Michele Paris 

Se l’assassinio in stile mafioso del più importante fisico nucleare iraniano venerdì scorso vicino a Teheran doveva servire a boicottare il possibile rilancio del dialogo tra Stati Uniti e Repubblica Islamica, è molto probabile che l’obiettivo sarà alla fine raggiunto. L’operazione, i cui responsabili sono da ricercare con ogni probabilità a Washington e soprattutto a Tel Aviv, ha infatti aggiunto altri ostacoli alla strada della diplomazia che potrebbe intraprendere il presidente entrante Joe Biden. In attesa del passaggio di consegne alla Casa Bianca, l’assassinio ha scosso profondamente la classe dirigente dell’Iran, da dove sono giunti per ora messaggi contrastanti sull’ipotesi di un cambio di rotta nei rapporti con gli USA dopo il 20 gennaio.

A Teheran e tra gli alleati della Repubblica Islamica ci sono pochi dubbi circa gli autori o, meglio, i mandanti dell’uccisione di Mohsen Fakhrizadeh. Il governo e le forze di sicurezza di Israele non hanno come al solito confermato né smentito l’ennesimo crimine commesso sul territorio di un paese nemico. Trump, da parte sua, aveva dato quanto meno l’approvazione indiretta dei fatti di venerdì scorso, re-twittando un’opinione di un giornalista israeliano che definitiva la morte dello scienziato un “colpo psicologico e professionale pesantissimo per l’Iran”.

Le modalità dell’assassinio ricordano altri episodi simili in passato pressoché universalmente attribuiti a Israele e, inoltre, anche in questo caso gli esecutori materiali dovrebbero essere soggetti reclutati all’interno della Repubblica Islamica o comunque non israeliani. Visto anche che Fakhrizadeh era stato nominato apertamente nel 2018 da Netanyahu nel corso di un ridicolo intervento pubblico per accusare l’Iran di essere ancora impegnato a costruire un’arma nucleare, sono non poche le perplessità sul livello di protezione garantito a quello che era considerato una vera e propria istituzione negli ambienti scientifici della Repubblica Islamica.

In ogni caso, la conseguenza immediata di quanto accaduto venerdì è l’irrigidimento degli ambienti di potere iraniani e il rafforzamento delle posizioni della fazione conservatrice, ovvero i promotori della “linea dura” per quanto riguarda i rapporti con l’Occidente. Ciò minaccia di togliere ulteriori spazi di manovra al presidente Rouhani e al suo ministro degli Esteri Zarif, sostenitori invece della linea “moderata” e già messi alle strette dalla politica della “massima pressione” di Trump e dalla prospettiva di dover lasciare il potere dopo le elezioni presidenziali del giugno prossimo.

Il clima che Biden si troverà di fronte, al di là delle sue reali intenzioni in merito all’Iran, sarà così ancora più ostile e potrebbe addirittura peggiorare se nelle settimane che mancano alla fine del mandato di Trump dovessero accadere altri eventi in grado di aggravare lo scontro. I segnali già arrivati da Teheran non sono infatti incoraggianti. Il parlamento iraniano, dove i conservatori detengono la maggioranza, domenica ha chiesto al governo una risposta immediata all’assassinio di Fakhrizadeh, iniziando con la sospensione delle ispezioni internazionali nei siti nucleari della Repubblica Islamica.

Queste visite sono il risultato dell’accettazione volontaria da parte di Teheran del cosiddetto “Protocollo Aggiuntivo” collegato all’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA). Proprio l’ultimo rapporto degli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) di qualche settimana fa era stato utilizzato dal presidente americano Trump come giustificazione per un possibile attacco militare mirato contro l’Iran. Il New York Times aveva rivelato come Trump avesse chiesto un parere in proposito al Pentagono, ma l’operazione era stata poi annullata su consiglio dei vertici militari e del dipartimento di Stato. Una delle giustificazione per un eventuale attacco doveva essere appunto il rapporto dell’AIEA che spiegava come l’Iran avesse superato di molto, peraltro legittimamente e in conseguenza delle decisioni americane, i limiti imposti dal JCPOA all’arricchimento dell’uranio.

Gli ambienti conservatori iraniani hanno inoltre denunciato proprio le aperture del governo Rouhani verso l’Occidente, nell’illusione di far diventare la Repubblica Islamica un paese “normale” agli occhi dei suoi rivali attraverso il rispetto di un accordo poi naufragato a causa delle scelte di uno dei firmatari. La dichiarazione approvata dal Parlamento domenica non ha forza di legge, ma è già in discussione una proposta vincolante che includerebbe, tra l’altro, il riavvio a tutti gli effetti del programma nucleare civile, inclusa la riattivazione del controverso impianto di Fordow.

