Il governo naviga a vista, spera e prega che le manchevolezze e i danni siano ridotti al minimo. Lo fa con la dichiarazione esplicita del Presidente del Consiglio Conte: niente deroghe, la scuola inizia il 14 settembre. Poco, o poco più di poco, sembra pronto per accogliere gli studenti nelle aule: molto viene lasciato all’improvvisazione anche di volontari che – ad esempio in Valle d’Aosta – si prodigano per sostituirsi alle inefficienze pubbliche e ai tanti ridarti sulle consegne delle strutture minime per attuare quella “ripartenza in sicurezza” tanto sbandierata dall’esecutivo.

In realtà, più di ogni altra voce, si leva tonante quella dei présidi che redarguiscono il Ministero dell’Istruzione: non è possibile riaprire tra pochi giorni, poi sospendere per il voto referendario in tutto il territorio nazionale e per quello regionale in sette regioni su venti. Sanificare una volta, due volte, costringere gli studenti ad una soluzione di continuità delle lezioni che non aiuta certamente in questo caotico pandemonio fatto di chissà, forse, se, magari, può darsi.

Ciò che però emerge con tutta evidenza dall’impreparazione materiale è una inadeguatezza politico-organizzativa del governo che ha atteso troppo per mettere mano alla ridefinizione scolastica delle misure anti-Covid19 e che ha utilizzato tutti questi mesi per fare politica puntando sul rasserenamento momentaneo dovuto al clima estivo, per poi scivolare nel girone infernale dell’inizio dell’anno scolastico.

Logica molto semplice, disarmante in quanto benevolmente banale, avrebbe voluto che si bypassassero consultazione referendaria ed elezioni amministrative, avendo oltretutto una settimana in più per adeguare le strutture alle normative vigenti, e permettere così a ragazzi e ragazze di cominciare la loro avventura scolastica senza interruzioni almeno fino a fine dicembre. Come sempre.

Si sarebbe così evitata anche una incertezza dilagante tra le amministrazioni locali che sovrappongono pareri ed ordinanze ad altre di livelli inferiori o superiori: per cui succede che il tale Comune decide di agire per un rinvio al 24 settembre sui plessi scolastici di sua competenza, separando così l’avvio dell’anno scolastico tra livelli di scuola inferiore e superiore. Chi frequenta elementari e medie resterà a casa per una settimana e chi fa il liceo invece andrà a scuola, visto che le competenze per i gradi superiori sono di spettanza provinciale.

L’autonomia scolastica non giova in questo ginepraio di differenziazioni e di particolarismi che fanno del Paese non una unità amministrativa, politica e sociale compatta, ma quell’Italia dei Comuni e delle Signorie che proprio sui banchi di scuola abbiamo a suo tempo studiato.

Questo complesso puzzle che non forma una figura ben delineata e riconoscibile di un Paese unito e unitario – soprattutto sui diritti fondamentali del cittadino – si arricchisce (o sarebbe meglio dire si impoverisce) di un ulteriore problematica mica di secondo conto: il protocollo di gestione di eventuali studenti trovati positivi al coronavirus. Se la procedura appare chiara sul singolo caso, diventa fumosa quando si tratta di decidere sulle ripercussioni che la scoperta può avere riguardo al comportamento di salute pubblica da tenere nei confronti della classe e dell’intero istituto.

Si rischia di dare seguito ad un anno scolastico a macchia di leopardo: le classi senza casi di Covid-19 proseguiranno le lezioni, le altre saranno confinate a casa con il supporto della didattica cosiddetta “a distanza“. Una situazione di eccezionalità che l’esecutivo sta seguendo più col piglio della garanzia elettorale, imponendo una partenza azzardata per non mostrare in tutta lapalissiana evidenza al Paese l’impreparazione mostrata dalle dichiarazioni comuni e singole di addetti ai lavori, insegnanti, genitori, studenti stessi. Ma non certificata ufficialmente da alcuna istituzione.

Qui si ripassa dal “via” di un gioco che prevede come prima casella su cui transitare e rischiare proprio l’imprevisto. Non è colpa soltanto del virus propriamente detto, ma è responsabilità della disperazione di un governo che verso la fine di questo mese di settembre rischia tutto con tre passaggi: l’avvio delle scuole, il referendum sul taglio del Parlamento e le elezioni regionali. Un trittico che tocca unitamente tutta la compagine di maggioranza ma che, separato nelle sue componenti, è esemplare nel distribuire pesi e contrappesi di una tenuta di una alleanza friabile, estremamente fragile e capace di scomporsi altrettanto subitaneamente come si è formata nell’estate di un anno fa dopo la conclusione dell’esperienza tra pentastellati e leghisti.

Il Partito Democratico, a differenza del Movimento 5 Stelle, appare in questa fase in preda ad un soggettivismo delle posizioni che lo riducono a quel “vapore acqueo” savianiano, dipinto di una metafora dell’inconsistenza che risulta chiara dalle incertezze tanto sulla materia tecnica del referendum quanto sulle politiche interne ed estere.

L’imbarazzo sull’esprimersi tra il SI’ e il NO al quesito sul taglio del Parlamento, del resto, non riguarda solo il PD. Anche partiti di opposizione come la Lega lo acclarano pubblicamente per dare una indicazione di voto che non possono esprimere nella sua pienezza: “Ricordati di andare a votare per il referendum” c’è scritto sui manifesti del partito di Salvini: nessuna indicazione di voto. Ricorda un po’ Troisi apostrofato da Savonarola col celebre motto: «Ricordati che devi morire!», ma senza una data, senza un minimo indizio sul dove, sul come e sul quando soprattutto.

Del resto, morire tocca a tutti e quindi si può anche tralasciare qualsivoglia specificazione. Ma votare SI’ o NO invece è una variabile dipendente dalla esclusiva volontà dell’elettore. Così pure il governo farebbe bene a tenere a mente che ogni decisione presa ha riflessi molteplici: sociali, morali, politici ed economici. La riapertura delle scuole include tutti questi aspetti, eppure si è scelto di mettere avanti a tutto la dimostrazione baldanzosa e maramaldesca della prontezza su tutti i fronti. Se ne sentiranno le conseguenze su un periodo di medio-lungo termine, anche perché il Covid-19 non darà tregua almeno fino a quando in primavera non avremo un vaccino.

Pertanto alla già precaria situazione dei tanti istituti scolastici del Paese si sommeranno tutte le criticità derivate da una impreparazione oggettiva e oggettivamente negata dall’esecutivo. Quando si pospone l’interesse comune a quello di una sorta di realpolitik molto male interpretata, si minimizzano aspetti della vita comune che finiscono con l’aprire nuovi spazi a becere campagne antidemocratiche e a nuovi disprezzi, di ampio spettro popolare, nei confronti delle istituzioni e della Repubblica.

E’ un vizio duro a morire, perché si è connaturato nell’uso comune dell’arte della politica: così tanto alta nella sua naturale espressione originaria, così tanto vilipesa dalla dura impronta di una pragmaticità velenosa che non può che rivolgersi contro quell’impressione di benevole amore verso la popolazione e rigurgitare poi nuove tentazioni oligarchiche, sovranistico-fasciste della moderna contemporaneità.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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