Quando si parla del programma Next Generation EU (NGEU), comunemente noto in Italia con il nome di Recovery Fund, una premessa è d’obbligo: quello che nei media viene presentato come un accordo già chiuso deve in realtà ancora superare un ostacolo non da poco, ovverosia la ratifica da parte di tutti e 27 i parlamenti nazionali dell’UE. Si tratta, a detta dei più, di un passaggio puramente formale, che si dovrebbe concludere entro la prima metà del 2021. E probabilmente hanno ragione: è difficile immaginare che un parlamento nazionale possa far naufragare un accordo negoziato dal governo che ne è espressione. Tuttavia non è da escludere che il percorso possa riservare delle sorprese. Soprattutto in Olanda, dove si andrà al voto a marzo e dove il primo ministro Mark Rutte è stato fortemente criticato per l’accordo. Quanto meno, la mancata ratifica dell’accordo da parte dei parlamenti nazionali dovrebbe suggerire una certa prudenza quando si parla di Recovery Fund.

Fatta questa doverosa premessa, vediamo di entrare nel dettaglio del cosiddetto Recovery Fund. Partiamo innanzitutto dall’aspetto strettamente finanziario. L’accordo si compone di due pezzi: il programma Next Generation EU, appunto, pari a 750 miliardi (che la Commissione andrà a prendere sui mercati) spalmati su sei anni, di cui 390 miliardi dovrebbero venire corrisposti agli Stati membri sotto forma di trasferimenti “a fondo perduto” (come vedremo, le virgolette sono d’obbligo) e 360 miliardi sotto forma di prestiti; e il quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027, ovvero il bilancio europeo classico, pari a poco più di 1.000 miliardi di euro (di poco superiore all’ultimo bilancio europeo 2014-2020). In totale circa 1.800 miliardi.

Veniamo ora al punto che ci riguarda più da vicino: quanti soldi dovrebbero spettare all’Italia? Secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato, lo strumento principale del programma NGEU – il Recovery and Resilience Facility (RFF), che rappresenta circa il 90 per cento delle risorse totali – prevede per l’Italia circa 191 miliardi, di cui 64 miliardi sotto forma di sussidi e 127 sotto forma di prestiti. Inoltre, all’Italia dovrebbero spettare altri 18 miliardi circa, sempre sotto forma di trasferimenti, distribuiti su più fondi per la ricerca, politiche di coesione, garanzia sugli investimenti, politica agricola e sviluppo rurale, transizione alle energie rinnovabili ecc. Per un totale di circa 209 miliardi – la cifra-slogan che viene sbandierata sui media da mesi –, di cui, in totale, 127 miliardi di prestiti e 82 miliardi di trasferimenti.

A prima vista, potrebbero sembrare molti soldi, di cui una buona parte addirittura a fondo perduto. Ma è veramente così? Come sempre, il diavolo è nel dettaglio. Partiamo dagli 80 miliardi di trasferimenti “a fondo perduto”. Per quanto concerne questi fondi, l’Italia non dovrà rimborsare direttamente la somma ricevuta, a differenza di quanto sarà tenuta a fare con i prestiti bilaterali. Ma questo non vuol dire che la somma in questione sia veramente a fondo perduto. L’Italia, infatti, come tutti gli altri paesi, sarà chiamata a rimborsare una parte della porzione di debito comune emesso dalla Commissione destinata ai trasferimenti (390 miliardi).

Dunque, alla fine, come vale già oggi per il bilancio europeo, a determinare se ci avremo “guadagnato” o meno dai trasferimenti inerenti al programma NGEU sarà il saldo finale tra la somma che avremo ricevuto dal fondo in questione e la somma che invece saremo chiamati a rimborsare. Tanto per capirci: anche oggi l’Italia riceve finanziamenti “a fondo perduto” dalla UE, ma il suo saldo complessivo nei confronti della UE è negativo, il che vuol dire che l’Italia versa all’Europa più soldi di quanti ne riceva da essa.

