A prescindere dalle opinioni che uno abbia sulla Cina, l’efficacia mostrata dal gigante asiatico nel risolvere prontamente la crisi sanitaria causata dal COVID-19, e nel minimizzarne l’impatto economico, soprattutto a confronto con le esperienze dei paesi occidentali, è universalmente riconosciuta (o quasi). Ma a cosa è da imputare questo successo? Secondo l’economista Francesco Macheda dell’università Bifrost, in Islanda, autore di un recente paper sull’argomento, le ragioni sono da rintracciarsi soprattutto nelle caratteristiche strutturali del modello di sviluppo cinese, e più specificatamente nell’estensione del settore pubblico dell’economia cinese e nel ruolo fondamentale delle imprese a conduzione statale (state-owned enterprises, SOE), nonché nella forte presenza pubblica all’interno del settore bancario oltre che industriale. La tesi di Macheda è che la massiccia presenza dello Stato nell’economia «abbia dotato il governo del paese delle risorse necessarie a ridurre sensibilmente i tempi di risoluzione della crisi sanitaria, riattivare prontamente la filiera produttiva domestica, e massimizzare l’efficacia degli stimoli fiscali e monetari tendentia stabilizzare l’output».
Nonostante la crescente rilevanza delle imprese private nel paese, infatti, le imprese a conduzione statale continuano a giocare un ruolo fondamentale nello sviluppo industriale cinese. Macheda ricorda come nel 2017 le imprese pubbliche detenessero il 48.1 percento dello stock di capitale impiegato nell’industria – in particolare in settore strategici “pesanti” quale quello estrattivo ed energetico, siderurgico, metallurgico e meccanico, ma anche in settori ad alto valore aggiunto quali quello automobilistico e informatico –, nonché il 90 per cento degli asset in mano alle 500 maggiori imprese operanti all’interno dei confini nazionali. A titolo di confronto, nei paesi europei più avanzati la quota “pubblica” sul totale dello stock di capitale risulta essere dalle due alle tre volte inferiore rispetto a quella della Cina.
«Il protagonismo delle imprese statali – scrive Macheda – è intimamente connesso alla strategia di sviluppo tipica dei paesi socialisti e ancora oggi perseguita dal governo cinese, centrata sul mantenimento della piena occupazione e il contemporaneo sostegno alle industrie siderurgiche, metallurgiche e meccaniche». In tal senso, «la ridondanza di manodopera impiegata dalle SOE serve obiettivi di ordine politico» ancor prima che economico, primo fra tutti il mantenimento della stabilità sociale, anche a costo di una riduzione della reddittività. Solo raramente, infatti, le SOE perseguono obiettivi volti alla massimizzazione dei profitti.
Questo, però, «non ha costituito un limite alla sovra-espansione della capacità produttiva delle SOE». Questo è dovuto al secondo pilastro del modello di sviluppo cinese, ovverosia il saldo controllo pubblico sul settore bancario, che a sua volta ha una rapporto privilegiato con il sistema delle SOE. Le maggiori banche commerciali del paese sono regolate congiuntamente dalla banca centrale (Banca Popolare Cinese, BPC) e dalla Commissione di regolamentazione bancaria e assicurativa cinese. Queste istituzioni, a loro volta, dipendono direttamente dal Consiglio di Stato, ossia il potere esecutivo. Inoltre, le maggiori quattro banche pubbliche del paese rispondono direttamente dal governo, e nel loro insieme detengono il 43.2 percento degli asset bancari. Includendo anche le altre banche commerciali, sottolinea Macheda, «il governo controlla, direttamente o indirettamente, oltre il 75 per cento degli asset bancari della Cina. […] [Questa] posizione di fatto monopolistica ha consentito al governo di imporre un alto grado di “repressione” all’interno del settore finanziario».
Attraverso il controllo diretto e indiretto sul sistema bancario, infatti, il governo cinese è in grado non solo di tenere giù i tassi d’interesse sui depositi e sui prestiti, ma soprattutto può intervenire sulle decisioni relative all’allocazione delle risorse finanziarie, che, nota Macheda, «solitamente non avvengono in base a criteri legati alle performance delle unità produttive. Piuttosto, esse rispondono a considerazioni di tipo prettamente strategico, che tendono a supportare lo sviluppo dell’industria pesante dominata dalle SOE, indipendentemente dalla loro profittabilità». Questa triade “sistema politico-sistema bancario-SOE industriali” è quello che ha permesso alla Cina di sostenere il tasso di investimento, occupazionale e del PIL in seguito alla crisi finanziaria del 2007-9, e che più recentemente gli ha permesso di ridurre l’impatto sanitario ed economico della pandemia.
