Paola Bergamo – Umberto Vincenti

L’impressione – e, forse, il timore – è che l’Italia sia prossima ad una rottura storica.

Gli equilibri, piuttosto squilibrati, che finora ci hanno consentito di galleggiare, sembrano declinare; e certo si pone, anche se non se ne vuol proprio parlare, una questione di responsabilità che, però, a un certo momento, si affaccerà e non sarà più possibile eluderla.

Ma sarebbe troppo facile puntare il dito solo su questo Governo (e sui “Governatori” di Regione) che pur, in questa tragedia pandemica, hanno commesso parecchi errori.

Appena comprensibili nella prima ondata, essi non sono accettabili nella seconda, specie quando siano riconducibili a miserabili calcoli elettorali.

Ora ci troviamo con l’acqua alla gola perché da molto tempo questa era salita ben al di sopra del livello di guardia; tuttavia abbiamo allegramente preferito far finta di niente, vivendo inconsapevolmente alla giornata e confidando nello stellone italiano, mentre si sarebbe dovuto metter mano alle strutture della Repubblica: non lo si è voluto fare o, quando ci si è provato, si è agito male, talora senza il sostegno dell’opinione pubblica.

La situazione pre-pandemica spiega quindi tutte le nostre carenze in questo tempo pandemico e ci colloca una volta di più in una situazione di grave minorità rispetto ai partners europei, in primis la Germania che ha tempestivamente, e adeguatamente, provveduto non solo a potenziare la propria sanità già eccellente, ma ad erogare tempestivamente i necessari ristori e, soprattutto, ha registrato, attraverso la sua invidiabile capacità organizzativa, un numero di decessi ben inferiore al nostro, nonostante che i tedeschi siano ventitré milioni di più degli italiani. Questi, e altri dati, ci inchiodano e inchiodano i nostri dirigenti politici; nel mentre la reazione delle nostre istituzioni è al momento assai confusa e, a volte, pure truffaldina.

Un dato importante sta proprio in quel che si è appena osservato (e non vi è assolutamente nulla di nuovo): il pensare, il sognare o l’infingere che l’Italia sia da valutarsi alla stregua dei paesi occidentali più forti, sia economicamente che organizzativamente.

Purtroppo non è così da decenni, anche se sembra che cominciamo, o dovremmo cominciare, a capirlo (e, probabilmente, lo capiremo ancor meglio l’anno venturo).

Tanto per riprendere un tema su cui si è detto troppo, e a vanvera, e dove si è avvertito talora una qualche punta di fanatismo, non è possibile decidere razionalmente sulla didattica in presenza o a distanza se si voglia prescindere (come si è voluto) dalla condizione logistica e organizzativa delle scuole e dei nostri trasporti.

Ma poi è davvero prospettabile questo gigantesco impoverimento culturale dei ragazzi a causa della DAD? Ma se si è ignorato fin qua il dissesto della scuola italiana, della sua capacità di trasmettere sapere, da almeno un paio di decenni?

Ora, però, si grida allo scandalo se per alcuni mesi, in conseguenza di una pandemia così drammatica, che ha già ucciso oltre cinquantamila italiani, si è costretti a far lezione attraverso il computer.

Ma ci siamo dimenticati che quella generazione, che è stata artefice del miracolo del dopoguerra, aveva fatto scuola, università e conseguito la laurea per modo di dire e sotto le bombe? 

Piuttosto lascia perplessi l’atteggiamento assunto dagli accademici di settore: tutto un apparire, un contraddirsi, un pontificare. Accademici di grandi università italiane, i tempi dell’alta cultura del Paese.

Ma, a parte il parlarsi addosso, questi accademici di settore che contributo hanno dato alla ricerca di terapie e vaccini? Nessuno, mi sembra. Allora è difficile continuare ad oltranza con la narrazione dell’eccellenza delle università nostrane: la sensazione è che la verità sia un’altra.

Avremmo ora bisogno di un gran discorso di verità da parte del vertice della Repubblica, che preferisce però rifugiarsi nel linguaggio dei luoghi comuni, ma così è inevitabile che non vi sia consapevolezza o consapevolezza diffusa circa il dove siamo e il dove stiamo andando. Proviamo noi a mettere in fila qualcuna delle emergenze più gravi dalle quali dipende il nostro futuro.

La prima, evidentissima, tocca la catena di comando: una filiera infinita dentro la quale è molto difficile pervenire ad una decisione sensata.