Quanto dovrà versare dunque l’Italia come suo contributo alla componente trasferimenti del programma Next Generation EU? Non esistono stime ufficiali, ma in assenza di un accordo, per ora lontano, sull’aumento del massimale delle “risorse proprie” della UE, attraverso per esempio una tassa europea (che pagherebbero sempre i cittadini, ovviamente, ma che potrebbe permettere, in teoria, una distribuzione più “progressiva” degli oneri tra gli Stati), gli Stati saranno chiamati a rimborsare i 390 miliardi allocati ai trasferimenti in base al PIL, come già avviene per il normale bilancio europeo. Nel caso dell’Italia (13 per cento del PIL dell’Unione), parliamo di circa 50 miliardi. In tal caso, il risultato finale sarebbe un saldo positivo, per quanto concerne i trasferimenti NGEU, di 30 miliardi (82 ricevuti meno 50 versati) spalmati su sei anni: pochi miliardi l’anno.

Ma non finisce qui. Per effettuare una stima di quello che sarà il saldo complessivo dell’Italia nei confronti della UE nei prossimi anni, c’è da prendere in considerazione anche il normale bilancio europeo. Come già detto, l’Italia è da sempre un contribuente netto. Come si legge nell’ultima relazione disponibile della Corte dei Conti sui rapporti finanziari con l’UE e l’utilizzazione dei fondi europei, nel settennio 2012-2018 l’Italia ha versato al bilancio UE 112,85 miliardi e ha ricevuto 76,49 miliardi; il saldo netto versamenti/accrediti tra Italia e UE è dunque «negativo per 36,3 miliardi. In tale periodo, l’Italia ha perciò contribuito alle finanze dell’Europa con un saldo medio di 5,2 miliardi l’anno». Detto altrimenti, come nota Andrea Del Monaco, se nel 2012-2018 avessimo rinunciato a contribuire all’UE, «avremmo avuto 112 miliardi da spendere senza attendere le approvazioni della Commissione europea». Non a caso l’economista tedesco Daniel Gros in aprile suggerì che la soluzione migliore per l’Italia sarebbe stata semplicemente rinunciare al suo contributo al bilancio europeo per i prossimi sette anni.

E per quanto riguarda il nuovo bilancio 2021-2027? Secondo l’informativa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla Camera dei deputati del 22 luglio 2020, il saldo italiano resterà negativo: meno 2,9 miliardi in media all’anno; nel settennio 2021-2027 il saldo cumulato sarebbe dunque meno 20,3 miliardi. Sottraendo il probabile saldo positivo dei trasferimenti NGEU (30 miliardi) al saldo negativo del normale bilancio UE, l’Italia avrebbe nel periodo 2021-2027 un saldo positivo nei confronti della UE di meno di 10 miliardi: briciole. Alla fine la UE si limiterà a ridarci indietro i nostri stessi soldi, per di più dicendoci come spenderli, come già avviene per i fondi europei (su questo punto torneremo più avanti).

Passiamo adesso alla componente prestiti del programma NGEU, che per l’Italia dovrebbe ammontare a 127 miliardi. In questo caso, trattasi a tutti gli effetti di un debito – che come tale andrà ovviamente ad aumentare il rapporto nostro rapporto debito/PIL – che però contrarremmo direttamente nei confronti della UE invece che sui mercati, come avviene normalmente. Secondo la narrazione ufficiale, il vantaggio di questi prestiti consisterebbe nel “differenziale” fra gli interessi pagati dallo Stato italiano sui titoli che emette sui mercati rispetto a quelli che pagherebbe sui titoli venduti alla Commissione, in virtù – sempre secondo la narrazione ufficiale – dei tassi più vantaggiosi, rispetto ai singoli Stati, che la Commissione sarebbe in grado di “contrattare” sui mercati.

