La guerra in Sahara Occidentale, l’effetto degli accordi di Abramo, l’espansionismo marocchino, i problemi interni economici e sociali di Algeria e Tunisia, lo sfaldamento della Libia, la complessa posizione della Mauritania. Dall’altro lato del Mediterraneo sono in fermento, mentre continuiamo a pensare che non ci riguardi
Dallo scorso 13 novembre è tornata la guerra nel Sahara Occidentale, l’ultimo grande territorio africano dove il processo di decolonizzazione non si è compiuto. Dopo 29 anni dalla firma dell’armistizio tra la Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi (RASD) e il Marocco, la situazione è sempre più insostenibile, tra l’immobilismo dell’ONU – che dovrebbe organizzare il referendum e gestire la transizione verso uno stato indipendente – e l’arrogante espansionismo della monarchia marocchina, che contro ogni risoluzione internazionale rivendica la sovranità su un territorio illegalmente occupato.
MAROCCO, USA, ISRAELE
Quando il 10 dicembre il Sahara occidentale finisce all’interno di una sorta di scambio incrociato che coinvolge Israele, Stati Uniti e Marocco diventa chiaro anche ai più scettici che quella dell’ex colonia spagnola è una vicenda che riguarda gli equilibri di tutta la zona e oltre. Con uno dei suoi numerosi tweet l’ormai in procinto di essere ex presidente USA Donald Trump ha infatti annunciato di aver firmato una proclamazione che riconosce la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale, mentre Marocco e Israele firmano sotto l’egida USA una pace piuttosto atipica. Atipica perché i due paesi non sono mai stati in guerra, anzi, le relazioni diplomatiche sono abbastanza buone e in Israele vive un altissimo numero di ebrei di origine marocchine (secondo le stime, tra 700mila e un milione, su una popolazione totale che non arriva a 10 milioni).
Non è mai stato un mistero la collaborazione in ambito di intelligence e di cooperazione militare tra Marocco e Israele, mentre la lunga storia del legame culturale tra i due paesi ha avuto importanti riflessi anche in ambito diplomatico (seppur mai in maniera ufficiale) soprattutto negli anni del re Hassan II, padre dell’attuale monarca Mohammed VI – come testimonia il ruolo di facilitatore avuto dal re nel dialogo tra lo stato ebraico e l’Egitto che ha portato agli accordi di pace di Camp David del 1978.
Il percorso iniziato dal padre ora è stato portato a compimento da Mohammed VI con l’ausilio degli Stati Uniti. Il regime marocchino, dopo anni di intenso lavoro diplomatico, ha visto in un colpo solo la realizzazione delle sue due più grandi ambizioni: risolvere la questione del Sahara Occidentale e fare un altro passo verso la sua affermazione quale potenza regionale.
Negli USA invece ha fatto rumore la dura condanna di James Baker, segretario di stato sotto Bush padre e poi inviato per l’ONU proprio in Sahara Occidentale, che ha detto chiaramente che mischiare gli accordi di Abramo e il conflitto in Sahara è un errore e si augura che Biden «annulli questa decisione cinica e affrettata». La pensa così anche John Bolton, ex consigliere di Trump, insomma non un pericoloso estremista di sinistra. La decisione di Trump, e questo fuori dal Marocco in pochi lo contestano davvero, va infatti contro la legge internazionale e principi cardini che regolano la vita delle nazioni post-seconda guerra mondiale come quello dell’autodeterminazione dei popoli.
L’ATTIVISMO DIPLOMATICO DEL MAROCCO
L’annuncio di Trump non va letto solo come un colpo di coda della presidenza repubblicana ma anche come parte di un processo di rafforzamento dell’asse sunnita filo statunitense capeggiato in questa fase dagli Emirati Arabi Uniti. Il Marocco aspira a diventare un player importante proprio in quel campo e in tal senso era risultata emblematica e foriera della situazione attuale l’apertura di un consolato emiratino, appena un mese fa, nella “capitale” saharawi El Aaiun – situata nel territorio occupato dal Marocco, mentre tutte le sedi istituzionali della RASD si trovano o nei campi profughi o nella striscia di terra controllata dal Fronte Polisario. E non è un caso che appena dopo l’annuncio di Trump il Bahrein, altro paese arabo facente parte dei promotori del cosiddetto patto di Abramo, ha ufficialmente aperto un consolato sempre ad El Aaiun, dichiarando il proprio sostegno incondizionato al Marocco.
