A meno di 24 ora dall’apertura dei seggi per le prossime elezioni presidenziali, la fotografia degli Stati Uniti dopo quattro anni di presidenza di Donald Trump raccontata da Luca Celada in “Autunno americano”, pubblicato da manifestolibri

Nel suo reportage da Johnston, Pennsylvania che abbiamo pubblicato su DinamoPress qualche giorno fa, Hamilton Nolan, reporter sindacale di “In These Times”, raccontava quello che aveva visto al comizio di Trump di qualche settimana prima. Quello che però c’era di più interessante non stava sul palco e non erano tanto (o quantomeno non solo) le idiosincrasie del personaggio Trump che da quattro anni occupano costantemente lo spazio mediatico americano e mondiale, ma il contro-campo del suo comizio, quello che cioè normalmente rimane fuori-campo. Johnston è una piccola cittadina della Pennsylvania ormai decaduta, dove i posti di lavoro migliori se ne sono andati già da molti anni e la metà dei negozi che si vedono in città sono falliti e hanno chiuso. È insomma una delle mille città dimenticate dell’America di provincia i cui giorni migliori non stanno davanti a loro, ma dietro di loro, nel passato. È in questa realtà spettrale – soprattutto nel declinante Midwest, ma non solo, se ne potrebbero fare esempi in Florida, in Mississippi, in Virginia, in California – che gran parte degli americani vivono nel 2020. Questo è il loro mondo ed è un mondo molto molto cupo: distese di mall, sprawl urbani che si perdono a vista d’occhio, mancanza assoluta di spazi pubblici e soprattutto una costante percezione, anche esistenziale, di declino. Qui – ricordava Hamilton Nolan – non ci sarà nessuna Harvard University che verrà ad aprire il proprio campus, nessuna Apple che costruirà un corporate headquarter. Qui, in questa America, l’ideale della middle-class in ascesa con il suo lavoro ben pagato con il quale magari fare un po’ di carriera e la sua promessa di miglioramento delle proprie condizioni di vita – una promessa che, ben inteso, non è mai stata vera, nemmeno in passato – è andata a sbattere contro la realtà di quarant’anni di neo-liberismo e di aumento sproporzionato delle disuguaglianze: di diminuzione cioè del potere della classe lavoratrice americana, che nemmeno Clinton e Obama sono riusciti a invertire in modo sostanziale.

In mancanza di una risposta sociale, costruttiva e positiva, Donald Trump rappresenta allora il tentativo di spostare questa distinta percezione di fine del futuro in un linguaggio politico tutto convogliato sulle sensazioni – quello che gli americani chiamano feelingfeeling di accerchiamento, feeling di essere sotto attacco, feeling di frustrazione. Un sonoro “fuck you” urlato a un nemico indistinto che viene occupato a seconda dei casi (e delle culture di riferimento) da Wall Street, dagli immigrati, dai neri, dagli snob delle città, dagli intellettuali, dalle femministe, dai media mainstream… ma ovviamente, nei casi più patologici, anche dal deep state, dai pedofili del Pizzagate, da Soros e gli ebrei. In Autunno americano, lo splendido instant-book, uscito poche settimane fa per manifestolibri, che fotografa gli Stati Uniti di oggi alla vigilia delle elezioni presidenziali, Luca Celada, nel capitolo conclusivo, uno dei più accorati, racconta quello spettacolo nichilista e paranoico che è stata la convention Repubblicana che «sancisce la negazione dei fatti come fondamento programmatico dei nazional-populismi, così intrinsecamente dipendenti dalla deformazione di massa dei social network». Quello di Trump è allora a tutti gli effetti un «sabotaggio epistemico» le cui menzogne e l’alleanza strategica coi complottismi «sono prerequisiti per trasporre definitivamente la politica nello spazio emotivo: il destino del paese sarà nuovamente deciso della sue viscere» (p. 119). E allora capita di vedere tra gli interventi di una convention presidenziale delle figure che hanno avuto l’unico merito di essere divenute virali sui social network con le proprie provocazioni neanche tanto velatamente razziste, come i coniugi McCloskey, che sono usciti dalla loro villa di St. Louis per puntare le armi da fuoco contro un corteo di Black Lives Matter, o Nicholas Sandmann, un ragazzino di una High School del Kentucky che durante una manifestazione anti-abortista a Washington si è messo a canzonare un attivista indigeno.