Si tratta però di un’illusione ottica. Come abbiamo più volte sottolineato, il tasso di interesse non è determinato dai mercati ma dalla banca centrale, come ormai ampiamente dimostrato dalla pandemia, dove a fronte di un significativo aumento del deficit e del debito pubblico, i tassi di interesse sulle obbligazioni italiane sono scesi a livelli record. Da un punto di vista strettamente tecnico, dunque, la BCE potrebbe tranquillamente portare i tassi di interesse sui nostri titoli di Stato al livello che vuole, eliminando qualunque “differenziale” rispetto ai titoli emessi dalla Commissione (i cui tassi sarebbero comunque influenzati sempre dalla BCE, giacché è lecito immaginare che una parte dei titoli emessi dalla Commissione verrà acquistata dalla stessa banca centrale).

Inoltre, l’argomentazione del differenziale dei tassi di interesse, oltre ad essere priva di fondamento, risulta ancora più assurda nella misura in cui, come detto, oggi già paghiamo sui nostri titoli di Stato tassi di interesse estremamente bassi. Anche accettando la logica di fondo (errata) del differenziale, dunque, il risparmio che ne deriverebbe in termini di spesa per interessi sarebbe comunque estremamente esiguo e di certo non tale da giustificare le pesanti condizionalità associate ai prestiti della Commissione, diversamente dai prestiti contratti sui mercati, come vedremo più avanti. Ciò detto, se oggi paghiamo sui nostri titoli di Stato un tasso di interesse tale, per quanto basso, da rendere comunque “attrattiva” la prospettiva di indebitarci nei confronti della UE, questo è unicamente una conseguenza dell’appartenenza alla stessa architettura monetaria della UE. Se disponessimo di una nostra banca centrale, infatti, nulla ci impedirebbe di indebitarci a un tasso di interesse nullo o anche negativo – o di vendere i titoli direttamente alla nostra banca centrale –, come fanno attualmente gran parte dei paesi avanzati, incluso il Giappone, nonostante il suo rapporto debito/PIL del 250 per cento, o la Gran Bretagna, nonostante il “terremoto” della Brexit.

In altre parole, la UE ci sta offrendo la soluzione ad un problema creato da essa stessa: l’assenza di una banca centrale degna di questo nome (nonostante le politiche messe in campo in questi mesi, come vedremo). Ad ogni modo, stante il quadro istituzionale vigente, non avremmo nessun problema a reperire domani stesso sui mercati, a tassi vantaggiosi, una cifra equivalente a quella destinataci dal programma NGEU: solo qualche mese fa, nel corso di una singola asta di BTP decennali, il Tesoro ha ricevuto una domanda di circa 100 miliardi, cioè poco meno di quanto dovremmo ricevere dalla UE nel corso di sei anni e alle condizioni dettate dalla Commissione.

Vi è poi un’altra questione non di secondaria importanza che riguarda i prestiti della Commissione europea. Normalmente i nostri titoli di Stato vengono rinnovati a scadenza (viene cioè emesso nuovo debito per rimborsare il debito in scadenza); lo Stato, dunque, si limita a prelevare sotto forma di tasse tutto o una parte del denaro necessario per il pagamento degli interessi annuali, ma non deve preoccuparsi di reperire i soldi per il rimborso del capitale. I prestiti della Commissione, però, per ammissione della stessa, non possono essere rinnovati a scadenza, il che significa che bisogna nel tempo accantonare i soldi per restituire il capitale, oltre che gli interessi. È quindi evidente che, se noi chiediamo 127 miliardi di prestiti, dobbiamo trovare, nel corso degli anni, una cifra equivalente: in altre parole, più tasse. Come spiega la Commissione: «Il denaro attinto dai mercati finanziari dovrà essere ripagato un giorno. Secondo il nostro piano la restituzione dovrebbe avvenire tra il 2028 e il 2058. Potrebbe sembrare una prospettiva lontana ma noi dobbiamo iniziare la discussione su come ripagare il debito già da ora».

Fin qui abbiamo sfatato il mito dei soldi “a fondo perduto” e dei presunti vantaggi, da un punto di vista strettamente contabile, che otterremmo dall’indebitarci nei confronti della UE piuttosto che tramite i  normali canali di finanziamento. Quanto detto finora dovrebbe già essere sufficiente a demistificare la narrazione sulla “pioggia di soldi generosamente concessici dall’Europa”: trattasi, infatti, di soldi che dovremo restituire per intero (prestiti) o in buona parte (trasferimenti) e che non presentano vantaggi apprezzabili rispetto ad altri canali di finanziamento.