Troppe le istanze particolari o particolaristiche, come dimostrano fin la varietà di colori in cui si è pensato di dividere l’Italia pandemica: qui l’impressione è che, in quest’arlecchinata, l’interesse autenticamente comune si sia ridotto a quasi un artificio retorico, ma utile a occultare ricatti e pressioni provenienti da chi è preoccupato soprattutto di tutelare il suo, non importa a scapito di chi altro.

Se il Governo è apparso incerto, incapace di individuare e perseguire una linea di condotta non oscillante, le Regioni non hanno offerto, da parte loro, un’immagine migliore, confermando che il regionalismo, come ci è consegnato dalla Costituzione, è altamente problematico e in certi momenti, come questo, anche dannoso.

Vi è, per esempio, un “Governatore” molto osannato che, pur avendo dato prova di abilità ed efficienza, ha oscillato di continuo nel cercare un compromesso, talora impossibile, tra emergenza sanitaria ed interessi economici.

Agli inizi di marzo esortava i cittadini della sua Regione perché rimanessero chiusi in casa e si associava un cattedratico da cui si faceva guidare; a maggio entrava  in frizione con il professore  e poi lo allontanava perché non aperturista; ai primi di giugno liberava il suo ‘popolo’  dall’obbligo della mascherina all’aperto; ai primi di luglio predisponeva spot commerciali per il turismo in Regione e andava nelle spiagge a promuovere la stagione balneare; ad agosto era fra coloro che sostenevano l’apertura di scuole e università; in ottobre, dopo le elezioni, invitava il Governo ad introdurre la DAD alle superiori e rimproverava duramente i cittadini che non osservavano l’obbligo della mascherina e il divieto di assembramento; a novembre difendeva abilmente il colore della sua Regione introducendo motu proprio blande limitazioni e divieti; ora è tra quelli che  si battono per l’apertura della stagione sciistica a Natale, dettando in anticipo, con una certa furbizia, alcune linee guida per evitare che Roma si intrometta.

Il che introduce incidentalmente una questione fondamentale nel fronte anti-epidemico e, cioè, che esso non può essere seriamente allestito senza un leale coordinamento europeo (Austria docet).

Mettere in sequenza i fatti può risultare antipatico, ma emerge la strategia di proteggere, costi quel costi, le imprese più in sofferenza, anche quelle più indiziate ai fini della diffusione epidemica. Scelta anche comprensibile, almeno da un certo punto di vista, ma con l’assunzione del rischio di mandare in crisi medici e ospedali e, soprattutto, di causare ulteriori decessi.

Una politica responsabile e autenticamente repubblicana dovrebbe illustrare apertamente ai cittadini le ragioni di certe scelte in sé tragiche, evidenziandone vantaggi e svantaggi, ma si preferisce non essere troppo trasparenti: criptati stanno gli interessi economici, comunque privati, che sono forti perché organizzati e capaci di portare in dote un certo numero di voti a fronte dei singoli cittadini, isolati gli uni dagli altri, avvertiti come meno influenti, dispersi e per questo meno protetti di quel che si dovrebbe.

Eppure una rivista come Nature – prestigiosa autorità dell’informazione scientifica – aveva pubblicato uno studio da cui risulta che i luoghi di maggior rischio di contagio sono bar, ristoranti, alberghi: nulla di straordinario, a ben vedere, perché è visibile a tutti che così è.

Comunque la domanda è questa: questi dati, prodotti dai ricercatori dell’Università di Stanford, sono stati forse diffusi da televisioni e stampa e considerati dai nostri dirigenti politici?

Una giustificazione di omissioni del genere sta nel nostro sistema economico che ha finito, in questi ultimi decenni, per aggrapparsi sempre più all’industria dei consumi e del tempo libero.

Siamo diventati davvero, come sostiene Luca Ricolfi, un immenso parco divertimenti e abbiamo consentito che si inverasse sempre più quanto denunciato anni fa da Salvatore Settis: i centri storici delle nostre magnifiche città ridotti a una sorta di “shopping center artificiale, più simile alle evocazioni di cartapesta di Las Vegas che alle città di Dante e di Palladio”.

La pandemia, però, ci pone un interrogativo a cui, prima o poi, dovremmo dare risposta: questa opzione, chiamiamola turistica, che certo incide positivamente sul Pil del Paese, ci restituisce un’economia sufficientemente solida e forte? O si tratta di una scelta necessitata dalla progressiva rarefazione di produzioni importanti, di dismissione di assets strategici, la cui deterritorializzazione ci ha costretto a puntare su ciò che non può essere deterritorializzato, cioè i luoghi artistici e naturali del Bel Paese?