Rouhani e Zarif sembrano al contrario voler tenere aperta la porta della diplomazia in vista dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca, nonostante la provocazione dell’assassinio di Fakhrizadeh. Il portavoce del governo di Teheran, Ali Rabiei, ha assicurato che il suo paese “non cadrà nella trappola” tesa da Trump e Netanyahu. L’ipotesi del dialogo con la nuova amministrazione americana resterà aperta, anche se “l’assassinio non rimarrà senza risposta”.

Se, come appare scontato, a pianificare la morte di Fakhrizadeh è stato il governo di Netanyahu, la decisione, oltre a rappresentare un crimine, conferma ancora una volta tutta la vigliaccheria di Israele. L’operazione, come tutte le consuete provocazioni dello stato ebraico, è stata condotta innanzitutto grazie alla copertura garantita dagli Stati Uniti e in considerazione del fatto che l’Iran aveva manifestato da qualche tempo l’intenzione di non reagire alle provocazioni che avrebbero potuto innescare un conflitto su vasta scala.

A questo proposito, a convincere Israele ad agire può avere contribuito anche la recente notizia dell’invito fatto dall’Iran alle milizie sciite in Iraq ad astenersi da attacchi o ritorsioni contro le forze americane di stanza in questo paese. Israele, dunque, non ha agito tanto per provocare una risposta iraniana, né tantomeno per ostacolare il programma nucleare iraniano, quanto per far saltare preventivamente qualsiasi piano di disgelo tra Washington e Teheran, ben sapendo che, viste le circostanze, molto probabilmente non ci sarebbe stata una risposta immediata da parte della Repubblica Islamica.

Ciò non toglie che l’Iran metterà prima o poi in atto una qualche rappresaglia contro Israele e forse i suoi alleati, come era accaduto dopo l’assassinio da parte americana del numero uno delle forze Quds dei Guardiani della Rivoluzione, generale Qassem Soleimani, nel gennaio scorso a Baghdad. Le opzioni iraniane sono molteplici e la ritorsione potrebbe arrivare anche da uno dei gruppi sostenuti da Teheran in Medio Oriente. Salvo provocazioni sempre più gravi, è comunque improbabile che l’Iran prenda iniziative in questo senso prima dell’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca.

La decisione di procedere con l’assassinio di Fakhrizadeh da parte di Netanyahu ha ad ogni modo inserito un certo elemento di scontro con l’Arabia Saudita proprio mentre i due paesi stanno lavorando a una normalizzazione anche formale delle relazioni bilaterali. Secondo quanto riportato in esclusiva dalla testata on-line Middle East Eye, dell’operazione in territorio iraniano avrebbero parlato Netanyahu, l’erede al trono saudita Mohammed bin Salman (MBS) e il segretario di Stato Pompeo durante la recente visita segreta del premier israeliano in Arabia Saudita.

Netanyahu aveva insistito per portare a termine il blitz, mentre Pompeo non aveva dato garanzie né si era impegnato per far desistere l’alleato israliano. MBS, invece, si era mostrato “molto nervoso” all’idea di una simile provocazione contro l’Iran. Le perplessità saudite erano legate al ricordo dell’attacco devastante condotto nel settembre del 2019 dai “ribelli” Houthis in Yemen, verosimilmente in collaborazione con Teheran, contro alcune importanti installazioni petrolifere saudite.

Quell’operazione aveva mostrato tutta la vulnerabilità del regno wahhabita e MBS teme di andare incontro a un nuovo attacco in risposta all’assassinio di Fakhrizadeh. Il problema ulteriore per Riyadh è determinato poi dal fatto che potrebbe venir meno anche la copertura americana, visto che l’amministrazione democratica entrante sarà forse meno disposta ad assecondare la leadership saudita rispetto a Trump. In questa prospettiva, il regime saudita non può che avallare il comportamento israeliano, così da offrire al prossimo presidente americano la nuova inedita partnership con Tel Aviv per ottenere in cambio una linea morbida sui nodi dei diritti umani e, tra l’altro, il brutale assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi.

Le manovre del presidente americano uscente e del governo israeliano per avvelenare ancora di più i rapporti con l’Iran proseguiranno comunque anche nei prossimi giorni. Questa settimana, il consigliere e genero di Trump, Jared Kushner, e il suo staff visiteranno ad esempio l’Arabia Saudita, prima di recarsi in Qatar. Ufficialmente, al centro della trasferta mediorientale dovrebbe esserci il tentativo di sanare la spaccatura creatasi da qualche anno tra il Qatar da una parte e alcune delle monarchie assolute del Golfo Persico dall’altra, ma la questione iraniana e il complotto contro Teheran non potranno che occupare anch’esse un posto importante nell’agenda delle discussioni

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/9094-usa-iran-lo-scoglio-di-israele.html

Di Red

„Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d'inventare l'avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l'avvenire.“ — Thomas Sankara

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