Celada parla in questo senso di una trasformazione epocale in cui la stessa Casa Bianca è diventata un veicolo di teorie del complotto e di informazioni false che fino a poco tempo fa appartenevano alle controculture dell’estrema destra, mentre ora siti come Breitbart o conduttori radiofonici razzisti come Rush Limbaugh vengono accreditati a presenziare a eventi istituzionali ufficiali mentre “New York Times”, CNN e “Washington Post” vengono designati “nemici del popolo”. Si è trattato di un processo che in breve tempo ha disorientato i meccanismi più basilari del confronto politico dove una valanga di informazioni spesso contraddittorie rendono pressoché impossibile adottare un qualunque criterio di aderenza alla realtà. È quello che Steve Bannon chiama «flood the zone», cioè inondare il dibattito pubblico di tali e tanti elementi in contraddizione tra loro in un brevissimo arco di tempo in modo da rendere impraticabile il discernimento razionale della realtà. Le prime vittime sono state proprio i giornalisti che di fronte al gran numero di iniziative e decreti controversi annunciati, spesso via Twitter, dal presidente non sapevano più distinguere se questi fossero effettivamente nelle facoltà di un presidente o se invece si trattasse semplicemente di sparate senza fondamento. L’obiettivo eversivo di questa presidenza si è fatto via via sempre più chiaro. Celada ricorda a questo proposito l’affermazione del giudice della Corte suprema inglese Jonathan Sumption, che ha sostenuto che in uno scenario di questo tipo la democrazia rischia di sparire «non coi carri armati nelle strade, come con istituzioni svuotate, il cui nome non ha più relazione con la loro funzione» (p. 133). La domanda allora è: «quand’è che la “performance” del totalitarismo si salda con la realtà? Qual è il punto di non ritorno?» (p. 123)

C’è un’espressione idiomatica inglese, che viene ricordata nel libro, che è death by a thousand cuts, ovvero una morte provocata da mille piccoli tagli, che prende corpo lentamente senza quasi accorgersene. Nella confusione del trumpismo, soprattutto se è il nostro punto di vista prospettico è quello dell’indistinzione tra vero e falso – o tra sparata e iniziativa legislativa reale – dei social network, non è chiaro se il punto di non ritorno sia già stato passato. Sarà la posta in palio di queste elezioni capire fino a che punto è arrivata la “metastasi”, secondo il titolo di uno dei paragrafi. E tuttavia grande merito di questo libro è quello di provare a ripercorrerli questi piccoli cuts, in modo da comporre un’immagine il più possibile razionale di quello che rischia di essere il punto terminale dell’esperimento americano.