Un’emergenza nell’emergenza è che, a tutt’oggi, il Governo non ha fatto chiarezza in che cosa consiste il piano italiano per l’utilizzo dei fondi della Next Generation Eu per il rilancio del Paese. Nonostante le numerose task forces, gli Stati Generali, le varie cabine di regia attivate ad oggi, nulla veramente sappiamo sul piano da sottoporre all’Europa, come sottolineato anche da Giorgio La Malfa sul Corriere della Sera.

Neppure è chiaro chi possa presentare programmi per accedere ai fondi del piano italiano: i privati o solo le amministrazioni pubbliche? E, fra queste, tutte o alcune? Mancano le regole o, se ci sono, si è preferito non renderle pubbliche.

Nemmeno siamo a conoscenza della sede presso la quale dovranno essere presentati i progetti, né dell’autorità preposta alla loro valutazione e dei criteri che si adopereranno nelle verifiche di valutazione, anche in relazione ai dettami UE.

É, però, palese che, data la portata della crisi, neppure i denari (che dovrebbero essere) messi a disposizione da Bruxelles saranno sufficienti per noi: l’Italia è, tra gli Stati europei, il più devastato e bisognoso di interventi.

I fondi internazionali di investimento avvertono che potremmo essere un luogo propizio per i loro affari, essendo nota la nostra urgente necessità di nuove infrastrutture e di investimenti sul digitale. Per questo vorrebbero intervenire in Italia, ma nello stesso tempo tentennano perché continuiamo a dare segni di incertezza e non ci siamo corredati, nonostante i molti inviti, delle riforme postulate dagli investitori, in tema di mercato del lavoro, tempi della giustizia, contrasto all’evasione fiscale, semplificazione della burocrazia. Tutti mali che ci affliggevano ben prima di Covid-19, mai realmente affrontati ed oggi un peso gravissimo che potrebbe paralizzarci senza possibilità di recupero.

É emersa un’altra grave contraddizione, di cui già prima vi era qualche segnale, una contraddizione che attiene piuttosto alla psicologia del Paese e alla sua stessa lealtà.

Perché si ha l’impressione che la solidarietà, che ci hanno insegnato essere il valore fondante della nostra Repubblica, valga soprattutto come slogan: siamo ben disposti ad onorare la parola, ma quando essa implica la sopportazione, da parte nostra, di sacrifici concreti – per aiutare coloro verso cui dobbiamo essere solidali – parecchi di noi cercano di sottrarsi.

Domandiamoci quanti, a prescindere dall’età, si sono dimostrati poco rispettosi delle regole di prudenza? Quanti ora desiderano essere liberi a Natale, di far ciò che vogliono come in passato? Quanto egoismo è emerso in questa vicenda pandemica, specie nella seconda ondata che il Paese fatica, più di altri, ad arginare? Quanta indifferenza vi è ormai verso i nostri concittadini che soffrono e muoiono a causa del virus assassino? Ha ragione Carlo Fusi che, ne Il Dubbio di qualche giorno fa, ha concluso amaramente che questo sgretolamento della coesione, questa insofferenza verso le regole per l’interesse comune, questa tendenza a non voler vedere lascerà il segno soprattutto quando il virus sarà sperabilmente sconfitto; e la nostra democrazia faticherà a riassorbire un vulnus di questa portata.

In questo contesto emergenziale, che tocca tutti, il vertice della Repubblica dovrebbe agire, non far da spettatore. La Costituzione glielo consente, anzi glielo impone.

Non basta dire l’ovvio: l’esortazione alle forze politiche alla coesione, meglio all’unità.

Coesione e unità sono certamente da cercare a tutti costi, ma come raggiungerle se si vuol comunque mantenere la dialettica, inevitabilmente aspra, tra maggioranza e opposizione?

L’unità si consegue, è logico, portando l’opposizione dentro il governo. 

Sarebbe più cauto per la stessa maggioranza che non considera che potrebbe pagare assai, e da sola, tutto il peso del tracollo a causa del virus.

La storia non tanto lontana ci indica che, quando il pericolo fu grave, si formò un governo di unità nazionale.

Questa è la prima scelta che si dovrebbe fare subito; la seconda è di chiamare a raccolta le persone migliori, per competenza, esperienza, indipendenza, qualunque sia la loro opzione ideologica. Siamo certi che il Paese ha donne e uomini con queste qualità, anche nel ceto politico.

Si sarebbe dovuto farlo ancora a marzo e probabilmente non lo si farà mai, ma varrebbe la pena di pensarci su, in primis da chi, in questo momento, ha il potere di fare cose per l’Italia.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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