basata su un “azionariato diffuso“: quindi il controllo rimarrebbe nella mani di CDP pur con la possibilità di vedere scalare le vette della proprietà da qualunque investitore finanziario. Il che non è affatto garanzia di stabilità per la gestione presuntivamente pubblica ma, alla fine, profondamente condizionata dalle oscillazioni del mercato borsistico.

Per questo, non solo non si può parlare di “nazionalizzazione“, concetto di gestione totalmente nuova che avrebbe previsto anzitutto la revoca della concessione alla famiglia Benetton, ma nemmeno si può parlare di un possesso completamente pubblico di Autostrade per l’Italia da parte dello Stato.

Si tratta, quindi, di un mero compromesso che permette ai Cinquestelle e a Conte di propagandare il tutto come una eccellente vittoria del pubblico sul privato e, senza ombra di dubbio, siamo innanzi ad un accordo migliorativo rispetto al passato. Ma sarebbe bene poter conservare anche uno spirito critico e leggere fra le righe, evitando di trasformarlo in ciò che si dice essere ma non è: lo Stato recupera il controllo di una società privata ma include il tutto in una gestione che rientra perfettamente nelle logiche di mercato.

Il balzo all’insù del titolo di Atlantia parla chiaro: nel linguaggio finanziario vuol dire che gli investitori hanno una fiducia a medio termine circa il valore delle azioni. Sanno, quanto meno sperano, che vengano vendute a CDP al valore di mercato, senza quella svalutazione che avrebbero altrimenti subìto se ci trovassimo a discutere invece di una vera e propria “nazionalizzazione” del comparto autostradale.

Palermo, Genova e il referendum
Il percorso inverso della “Spedizione dei Mille“: nel capoluogo regionale siciliano, un temporale si è riversato violentemente per ore sulla città, alluvionandola sotto oltre un metro d’acqua (tanta quanta ne cade in un intero anno…). L’immagine agghiacciante è quella del sottopasso della principale arteria di accesso a Palermo. Centinaia di automobili che galleggiano nel fango e, almeno, al momento nessuna vittima.

Una scena che ci riporta ai cambiamenti climatici le cui conseguenze sono evidenti ogni volta che si genera quello che noi giustamente definiamo un “disastro ambientale“, tenendo in poco conto che il vero “disastro ambientale” è lo sfruttamento di questo Pianeta ad opera di un sistema economico che distrugge l’equilibrio naturale.

Mentre le polemiche infuriano sul mancato avviso di allerta, a Genova si apre il capitolo delle elezioni regionali. A sessanta giorni dal voto, dopo un indecoroso balletto di nomi e una quasi completa assenza di programmi, la coalizione di governo (fatta eccezione per Italia Viva) sceglie di sostenere il giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Ferruccio Sansa. Note le sue inchieste su “Il partito del cemento“, le sue critiche asperrime nei confronti del centrosinistra.

L’alleanza giallo-rosa prova a scalzare Toti. Lo fa iniziando con un comunicato stampa in cui si richiama l’intera coalizione al rispetto dell’unità di intenti, ad uno spirito comune che dovrebbe archiviare le vecchie ruggini e gli storici contrasti tra M5S e PD. Altro compromesso che pare essere un secondo motivo – in ben ventiquattro ore – per i grillini di poter esultare affermando platealmente di avere in Sansa il “loro candidato“. Un po’ è vero, visto che certamente il giornalista non era riferibile all’area democratica zingarettiana; semmai a quella pentastellata pur non essendo iscritto al movimento.

E la sinistra che fa? Quella abbarbicata attorno al PD segue gioiosamente la linea del “meno peggio“, della necessità di battere le destre che, del resto, nessuno contesta. Semmai sono opinabili i modi con cui si arriva ogni volta al confronto con il trittico rappresentato da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia: sempre e soltanto per contrapposizione, quasi mai con un progetto di vera alternativa sociale, di cambiamento radicale anche delle logiche attraverso cui si determina la scelta di un candidato prima ancora della scelta dei punti di programma su cui fare campagna elettorale e su cui si intenderebbe governare una regione.