Anzi, è lo stesso governo ad ammettere che le risorse del programma NGEU avranno un impatto irrisorio sull’economia. I tempi sono un fattore particolarmente penalizzante: i soldi inizieranno a essere versati nel 2021, saranno “impegnati” (cioè sarà deciso dove e a chi andranno) fino al 2023 e liquidati entro il 2026. Ovviamente tali tempi sono completamente incompatibili con l’esigenza di finanziare immediatamente la ripresa, prima che i danni produttivi e sociali diventino irreparabili. La Nota di aggiornamento al DEF (NADEF) recentemente pubblicata dal Ministero dell’Economia e Finanze specifica i trasferimenti saranno pari a 14, 20 e 28 miliardi nel triennio a venire: rispettivamente lo 0,8, l’1 e l’1,5 per cento di PIL circa. L’effetto stimato di crescita economica, sempre per il triennio, è pari rispettivamente allo 0,3, allo 0,4 e allo 0,8 per cento del PIL: un moltiplicatore particolarmente basso, forse dovuto al fatto che la NADEF tiene già conto del fatto che l’Italia dovrà contribuire a finanziare gli stessi fondi di cui usufruirà.

Ma se anche volessimo essere generosi, e volessimo considerare tutti e 80 i miliardi un reale trasferimento netto (cosa che non è), staremmo comunque parlando di una cifra estremamente esigua: 80 miliardi spalmati fino al 2026 rappresenterebbero nella migliore delle ipotesi uno “stimolo” pari all’incirca all’1 per cento del PIL all’anno, a fronte di un crollo del PIL del 10 per cento circa nel 2020 e di un tasso di crescita che rischia di tornare ai livelli pre-COVID solamente nel 2025. Tanto per fare le dovute proporzioni, stiamo parlando di una cifra (80 miliardi in sei anni) inferiore al deficit aggiuntivo stanziato dal governo nel solo 2020 (circa 110 miliardi).

Per quanto riguarda i prestiti NGEU, la situazione è ancora più pietosa. Non solo parliamo per l’anno prossimo della risibile cifra di 25 miliardi, a fronte di un fabbisogno dello Stato italiano di quasi 500 miliardi solo nel 2021, ma buona parte di questi non andranno a finanziare nuovi progetti di investimento ma a sostituire il finanziamento in deficit da parte del Tesoro di spese già previste, nonché a rinnovare i titoli in scadenza. Effetto addizionale dunque nullo, se non per un minuscolo risparmio di spesa per interessi (lo ripetiamo: 25 miliardi nel 2021 a fronte di un fabbisogno di 500 miliardi). Come si legge nella bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), «per i prestiti si ipotizza che una quota (40 miliardi) venga usata per iniziative additive», mentre «la restante parte venga utilizzata per finanziare investimenti e altre misure che sarebbero state supportate da risorse nazionali». Insomma, sui 127 miliardi di prestiti destinati all’Italia, una quota significativa pari al 70 per cento (88 miliardi) sarà meramente sostituiva rispetto a risorse già stanziate a livello nazionale. In altri termini, ogni euro di questi 88 miliardi di debito pubblico “europeo” sarà un euro in meno di fondi raccolti tramite il debito pubblico “ordinario”, con un impatto aggiuntivo sull’economia italiana pari a zero. Un’operazione, insomma, che non darà alcuno stimolo alla ripresa ma che serve solo a vincolare ulteriormente l’Italia alla UE attraverso la catena del debito.

