Per primo ha lanciato l’allarme il quotidiano Liberation, poi ha ripreso l’argomento anche il più prudente e autorevole Le Monde: la tattica del “fronte repubblicano” è ormai respinta da una buona metà degli elettori che si dichiarano di sinistra.

di Franco Ferrari – Transform! Italia

Sono almeno tre i sondaggi effettuati nelle settimane scorse che tendono a dare risultati coincidenti. Di fronte alla prospettiva di una riproposizione del ballottaggio tra il Presidente in carica Emmanuel Macron e la candidata dell’estrema destra Marine Le Pen, un numero sempre più di ridotto degli elettori delle forze politiche di sinistra ed ecologiste pensa di doversi schierare comunque contro la Le Pen. Questa dinamica è più evidente tra i sostenitori di Jean-Luc Melenchon, che anche nel 2017 non aveva dato indicazioni di voto al ballottaggio, ma trova un forte riscontro anche fra socialisti e verdi.

Macron “presidente dei ricchi” e della destra liberale

In questa dinamica pesa la valutazione, presente in quel circa 30% di elettori che si colloca a sinistra, di Macron come espressione dell’establishment economico-finanziario. L’attuale Presidente proviene dalla destra del Partito Socialista ed è sembrato, ad un certo punto della sua carriera, poter diventare il delfino designato di François Hollande. Di fronte all’esito disastroso dell’ultima presidenza socialista ha pensato di dar vita ad un nuovo movimento (la Republique En Marche) che ha goduto del forte appoggio del mondo della finanza e dell’economia, riuscendo contemporaneamente a cavalcare un certo rifiuto populista della tradizionale divisione destra-sinistra. Si è trattato in questo caso di un populismo dei ceti benestanti, piuttosto che delle periferie abitate dai cosiddetti “perdenti della globalizzazione”.

La sua politica è ispirata dalla visione di una modernizzazione liberista dell’economia e della società francese, considerata ancora troppo condizionata da valori sociali di tradizione repubblicana. Quell’intreccio prodotto storicamente dallo spirito rivoluzionario dei giacobini, unito alla spinta sociale simbolizzata dalla stagione del “fronte popolare”. Una modernizzazione portata avanti con arroganza ed evidente disprezzo per le condizioni di vita dei ceti popolari.

Anche da qui è nato il movimento dei “gilet gialli” che, per un momento, è sembrato seminare il terrore tra le classi dominanti. Ma i “gilet gialli”, incapaci di produrre una leadership credibile e di delineare un insieme di obbiettivi condivisi, si è progressivamente trasformata in una “jacquerie”, una protesta via via più radicale nei modi d’azione e sempre più ristretta nella possibilità di aggregare un consenso che all’inizio era stato molto alto. Sull’esaurimento della protesta ha certamente pesato anche la durezza della repressione.

Macron ha avuto, in coincidenza con l’ascesa dei “gilet gialli”, una forte caduta nel consenso. Ma il riflusso delle proteste, la mancanza di un’alternativa politica adeguata, l’arrivo della pandemia da Covid19 hanno consentito al Presidente in carica di recuperare un rapporto meno conflittuale con la maggioranza dei suoi concittadini. Non è certamente amato, ma è un po’ meno odiato di quanto non fosse un paio di anni fa.

A sinistra è considerato, alla prova dei fatti come un Presidente di destra. D’altra parte i suoi primi ministri e diversi dei componenti di maggior peso dei suoi governi, sono stati reclutati tra le file del gollismo. Non sono mancate alcune misure di sostegno sociale, ma queste, dato il contesto di un’egemonia liberista traballante, non le nega nessuno.

Rispetto alla destra del Rassemblent National (ex Front National) della Le Pen, Macron rivendica una forte impronta europeista. Il suo asse con la Merkel ha effettivamente consentito all’Unione Europea di affrontare la crisi della pandemia con strumenti diversi dalle ricette austeritarie adottate una decina di anni fa. L’idea di un’Europa in grado di delineare una propria “autonomia strategica”, concetto fatto proprio da Macron, tale da poter giocare un ruolo indipendente nella partita tra Stati Uniti e Cina, resta per ora sulla carta. Il richiamo a costruire un fronte ideologico atlantista e anti-cinese e ad avviare una nuova “guerra fredda” è in questo momento molto forte, e l’establishment europeo sembra incapace di resistere. Per altro mancano i “campioni” di una politica di autonomia, visto che la Merkel è al tramonto, Macron resta debole e Draghi pare del tutto allineato al vecchio atlantismo subalterno verso gli Stati Uniti.

La Le Pen non è più il “diavolo”

Sul fronte destro, la Le Pen ha ottenuto, dal suo punto di vista, alcuni risultati importanti nella direzione di quella che i commentatori chiamano la “dediavolizzazione” (traduco un termine francese di cui probabilmente non esiste traduzione). Ha cambiato nome al partito sostituendo la parola Fronte, che ricorda la contrapposizione militare, con quella di Rassemblement, che punta invece sull’idea accogliente del “tutti insieme”. Termine che oltre tutto piaceva al generale De Gaulle.

Ha cercato di fornire un profilo più rassicurante. Non ha cavalcato più di tanto il movimento dei gilet gialli (la sinistra ha cercato di farlo, ma con scarsi benefici). Sulle questioni economiche ha preso posizioni compatibili con il pensiero della destra tradizionale. Ad esempio sul tema, molto discusso in Francia, della cancellazione da parte della Banca Centrale Europea del debito pubblico maturato per effetto del Covid (sostenuto da Melenchon), ha espresso lo stesso scetticismo prevalente negli ambienti economico-finanziari.