Celada indica tre nodi – razzismo strutturale, capitalismo coloniale e crisi della riproduzione sociale – attorno ai quali ha preso corpo questa crisi. Il 29 maggio, infatti, a soli quattro giorni dalla morte per soffocamento di George Floyd da parte di Derek Chauvin, dopo che già le manifestazioni e i riot si erano allargati a macchia d’olio anche nei luoghi più remoti degli Stati Uniti, Trump twitta dal bunker della Casa Bianca «When the looting starts the shooting starts» (Quando cominciano a saccheggiare, noi cominciamo a sparare). Frase, che come viene ricordato, fu pronunciata per la prima volta nel 1967 dallo sceriffo razzista di Miami, Walter E. Headley di fronte a un crimine violento e poi ancora nel 1968 allo scoppio dei riot a Miami. Ma Trump in quei giorni non si ferma e la sua ossessione diventano gli antifascisti e gli estremisti di sinistra che devono essere riportati all’ordine secondo il codice di differenziazione della respectability e della criminality, ribadendo l’idea della thin blue line tra le “popolazioni indesiderate” e le forze dell’ordine. È questa politica di lungo periodo, consustanziale all’atto fondativo del «capitalismo delle piantagioni» (p. 76), che Celada ricostruisce, chiarendo i processi attraverso cui si è sviluppato l’intreccio tra razza e classe, tra divisioni secondo le linee del colore, e marginalizzazione economica e sociale. Il concatenamento tra le vecchie e le nuove leggi Jim Crow, tra la segregazione razziale sudista e la school to prison pipeline, si è realizzato nella forma del complesso carcerario-industriale e nella zonizzazione di metropoli in cui gli afroamericani sono stati relegati en masse. Così la thin blue line che separa persone perbene e criminali si incrocia «con quella rossa del redlining» (p. 72), l’organizzazione ideologico-discorsiva con la sua base economico-materiale. Se, come scrive Celada, «ad altezza d’uomo la manifestazione concreta dell’impianto suprematista è rappresentata dalle forze dell’ordine» in quanto «espressione tangibile di un’iniquità congenita» allora «è logico che il movimento odierno muova dalla contestazione dei soprusi di polizia» (p. 79). E, tuttavia, nel sommovimento decennale attraverso cui si è prodotto – fatto di riot ma anche di organizzazione paziente e capillare sul territorio – Black Lives Matter ha infiltrato e scalfito la roccia ideologica del razzismo, lottando comune dopo comune per il defund the police, le reparations e la richiesta di giustizia sociale.

L’esplosione della questione del razzismo si è sviluppata di pari passo con i feroci attacchi razzisti e xenofobi di Trump che, vale la pena ricordarlo, hanno rappresentato il primo atto politico di questa presidenza sciagurata.  Già, in due ordini esecutivi nel 2017, Trump aveva vietato l’accesso alle persone che vengono da paesi a maggioranza musulmana (il cosiddetto Muslim Ban). La strategia è proseguita, grazie soprattutto a Stephen Miller – di cui il libro ricostruisce magnificamente la bestiale biografia di uomo ossessionato dal tema della sostituzione etnica da parte degli ispanici (pp. 97-106) – dirigendosi contro «l’invasione oscura del Messico» e la costruzione del muro come simbolo del Make America Great Again. L’affermazione di un suprematismo che è allo stesso tempo “razziale”, “cristiano” e “occidentale” diventa la rivendicazione di un determinato confine materiale che «emerge come trigger emozionale e simbolo». La messa in forma di queste rivendicazioni che uniscono sotto l’egida del sovranismo trumpiano l’alt right e la galassia della destra estrema ed evangelica americana, si aggiunge a molti altri thousand cuts che scompongono l’involucro a democrazia minima degli Stati Uniti: si va dalle isterectomie nei centri di detenzione per migranti in Georgia, passando per la costruzione di un Department of Denaturalization, per contestare la “cittadinanza” dei migranti colpevoli di crimini, fino al blocco delle richieste di asilo, dei visti e delle green card. Così nel purgatorio degli Stati Uniti di Trump, mentre l’alt right chiede di mettere in sicurezza «l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi», 545 bambini migranti i cui genitori sono stati deportati in Centro America nel 2018 per via della family separation politics rimangono non solo senza parenti ma anche senza possibilità di rintracciarli.