Per quanto riguarda i prestiti, come detto, le risorse aggiuntive ammonteranno a soli 40 miliardi in sei anni. Briciole. Il cui già debole effetto espansivo però rischia di essere del tutto vanificato dal fatto che questi fondi, andando a pesare non solo su debito ma anche sul deficit, dovranno essere «compensati da riduzioni di altre spese o aumenti delle entrate [al fine di] riequilibrare la finanza nel medio termine dopo la forte espansione del deficit», come si legge nel PNNR. Come hanno recentemente chiarito i ministri delle Finanze riuniti nell’Eurogruppo, infatti, «quando la situazione epidemiologica ed economica lo consentirà», gli Stati membri dovranno «perseguire politiche fiscali prudenti nel medio termine, assicurando la sostenibilità del debito e gli investimenti allo stesso tempo». Insomma, un progressivo ritorno alle regole di bilancio pre-pandemia.

Non a caso la succitata Nota di aggiornamento al DEF prevede che entro il 2023 il nostro avanzo primario torni in pareggio e il nostro rapporto deficit/PIL scenda sotto la soglia “critica” del 3 per cento su cui si è costruito la logica del Fiscal Compact. Come commenta l’economista Gustavo Piga: «Non sono infatti numeri casuali: sono frutto di quella promessa che il governo italiano ha fatto, implicita nell’accordo sottostante al Recovery Fund, che l’Italia accede a questi fondi purché… si cimenti nell’austerità richiesta dall’Europa appena fuori dal COVID. Con una mano si dà, con l’altra si leva. Cosa si leva? La crescita».

La trappola sta tutta qui: da un lato si chiederà all’Italia di continuare a tagliare le spese (e dunque di ridurre l’entità della spesa pubblica sotto il proprio controllo) e/o aumentare le tasse per finanziare il nostro avanzo primario e lo stesso NGEU (di cui siamo contribuenti), mentre dall’altro ogni nuova spesa verrà a dipendere dal programma NGEU e quindi “passerà” per Bruxelles. Una follia sia dal punto di vista economico che politico.

Questo ci porta alla questione delle famigerate condizionalità. È paradossale che molti di quelli che hanno (giustamente) alzato barricate contro il MES “pandemico”, che a ben vedere di condizionalità ne prevedeva relativamente poche (ma non per questo era meno pericoloso), sono gli stessi che oggi plaudono al cosiddetto Recovery Fund, che a ben vedere prevede condizionalità molto più stringenti.

I paesi beneficiari delle risorse UE, infatti, dovranno rispettare le raccomandazioni specifiche per paese (country-specific recommendations) della Commissione, che abbracciano praticamente ogni aspetto della politica economica dei paesi membri – politica fiscale, mercato del lavoro, welfare, pensioni ecc. –, oltre ai nuovi obiettivi (“Green Deal” e digitalizzazione), in linea con la sorveglianza rafforzata dei bilanci nazionali prevista dal Semestre europeo. Riforme strutturali, insomma. Per avere un’idea del tipo di “raccomandazioni” di cui parliamo, si consiglia la lettura di un recente rapporto commissionato dall’europarlamentare della Linke Martin Schirdewan, che si è preso la briga di studiarsi tutte le raccomandazioni formulate dalla Commissione europea nell’ambito del Patto di stabilità e crescita e della Procedura per gli squilibri macroeconomici tra il 2011 e il 2018.

I risultati sono da far accapponare la pelle. Lo studio mostra come, oltre ad insistere ossessivamente sulla riduzione della spesa pubblica, la Commissione si sia concentrata in particolare sulla riduzione della spesa relativa alle pensioni, alle prestazioni sanitarie e all’indennità di disoccupazione, oltre a chiedere il contenimento della crescita salariale e la riduzione delle misure di garanzia della sicurezza sul lavoro. In particolare, dall’introduzione del semestre europeo nel 2011 fino al 2018, la Commissione ha formulato ben 105 raccomandazioni distinte nei confronti degli Stati membri affinché aumentassero l’età pensionabile e/o riducessero la spesa pubblica relativa alle pensioni e all’assistenza per gli anziani. Inoltre, ha anche formulato 63 raccomandazioni ai governi affinché riducessero la spesa per l’assistenza sanitaria e/o esternalizzassero o privatizzassero i servizi sanitari. Infine, la Commissione ha formulato 50 raccomandazioni volte a reprimere la crescita dei salari e 38 raccomandazioni volte a ridurre la sicurezza sul lavoro, le tutele occupazionali contro il licenziamento e i diritti di contrattazione collettiva di lavoratori e sindacati.