Nella prima fase della pandemia (gennaio-metà febbraio 2020), la chiusura totale o parziale degli impianti nella provincia dell’Hubei ha colpito duramente il settore chiave dell’economia cinese, vale a dire quello manifatturiero, causando uno shock negativo sia sul lato dell’offerta che della domanda, e un enorme (per gli standard cinesi) declino dell’output pari al -6.8 per cento. In questa prima fase, scrive Macheda, «la rilevanza di un settore dell’economia al riparo dalle forze competitive ha limitato il condizionamento esercitato dagli operatori di mercato sulla sfera governativa, dotando quest’ultima della capacità istituzionale di implementare prontamente stringenti misure di lockdown. […] L’ipotesi suggerita è che il maggior peso occupato negli assetti proprietari dell’industria domestica fornisca ai decisori politici cinesi la capacità di resistere alle pressioni esercitate dai gruppi d’interesse, dotando loro di una certa indipendenza rispetto alle esigenze di massimizzazione di profitto proveniente dal sistema delle imprese. Detto diversamente, la rilevanza della sfera pubblica all’interno dell’economia segnala un diverso peso dell’influenza delle organizzazioni imprenditoriali sulla sfera politica cinese, rispetto a quanto avviene nel mondo capitalisticamente avanzato. […] In maniera adiacente, la “strutturale sovraccapacità produttiva” ha consentito alle imprese pubbliche di fornire beni e servizi durante il contesto emergenziale. […] In virtù della loro capacità produttiva, le SOE hanno contribuito al veloce epilogo della fase emergenziale, non solo sviluppando tecnologie che hanno ridotto i tempi di diagnosi e cura, ma anche aumentando la produzione di materiale protettivo ed edificando infrastrutture di emergenza in tempi estremamente contenuti. […] Nel complesso, ciò ha ridotto i tempi di risoluzione della crisi sanitaria, decelerando la caduta di reddito e scongiurando pericolose spirali inflattive».
L’azione delle SOE, soprattutto in termini di calmierazione dei prezzi, ha inoltre permesso di allievare i costi prettamente sociali insiti alla prima fase dell’emergenza. Ad esempio, la State Grid Corporation of China ha garantito la fornitura gratuita di energia alle famiglie nella città di Wuhan, aumentando inoltre l’offerta di stazioni gratuite di ricarica energetica. Altre imprese di proprietà pubblica come China Grain Reserves Group, COFCO Group e China Resources Group hanno incrementato la produzione di derrate alimentari, garantendone al contempo i servizi di trasporto e distribuzione, e rafforzando la supervisione sui venditori al dettaglio per prevenire fenomeni speculativi sul costo degli alimenti e dei beni di prima necessità.
Nella seconda fase della crisi, tutt’ora in corso – caratterizzata dall’allentamento del lockdown in Cina ma dalla contestuale espansione della pandemia a livello globale, che ha impattato pesantemente sulle esportazioni cinesi –, il governo cinese ha invece fatto ricorso ad una serie di interventi fiscali e monetari con l’obiettivo di sostenere la domanda interna e in particolare di riavviare il prima possibile la filiera industriale cinese e di salvaguardarne il funzionamento. L’approccio adottato dalla banca centrale cinese si è discostata marcatamente da quello delle altre principali banche centrali, come la BCE: laddove queste ultime hanno inondato i mercati di liquidità attraverso corposi piani di acquisto di titoli e si sono perlopiù limitate a offrire garanzie pubbliche di vario tipo alle banche, puntando sulla dubbia capacità del sistema bancario di agire da “cinghia di trasmissione” nei confronti del sistema delle imprese private (come dimostra il caso dell’Italia), «la politica monetaria in Cina si è preoccupata di assicurare che la liquidità immessa sul mercato fosse effettivamente utilizzata per garantire la sopravvivenza delle attività delle PMI». Le tre maggiori banche pubbliche sono state spinte dalla Banca Popolare Cinese ad accrescere l’offerta di credito a favore delle PMI «non meno del 30 percento [rispetto al primo trimestre 2019]». Al contempo, le banche statali sono state autorizzate ad innalzare a 350 miliardi di yuan (50 miliardi di euro) la quota di credito da elargire alle imprese di piccole e medie dimensioni.