E’ la molto poco candida legge della disperazione, quella che del resto ha costretto PD e M5S a dare vita al governo Conte bis.

Quelli dello “zero virgola“, cioè noi comuniste e comunisti, veniamo ridicolizzati e dipinti come assoluta, pura insignificanza in questo scontro a due, in questa alternanza obbligatoria cui, se non ci si adegua, impedisce la partecipazione, la piena espressione di una democrazia che si vorrebbe poi – a parole – difendere ogni volta che si commemora la Resistenza, la lotta partigiana e si proclamano attuali più che mai tutti gli articoli e i princìpi della nostra Costituzione.

Mentre a Genova si proclama la laica crociata contro il pericolo delle destre, pericolo per la democrazia e per gli interessi dei settori meno abbienti della popolazione, a Roma si gestisce l’operazione “election day“: chi in Liguria vuole tutelare la Costituzione dall’assalto dei sovranisti, sul piano nazionale approva lo svolgimento di referendum sul taglio del Parlamento, elezioni regionali stesse e altre amministrative in una unica tornata.

Il “revisionismo costituzionale” torna all’attacco con un tentativo di sparigliare le carte, di confondere l’elettorato e di consentire così alla riforma populista, che impoverisce il ruolo delle Camere e crea una nuova breccia nella stabilità democratica della Repubblica pari a quelle tentate in passato con la controriforma di Renzi e Boschi, al fine di squilibrare l’equipollenza dei poteri a tutto vantaggio dell’esecutivo.

Si può appoggiare localmente una coalizione che nazionalmente si propone di gestire le istituzioni mediante uno svilimento del profilo fondamentale della Repubblica, del ruolo di fulcro rappresentato dal Parlamento?

Le obiezioni che possono essere fatte? Che le tematiche locali sono differenti da quelle nazionali e che i territori decidono in autonomia. Sarebbe pure vero se non fosse che della candidatura della coalizione giallo-rosa s’è parlato più a Roma che a Genova. Lo stesso presidente Conte ha invitato i partiti a convertire sul piano regionale lo schema della maggioranza di governo, proprio per caratterizzare con maggiore impulso identitario il carattere politico delle consultazioni amministrative che, già di per sé, esprimono questa peculiarità quando si tengono contemporaneamente tornate elettorali in più regioni.

Sono passati i tempi in cui si attendevano le decisioni del Partito prima di esprimersi pubblicamente su una posizione pubblica, di personale assenso o dissenso, da prendere. Adesso vanno di moda gli “endorsement“. Così come va di moda ancora il “voto utile“.

Al peggio non c’è mai fine, si usa dire. Ed anche un “meno peggio” lo si recupera sempre da qualche parte. Anche tra le righe di un giornale scambiato per progressista troppe, troppe volte. In mancanza di un voto pienamente politico, ho smesso di aderire al ricatto del presunto voto utile già da un ballottaggio per le comunali, ormai quasi cinque anni fa.

Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà“, cantava Guccini. Ho scelto in ritardo ma almeno ho smesso di votare “per contrarietà“. Ho smesso di piegarmi alle forche caudine del voto utile da un lustro: non riprenderò certo questo vizio ora. Meglio concentrarsi sul NO al referendum che la propaganda di governo dà già per sconfitto.

Se così sarà, almeno che lo sia dopo una lotta politica che recuperi l’impegno civile in difesa tanto della Costituzione quanto della centralità del Parlamento. Un impegno civico, una responsabilità morale oltre che politica. Una responsabilità che può ancora essere trasversale e prescindere dalle posizioni di partito e di movimento. Questa volta non un “referendum” contro un presidente del Consiglio, ma contro l’ambiguità dell’ambivalenza delle forze di maggioranza tra politica locale e politica nazionale.

La vittoria del NO al referendum vorrebbe dire sconfiggere, questo sì, tanto i progetti sovranisti delle destre di messa in secondo piano delle Camere quanto il populismo che ancora pochi anni fa parlava del Parlamento come di una “scatoletta di tonno” da aprire.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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