Storicamente, però, alla Commissione sono sempre mancati strumenti idonei per obbligare gli Stati al rispetto delle proprie disposizioni. Un “difetto” a cui Bruxelles spera di supplire proprio con il programma NGEU, che per la prima volta offre alla Commissione un dispositivo efficacissimo per imporre le proprie raccomandazioni anche ai governi più recalcitranti, riassumibile nel concetto “niente riforme, niente soldi”. Se qualcuno avesse dei dubbi sul fatto che le priorità della Commissione, nonostante la pandemia, le sono le stesse di sempre, si tenga a mente che l’esecutivo europeo ha già fatto sapere alla Spagna che il suo accesso ai fondi sarà condizionato a una riforma del suo sistema pensionistico che ne garantisca la “sostenibilità”: in una parola, tagli.

Il governo italiano, dal canto suo, si è portato avanti, annunciando che “Quota 100” non sarà rinnovata. Difficile non vedere un collegamento con il programma NGEU. Nelle sue raccomandazioni dell’anno scorso, infatti, la Commissione europea invitava esplicitamente l’Italia ad «attuare pienamente le passate riforme pensionistiche», ossia la Legge Fornero, «al fine di ridurre il peso delle pensioni nella spesa pubblica». Più chiaro di così si muore. Conte sapeva benissimo che perché l’Italia possa avere accesso ai fondi NGEU la prima cosa da fare era eliminare “Quota 100” e si è dunque portato avanti col lavoro. Un assaggio di quello che verrà.

Come se non bastasse, gli olandesi hanno insistito per includere nell’accordo un “super freno di emergenza”, che permetterà a uno o più Stati membri di appellarsi al Consiglio europeo (che avrà l’ultima parola, con voto a maggioranza qualificata) per bloccare gli esborsi a un altro paese, se insoddisfatti delle riforme richieste da Bruxelles o della loro attuazione. Non un vero e proprio diritto di veto, ma comunque qualcosa che lascerà l’esborso dei fondi in una situazione di perenne incertezza politica. E già sono arrivati i primi “avvertimenti”. Come ha chiarito il ministro degli Esteri olandese Stef Blok durante un recente incontro istituzionale a Roma: niente riforme, niente soldi. «Finora – ha sottolineato Blok – l’erogazione dei fondi europei non era vincolata alle riforme. Il Recovery Fund introduce questa nuova condizionalità: abbiamo imparato la lezione».  

Questa è la vera polpetta avvelenata del Recovery Fund: l’usurpazione definitiva di quel minimo di autonomia di bilancio – e dunque di democrazia – che ci era rimasta e il rafforzamento del carattere oligarchico della UE, attraverso l’accentramento di ulteriore potere nelle mani di istituzioni anti-democratiche quali la Commissione europea. Finalmente, a colpi di crisi e di emergenze (spesso e volentieri costruite a tavolino), le élite nordeuropee sono riuscite ad ottenere, con la complicità di una classe dirigente italiana venduta e pusillanime, quello che vanno agognando da sempre: un controllo politico totale della politica economica dei paesi mediterranei e in particolare dell’Italia. E il tutto in cambio in due spicci che in condizioni di sovranità monetaria potremmo tranquillamente creare a costo zero. Chapeau.

Rimane solo un ultimo ostacolo da superare. Oggi la BCE, per ragioni di mera stabilità di sistema, si vede costretta a comportarsi quasi come una “vera” banca centrale, offrendo un sostegno incondizionato ai titoli di Stato dei paesi membri, di fatto monetizzando tutto o quasi il nuovo debito di nazioni come l’Italia, e permettendo ai governi di finanziarsi “sui mercati” – o meglio, nei fatti, presso la banca centrale –, come fanno un po’ tutti i paesi “normali” del mondo. In una situazione come questa, diventa più difficile per le forze unioniste convincere gli Stati membri a mettersi volontariamente al collo il cappio di strumenti come il Recovery Fund o il “nuovo” MES.