Scrive Macheda; «All’interno di questa cornice regolatoria orientata ad alleviare le pressioni sul flusso di cassa delle PMI, la PBC ha fornito gli istituti di credito circa 800 miliardi di yuan (116 miliardi di euro) a tassi d’interesse calmierati. Mentre 300 miliardi sono fluiti verso le imprese coinvolte nella lotta contro il coronavirus, 500 miliardi saranno progressivamente utilizzati per finanziare la riapertura degli impianti, la ripresa produttiva e il pagamento di debiti arretrati delle PMI. All’inizio di aprile 2020, il governo ha dato mandato alla PBC di accrescere le operazioni di rifinanziamento di altri 1.000 miliardi per espandere l’offerta di credito per le banche di piccole e medie dimensioni nel corso dell’anno. […] L’azione congiunta di CBIRC, PBC e banche pubbliche ha consentito di trasmettere efficacemente gli stimoli monetari all’economia reale. Nei primi tre mesi del 2020, il sistema bancario ha dirottato 7.25 trilioni di yuan verso il settore reale dell’economia (+12.7 percento su base annua). Ciò costituisce oltre il 65 percento del totale del “finanziamento totale all’economia reale”, con quest’ultimo cresciuto di 2.486 miliardi di yuan rispetto l’anno precedente».
Va sottolineato che «i maggiori beneficiari della espansione creditizia sono state le istituzioni pubbliche e le imprese, le quali hanno ricevuto l’85.1 percento dei prestiti concessi dalle istituzioni finanziarie».
L’azione anticiclica intrapresa dal governo cinese a partire dalla fine di marzo 2020, che ha il duplice obiettivo di sostenere tanto il PIL quanto i livelli occupazionali, è stata inoltre imperniata attorno a un vasto programma di investimenti infrastrutturali – finanziato prevalentemente dall’emissione di obbligazioni da parte dei governi locali per un ammontare pari a 3.750 miliardi di yuan (1.600 in più rispetto al 2019) – sia in aree tradizionali sia in quelle più moderne.
In definitiva, sostiene Macheda, «la crisi dovuta all’eruzione del COVID-19 mostra come l’efficienza allocativa del settore privato si possa tramutare velocemente in macro-inefficienza a livello sociale». Di fronte a una pandemia, infatti, non è possibile affidarsi ai meccanismi di mercato per soddisfare l’aumento della domanda da parte del settore pubblico di materiale e attrezzature medico-sanitarie (ventilatori, mascherine ecc.), finanche l’edificazione di nuove strutture ospedaliere: non solo non c’è alcuna garanzia che gli agenti privati considerino i rendimenti attesi sufficienti a giustificare l’investimento, né tantomeno che l’incremento dell’offerta soddisfi i bisogni di cura della popolazione, ma «lo spazio temporale che intercorre tra la sua pianificazione, realizzazione, fino all’attivazione della capacità produttiva potrebbe rivelarsi talmente esteso da rendere pressoché inutile l’espansione della capacità produttiva. Si potrebbe arrivare alla situazione paradossale di terminare la costruzione di strutture specializzate per la cura di polmoniti virali solo dopo che l’epidemia sia debellata. Per queste ragioni, come sottolinea giustamente Dani Rodrik, “non vi è nulla come una pandemia che possa mostrare l’inadeguatezza dei mercati di fronte a problemi di azione collettiva, e al contempo evidenziare l’importanza della capacità dello Stato di fronteggiare le crisi e proteggere la popolazione”».
«È proprio nelle fasi di crisi come quella odierna in cui l’“inefficienza” del settore pubblico si traduce in macro-efficienza sociale», scrive infatti Macheda. «Non a caso, uno dei paesi più efficaci nel minimizzare le perdite sia in termini di vite umane sia in termini economici – e che pare destinato ad evitare una recessione – è la Cina, laddove il settore statale occupa i centri nevralgici della vita economica. In virtù del suo potere di fatto monopolistico sul settore bancario, il governo è stato ed è tuttora in grado di reprimere le rendite finanziarie e al tempo stesso incanalare risorse a vantaggio dei settori ritenuti strategici. Ciò vale soprattutto per le SOE industriali, le quali, nonostante la scarsa efficienza e profittabilità hanno contribuito ad elevare i livelli occupazionali al di sopra di quelli compatibili alla loro “sopravvivenza” in un sistema di puro mercato. […] Sebbene da un punto di vista prettamente capitalistico ciò non può che essere considerato “irrazionale” (e inefficiente), da un punto di vista sociale la massimizzazione dell’utilizzo delle risorse produttive (lavoratori e capitale) non può che essere considerato “razionale” (ed efficiente). È questa caratteristica strutturale che ha reso l’economia cinese meglio equipaggiata a fronteggiare la crisi attuale – perché è proprio nei momenti critici dove emerge chiaramente la necessità di massimizzare l’output a dispetto dei rendimenti garantiti dall’investimento o della capacità di remunerare i risparmiatori in maniera “adeguata”».
Di: Thomas Fazi