La crisi politica (se così davvero la si può correttamente chiamare) che vive il nostro Paese in questi giorni, distratto dalle gravi notizie che giungono dagli Stati Uniti d’America, totalmente immerso nella secondo anno pandemico, pretenderebbe di essere almeno formalmente legata a ragioni di carattere sociale, di tutela degli interessi comuni.

La retorica imbarazzante di alcuni settori della maggioranza di governo fa sguaiatamente il paio con l’improponibile ruolo di opposizione esercitato da forze di minoranza che in patria non fanno altro se non copiare le reazioni delle altre destre europee alle mosse dei governi liberali di centro o di centro-sinistra che siano, ma non muovono un dito per redigere un programma alternativo, esporre proponimenti che incalzino anche gli esecutivi nazionali.

Addirittura, in un momento in cui l’Italia si trova in un passaggio cruciale della vita istituzionale (e non solo), leader dell’opposizione si concentrano sul crepuscolo degli dei trumpiani, si mostrano sui social a sostegno della decadenza dell’impero americano, dando prova di una lungimiranza veramente notevole, tempestiva nel sostenere a pieni polmoni un presidente che rischia di essere estromesso dalla sua carica per attentato alla Costituzione degli Stati Uniti.

Sembra che la crisi di governo, voluta da Renzi e sottovalutata ampiamente da Conte, si terrà in un contesto dove molto poco varranno le visioni di lungo termine entro cui inserire un piano di riconversione sociale dell’attuale stato di disgregazione popolare, di atomizzazione economica e di separazione del corpo delle istituzioni dalle problematiche diffuse nella vastità trasversale di un ceto medio che si impoverisce e di un mondo del lavoro dipendente che resta in balia degli eventi tutt’altro che rassicuranti.

Nonostante i tanti interventi messi in campo per tamponare gli effetti della pandemia sul piano strutturale, vi è da considerare anche la stanchezza veramente emotiva, psicologica e singolarmente vissuta da ciascuno di noi: anche in questo frangente, una se non grande, quanto meno ampia visione della ripresa del Paese attraverso strumenti di intervento normativo che rimettano in essere un po’ di equità fiscale (ad esempio…) permetterebbe a fasce della popolazione non certo irrilevanti di sopportare meglio le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria e di intravedere un po’ di speranza in questo 2021.

Invece, senza nessunissimo approccio ideologico di fondo, senza una dimensione programmatica concreta ma solo con in mano piani di redistribuzione delle necessarie risorse europee, tanto in prestito quanto a fondo perso, il governo si appresta a passare ore di sospensione del giudizio renziano sulla propria sorte, mentre dal Quirinale viene una apertura ad un rimpasto ampio, che scongiuri lo scioglimento delle Camere e il ricorso al voto.

L’impressione è che Conte stia tatticizzando troppo i contrasti interni al governo e che stia anche sopravvalutando il proprio ruolo di “insostituibile“, pur avendo delle ragioni dalla sua in questo senso: effettivamente, come sostenuto da esponenti del Partito democratico, il funambolo capace di tenere tutti sull’asse di equilibrio in questo momento è e resta l’”avvocato del popolo“.

Ogni altra ipotesi, per quanto risolutiva possa essere, per quanto si possa richiamare al tecnicismo più che al ruolo fortemente politico incarnato da un governo, su delega parlamentare e indirettamente popolare, non avrebbe speranza di reggersi sull’attuale maggioranza se non modificandone i limiti perimetrali, allargandosi a parte delle opposizioni e inscenando un paternalismo peggiore di quello di Conte, tutto affidato all’esigenza della patetica retorica del “governo di unità nazionale“.

La battaglia di potere che si è aperta in seno all’esecutivo, se questo vuole rimanere alla guida del Paese fino a fine legislatura e fino a fine pandemia (soprattutto), deve concludersi non con un armistizio ma con una pace sancita da un nuovo trattato che non potrà essere altrimenti scritto se non con parole che spostano ulteriormente a destra l’asse del governo, ma non necessariamente in chiave populista.

Visti i tempi, visto l’espandersi di questo fenomeno turbativo delle formalità oltre che delle sostanzialità democratiche (laddove se ne intravedono pallide fisionomie), una crisi di governo dovrebbe mettere al suo primo punto un denominatore comune che avesse come perno il punto di vista sociale nell’affrontare le differenti tematiche su cui balla sul vulcano oggi l’intera Italia: la redistribuzione dei fondi del Recovery Fund è apprezzabile laddove si implementano le voci che riguardano la sanità, la scuola e i settori pubblici fondamentali per la resistenza oggi e la ripresa domani del Paese.

Ma non avrà nemmeno le più pallide sembianze di una riforma strutturale e tanto meno di una riforma sociale, proprio perché isolata dal contesto di una programmazione molto più elaborata e particolareggiata di un nuovo rapporto tra economia e politica, tra economia e società.

La difficoltà a riconoscere in questo governo tracce di sinistra sta proprio nell’assenza di una determinazione progressista ad agire in tal senso: da un lato vi è piena aderenza ai dettami liberisti quando si tratta di fronteggiare le proteste padronali e confindustriali; dall’altro non si disdegna qualche accenno populista se si deve invece fare ricorso alla demagogia spicciola per calmare gli animi popolari, ma non certo per metterli al sicuro dalla propaganda becera dei sovranisti di casa nostra.

Questa non è una politica che Santa Dorotea benedirebbe cristianamente nel nome dell’equidistanza tanto da qualsiasi pericolo progressista moderno quanto dal nazionalismo autarchico di matrice leghista e neofascista. E’ un tatticismo che riduce sempre più i margini di manovra del Presidente del Consiglio, che lo rende ostaggio di una maggioranza che, parimenti, è costretta a sopportarne la presenza per mancanza di un miglior collante.

La precarietà di una condizione di questo tipo della politica italiana non può portare a nulla di buono nel prossimo futuro. Chi ha aperto la crisi per ridisegnare i propri spazi all’interno dell’esecutivo e dei posti di potere nello Stato ha le sue responsabilità conclamate.

Ma chi esclude un ricorso a politiche sociali incisive e preferisce duettare ancora alternativamente con liberisti da un lato e populisti dall’altro, non pensi di poterne uscire vincitore anche se arriverà a fine mandato: il logorio della simbiosi creatasi, della saldatura tra finte sinistre e presunte destre trascinerà con sé chi forse poteva essere una nuova figura scompaginante l’alternanza innaturale tra i poli politici in Italia.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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