In altre parole, se i governi europei possono finanziarsi sui mercati senza subire il ricatto dello “spread” (che, come detto, è controllato dalla BCE), rischia di venir meno tutto il meccanismo di controllo e disciplina su cui fonda l’architettura dell’eurozona, e a cui si ispirano tutti gli strumenti di debito dell’UE, anche e soprattutto NGEU. Questo vale non tanto per l’Italia, la cui classe dirigente è più europeista del re, ma per altri paesi che cercano di conciliare l’appartenenza alla gabbia dell’euro con un minimo di autonomia economico-politica. Non a caso Spagna e Portogallo hanno già annunciato di voler rinunciare alla parte di prestiti previsti per loro all’interno del programma NGEU.

Urge, dunque, riportare i governi (e dunque i cittadini) nei ranghi, senza però mettere a rischio la solvibilità degli Stati (e dunque la tenuta della zona euro) con cambiamenti troppo bruschi. Ecco dunque la soluzione accarezzata da certi ambienti europei, secondo Reuters: «offrire un sostegno meno generoso [da parte della BCE] ai governi indebitati [per mezzo di un ritorno al programma pre-pandemia] per spingerli a richiedere i prestiti dell’Unione europea». Come scrive Il Fatto Quotidiano: «Evidentemente si spera che il segnale di “normalizzazione” faccia effetto sui mercati facendo salire gli spread e spingendo Italia, Spagna eccetera nelle braccia dei prestiti del programma Next Generation EU (se non del famigerato MES)».

Questo è stato poi confermato da una fonte molto autorevole, Yves Mersch, membro del board della BCE che ha da poco terminato il suo mandato, che ha dichiarato: «Sembrerebbe che alcuni paesi stiano valutando di non fare affidamento sui prestiti europei, ma preferirebbero piuttosto fare affidamento sull’emissione di titoli di debito nazionale, che poi verrebbero acquistati dalla BCE. A mio parere, questo necessiterebbe di una reazione da parte della BCE, che non può essere utilizzata per aggirare le misure che sono state messe in atto a livello europeo».

Sarebbe ingenuo pensare che si tratti semplicemente delle opinioni di un singolo. Il fatto che oggi si torni a parlare di MES è la dimostrazione di quanto fossero infondate le speranze di chi si illudeva che la sospensione del Patto di stabilità e il nuovo corso della BCE rappresentassero una rivoluzione di lungo termine nell’assetto istituzionale della zona euro. La verità è che nelle segrete stanze di Bruxelles e di Francoforte si discute da tempo di come porre fine all’attuale stato di “normalità eccezionale” per tornare a quello stato di “eccezionalità normale” che è la stessa ragion d’essere dell’euro: determinare una situazione di scarsità artificiale di denaro, attraverso una netta separazione istituzionale tra governi e istituto di emissione, per giustificare l’imposizione di politiche di stampo neoliberale (smantellamento del welfare, privatizzazioni, deregolamentazione del mercato del lavoro ecc.).

L’obiettivo è dunque tornare quanto prima a una situazione in cui la BCE torni a fare – caso unico nel panorama delle banche centrali – lo “spacciatore di ultima istanza”, laddove cioè l’intervento calmierante della banca centrale sia subordinato alla sottoscrizione di un memorandum d’intesa, de jure o de facto, con la UE, per mezzo di strumenti come NGEU o MES, al fine di sottoporre gli Stati a una sorta di “amministrazione controllata” attraverso le famigerate “condizionalità”. Nel futuro prossimo possiamo dunque aspettarci che la BCE, con la scusa che è passata la fase emergenziale, inizierà progressivamente a ridurre i propri acquisti di titoli pubblici, non lasciando altra scelta agli Stati ancora in forte disavanzo e con un alto debito, come lo sarà l’Italia, a ricorrere ai prestiti europei.

Ancora una volta, in Europa, era necessario che cambiasse tutto affinché non cambiasse nulla.

Di: Thomas Fazi

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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