Il certosino lavoro diplomatico degli ultimi anni del regno marocchino ha portato alla rottura del tabù della questione saharawi non solo all’interno della Lega araba ma anche nell’Unione Africana in cui è rientrato ufficialmente nel 2017, dopo l’uscita negli anni Ottanta proprio in seguito al riconoscimento da parte dell’Unione della RASD (membro tuttora dell’UA).
E mentre internamente lo monarchia è impegnata a reprimere le voci di dissenso, nel continente africano il Marocco negli ultimi anni ha accresciuto il suo ruolo politico ed economico.
Questo ha portato all’instaurazione di uno stretto legame con alcuni stati, soprattutto della costa occidentale francofona, i quali non a caso hanno sostenuto le rivendicazioni marocchine con l’apertura simbolica di sedi consolari nelle principali città della costa saharawi. Però, a differenza della Lega Araba dove l’asse sunnita trainato dalle petromonarchie del golfo, in cui si è inserito il Marocco, sembra pagare, all’interno dell’Unione Africana la RASD ha ancora al suo fianco attori di primo piano quali, oltre ovviamente all’Algeria, il Sudafrica e la Nigeria che mantengono ferma la propria posizione a sostegno del diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi. Va monitorato anche il rapporto tra Unione Europea e Marocco, visto che – oltre alle annose questioni di Ceuta e Melilla – anche la rotta migratoria delle Canarie diventa sempre più importante e il Marocco spera di usarla come moneta di scambio.
LA SITUAZIONE INSTABILE DELL’ALGERIA
Su un piano regionale l’area su cui focalizzare maggiormente l’attenzione resta quella maghrebina, in cui hanno storicamente avuto un enorme peso sia la questione saharawi che quella palestinese. Dopo i tweet di Trump e la conferma da parte marocchina lo sguardo si è subito rivolto alla reazione dell’Algeria, competitor storico della monarchia cherifiana e principale sponsor del Fronte Polisario.
Il redivivo presidente Tebboune non a caso è riapparso in pubblico proprio in seguito all’annuncio di Trump, dopo un’assenza forzata per precarie condizioni di salute (ancora oggi è in cura in Germania). Nel discorso pronunciato in diretta televisiva, in cui ha sottolineato l’illegittimità della decisione statunitense riguardo il Sahara, giudicata senza alcun efficacia e fondatezza giuridica, ha riproposto il refrain del paese assediato dai nemici esterni molto caro al potere algerino.
Nonostante la retorica mai come oggi l’Algeria, però, rischia di trovarsi davvero in una posizione alquanto scomoda, con l’ufficializzazione di un raccordo tra i due suoi principali nemici, Marocco e Israele, i quali stanno già mostrando una certa intraprendenza anche al di fuori dei confini maghrebini, ma in zone considerate di influenza algerina, come ad esempio il confinante Mali. Circostanza che rischia di aumentare la tensione considerato anche il nuovo approccio in politica estera dell’Algeria inaugurato da Tebboune.
Tra le novità della nuova costituzione, approvata dal 66 % dei votanti (che però sono stati solo il 23 % degli aventi diritto, ennesima dimostrazione della distanza tra la popolazione e il governo), c’è l’inedita possibilità del paese di essere più attivo militarmente, cambiando radicalmente la dottrina strategica da sempre basata sul principio di non-interferenza. Il nuovo testo costituzionale prevede che l’Algeria possa partecipare alle operazioni di mantenimento della pace «nel quadro di operazioni delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana e della Lega degli Stati arabi» e inviare il proprio esercito in paesi terzi con l’approvazione di due terzi del Parlamento.
Un aspetto che esemplifica la volontà del paese di inserirsi in maniera più decisa del passato nei vari contesti di crisi regionale, su tutti la Libia, ma anche il vicino Sahel. Nonostante le aspirazioni c’è però da registrare la sempre più acuta impasse in politica interna con l’Hirak (il movimento di opposizione) sempre vivo, nonostante lo stop delle manifestazioni causa pandemia, e l’enorme disaffezione nei confronti dell’attuale establishment. D’altronde non è emersa nessuna reale discontinuità rispetto al passato nella gestione del potere e la repressione continua a colpire pesantemente qualsiasi voce critica, come esemplifica la condanna di soli pochi mesi fa del giornalista Khaled Drareni, così come i continui fermi e arresti di attivisti dell’opposizione sociale e politica. Inoltre la crisi economica, aggravata dal Coronavirus, non sembra avere via d’uscita con indici di disoccupazione giovanile che sfiorano il 30 % e aumentano la sensazione di oppressione tra le nuove generazioni.