Il suprematismo bianco dell’era Trump, ci ricorda Celada, è anche uno degli ingredienti di quel mix letale di destra evangelica, occultismo, complottismo, nella cui “crisi epistemica” prendono forma anche quelle narrazioni complottiste secondo cui il rifiuto di indossare la mascherina durante una pandemia mondiale diventa atto di nobile patriottismo contro il conformismo orwelliano del deep State. È la Casa Bianca stessa che incita a una “resistenza” diffusa, avvallando l’idea che il virus non esista o che al massimo sia un’influenza alla quale si è data troppa importanza. È da qui che sono nati gli episodi – poi divenuti puntualmente virali – di donne, bianche, che danno in escandescenza nei negozi urlando a chi chiede loro di indossare la mascherina, insultando i commessi e chiedendo di parlare “al responsabile”: «le Karen (così vengono battezzate in rete diventando “meme” del momento) fanno appello ai diritti costituzionali, spesso ricorrono al lancio di mercanzie, oggetti contundenti, starnuti e sputi proditori» (p. 43). Le Karen (o i Ken) si moltiplicano come cloni per annunciare il negazionismo più becero. Come dice Celada, «quattro anni di trumpismo hanno generato i loro mostri, e si aggirano, molto adirati, nei supermercati del paese, sintomo di una sorta di “autoimmunità culturale” che è di pessimo presagio per il decorso della pandemia» (p. 44) Ma d’altronde lo stesso Trump a colpi di Lysol e idrossiclorichina ha non solo sottostimato, ma esplicitamente negato l’esistenza della “Kung-Flu” (sic!), riportando in luce il connubio tra destra creazionista e anti-abortista e rifiuto di qualsiasi procedura scientifica minima (esemplificata dallo scontro con il CDC e con l’OMS e dalle accuse continue contro “la dittatura sanitaria”).

Celada mentre osserva e studia “il sovrano” («il despota narcisista»; «il palazzinaro bancarottiere»), non manca mai di osservare quali siano le trasformazioni sociali strutturali e che cosa realmente avvenga nell’intreccio di classe, genere e razza.  Così la pandemia di Covid-19 viene analizzata soprattutto dal punto di vista dei drammatici effetti sociali che produce: la differenziazione tra “lavoratori essenziali” costretti al lavoro manuale e in presenza e quelli che possono lavorare in smartworking, ma specialmente l’iniquità prodotta dalla privatizzazione completa della sanità e della presenza del libero mercato nei servizi alla salute. E ancora riporta i numeri del disastro americano in caduta libera verso una delle crisi economiche più gravi degli ultimi due secoli: 30 milioni di persone disoccupate, mentre «Mark Zuckerberg incrementava la propria ricchezza del 59% e Bezos del 39%»; perdita del 15% delle iscrizioni per le università (e numeri altrettanto gravi si possono rintracciare per sanità e istruzione in generale); il 50% delle piccole imprese e l’85% dei ristoranti che rischiano di chiudere (pp. 136-138). Con la pandemia di Covid-19, il capitalismo ha toccato l’apice della sua instabilità aprendo a scenari apocalittici di distruzione e catastrofe. E sappiamo, almeno secondo le leggi basilari della meccanica, che se un sistema è eccessivamente instabile o esplosivo, di certo non è un buon sistema.

Che cosa accadrà dopo, si chiede Celada? Una riconferma di Trump comporterebbe la fase finale dell’esperimento democratico americano e «aprirebbe la strada di una stagione apocalittica e hobbesiana, un capitolo necrofilo, un’epoca di estinzione che esclude la sopravvivenza» (p. 139). E tuttavia anche in caso di un’auspicabile vittoria di Biden, i milioni di persone che hanno partecipato a questo processo politico e la base politica del trumpismo, nonché le sue condizioni sociali ed economiche, sono destinate a rimanere. Il problema forse, più che Trump stesso, è quello di cui Trump è il nome: un processo di transizione che ha sostituito il processo di costruzione di una mediazione sociale positiva in un complesso di feeling immediati e confusi popolati da risentimento e paranoia e da un tasso di violenza ormai sempre più strutturale in una società sull’orlo della guerra civile. Trump se ne potrà pure andare, ma gli Stati Uniti con cui dovremo avere a che fare a partire dal 4 novembre saranno comunque ancora i suoi.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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