LA CRISI ECONOMICA REGIONALE E LA TUNISIA
Una delle grandi questioni regionali, oltre a quella relativa al Sahara Occidentale e ai posizionamenti geopolitici, è proprio quella della tenuta sociale in un contesto di crescente stagnazione economica. Le percentuali sulla disoccupazione giovanile sono simili anche nella vicina Tunisia, che cerca di mantenere una difficile posizione di equidistanza rispetto alla questione saharawi e per il momento mantiene fermo il punto riguardo al processo di normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele finora sempre negato. I problemi interni sono molteplici, con la pandemia che ha messo a nudo tutte le difficoltà strutturali del paese mai realmente risolte a dieci anni dall’anniversario dell’inizio della rivoluzione.
Nelle ultime settimane si sono susseguite manifestazioni di diverse categorie sociali e lavorative, nonché scioperi generali a carattere regionale in alcuni tra i governatorati più svantaggiati del paese.
Si tratta di aree che soffrono strutturalmente di un’enorme diseguaglianza tra fascia costiera e aree interne, come Kairouan e Jendouba. Proprio nella città di Jendouba è avvenuto un tragico episodio che ha scatenato la collera della popolazione e ha messo in evidenza tutte le difficoltà del paese, ovvero la morte di un giovane medico nell’ospedale cittadino a causa di un guasto di un ascensore. Circostanza che ha causato uno sciopero del personale sanitario in tutto il paese.
Da un punto di vista sociale di certo non va meglio nemmeno nella vicina Libia, strangolata da anni di guerra civile, la cui risoluzione risulta sempre più un ginepraio senza fine, nonostante la fase di relativa calma e stallo dei combattimenti. Non aiuta di certo la posizione ambigua e ondivaga che l’Italia ha assunto in questi ultimi anni (e da ultimo sulla questione dei pescatori di Mazara del Vallo) nei confronti dell’ex colonia.
IL RUOLO DELLA MAURITANIA
Per completare il quadro regionale maghrebino è importante considerare il ruolo della Mauritania, paese di disuguaglianze e segregazioni strutturali, che deve sempre guardarsi anche dalla minaccia terroristica facendo parte della fascia saheliana costantemente attraversata da instabilità. Proprio la Mauritania rappresenta anche il paese dell’area storicamente più legato alla questione saharawi, dopo Marocco e Algeria, e nel corso degli anni ha dovuto mantenere una difficile posizione di neutralità tra le diverse parti (dopo che nel 1975 invase il sud del Sahara Occidentale, per poi firmare l’armistizio quattro anni dopo).
Una posizione su cui potrebbe gravare il peso dell’annosa questione, ormai correlata, della normalizzazione dei rapporti con Israele: la Mauritania è infatti tra i principali indiziati a diventare il prossimo paese arabo a compiere questo passo. Segnali di un’apertura in tal senso, d’altronde, sono stati lanciati da Nouakchott da diverso tempo, avendo sin da subito espresso pubblicamente supporto all’iniziativa emiratina. L’eventuale adesione anche della Mauritania al patto di Abramo andrebbe ad aggravare ancor di più la tensione in tutto il Maghreb. Circostanza che, dopo l’annuncio statunitense, rischierebbe di mandare in frantumi le flebili speranze di una maggiore integrazione regionale, da sempre una vera e propria chimera proprio a causa della questione saharawi e delle complicate relazioni tra Marocco e Algeria.
La connessione tra la causa palestinese e quella saharawi potrebbe, però, d’altro canto, riservare delle sorprese nel senso di una rinvigorita solidarietà popolare dal basso, non solo tra saharawi e palestinesi.
Tra questi popoli si intravedono già i primi segnali, almeno tra le forze di sinistra già storicamente vicine, mentre anche in Italia si ravvivano i movimenti di solidarietà internazionalista – ma la solidarietà potrebbe coinvolgere anche le popolazioni di tutto il Maghreb, storicamente legate alla causa palestinese, che potrebbero ritrovare comunità d’intenti contro la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele. In tal senso sarà interessante volgere lo sguardo nel prossimo futuro al Marocco che internamente è uno stato assai meno monolitico di come voglia apparire, anche rispetto alle vicende saharawi.
La normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, seppur mitigata dai sentimenti sciovinisti del riconoscimento da parte USA della sovranità marocchina sul Sahara Occidentale, non è affatto ben vista dalla stragrande maggioranza marocchina (come dimostrano diversi sondaggi) e potrebbero sorgere delle insidie di non facile risoluzione per la finora saldissima leadership di Mohammed VI. Insomma, grande è la confusione sotto il cielo, la situazione non è però eccellente e le vicende della sponda sud del Mediterraneo e del Maghreb in generale sono molto più vicine di quanto pensiamo.