I temi centrali della sua campagna politica restano sempre gli stessi (ostilità all’emigrazione, rifiuto del multiculturalismo, euroscetticismo, etno-nazionalismo, moderato protezionismo) ma sulle questioni sociali e sulla “protezione” dei ceti popolari, purché “nativi”, può anche permettersi di collocarsi “a sinistra” di Macron.

La sua presenza sulla scena politica ormai non suscita più il rigetto che aveva colpito il padre (da tempo allontanato dal partito) e all’inizio anche la stessa Marine. Questo non significa che il meccanismo del “fronte repubblicano”, ovvero la convergenza di tutti nel fermare una forza politica che è ancora considerata erede del collaborazionismo di Vichy, non funzioni più. Lo si è visto in alcune elezioni locali nelle quali la sinistra ha scelto di ritirare i propri candidati per sostenere l’unico in grado di fermare il Rassemblement National. Questa convergenza si è per lo più realizzata a favore dei candidati Republicaines (il partito della destra di tradizione gollista). Ma come abbiamo visto una parte crescente di elettori di sinistra è sempre più stanca di doversi “turare il naso”.

La sinistra ancora in ordine sparso

I sondaggi sono abbastanza convergenti nel prevedere che nel maggio del 2022 i candidati che arriveranno in testa al primo turno saranno Macron e la Le Pen, anche se nessuno dei due si avvicinerà alla soglia del 30% al primo turno. Il candidato gollista risulterà probabilmente schiacciato tra due “offerte politiche” che pescano in modo diverso sull’elettorato dei Republicaines e al momento questo partito non dispone di candidature forti. Al punto che vi era chi sperava in un ritorno sulla scena dell’ex Presidente Sarkozy. Un’ipotesi resa più complicata dalla recente condanna per i suoi rapporti illeciti con la Magistratura per sottrarsi alle indagini avviate nei suoi confronti.

Il quadro a sinistra resta complicato. Jean-Luc Melenchon, prova per la terza (e presumibilmente ultima) volta a dare l’assalto alla Presidenza della Repubblica. I sondaggi lo collocano attualmente attorno al 10-11% dei consensi. E’ partito in largo anticipo e mentre gli altri potenziali candidati sono ancora nella fase della pretattica è l’unico che si rivolge apertamente agli elettori e può martellare quotidianamente i propri temi.

Il candidato “Insoumis” ha dalla propria l’abilità comunicativa e retorica, l’uso intelligente delle tecnologie digitali (ricordiamo nella precedente campagna elettorale il ricorso ai comizi in ologramma). Finita l’esperienza del Front de Gauche ha sempre ritenuto che non funzionasse la “soupe de sigles”, la messa insieme di tutte le forze politiche prodotte dalla frammentazione a sinistra. Ha puntato sul rapporto diretto leader-popolo cercando di sottrarsi all’incasellamento nella nicchia della “sinistra radicale”. Questa strategia ha funzionato in parte. Sicuramente ha occupato uno spazio abbastanza solido ritagliato dalla duplice crisi delle formazioni tradizionali, a destra i socialisti, a sinistra il PCF. France Insoumise resta però una costruzione priva di strutture democratiche, in cui le decisioni, a partire da quella di Melenchon di ricandidarsi, sono prese dallo stesso Melenchon.

Le altre forze politiche si troverebbero nella condizione di doversi sottomettere ad una candidatura alla cui formulazione non hanno partecipato e a favore di un programma che non hanno scritto insieme. La replica degli Insoumis, non priva di fondamento, è che d’altra parte il confronto preliminare non avrebbe portato a nulla perché ogni forza politica punta a difendere i propri spazi.

Melenchon punta su una dinamica che lo imponga come l’unica alternativa possibile alla ripetizione del duello Macron-Le Pen. Intanto il PCF ha deciso di presentare il segretario del partito Fabien Roussel. Quando è stato eletto segretario, nel 2018, al posto di Pierre Laurent, era stato appoggiato proprio dalla componente più identitaria che riteneva fondamentale la presenza del Partito al primo turno delle elezioni presidenziali. La decisione definitiva verrà presa con un referendum degli iscritti che si terrà ai primi di maggio. Al momento i sondaggi lo vedono fermo a percentuali molto basse (1-2%).

Non c’è dubbio che per i comunisti la presenza alle presidenziali sia anche vista come trainante rispetto alle successive elezioni parlamentari nelle quali il partito punta a confermare un proprio gruppo parlamentare. Senza questo il PCF rischierebbe un’ulteriore perdita di peso. La sua influenza, per quanto ridotta, regge ancora grazie all’insediamento territoriale garantito dalle amministrazioni locali e dei deputati e senatori di cui dispone. In vista delle parlamentari, il PCF ha proposto un accordo unitario a sinistra per la ripartizione delle candidature. Senza cadere nel “retroscenismo” si può anche ipotizzare che a fronte di un’intesa su questo versante, la candidatura presidenziale di Roussel, soprattutto se i sondaggi continuassero ad essere sfavorevoli, potrebbe essere rimessa in discussione. Le candidature alle presidenziali richiesto un certo numero di sottoscrizioni da parte di eletti locali. Il PCF non ha problemi a raggiungere il numero necessario, mentre La France Insoumise, che ha curato poco l’insediamento elettorale a livello locale potrebbe avere qualche problema. Nel 2017, il Partito Comunista diede il via libera alla sottoscrizione della candidatura di Melenchon solo in extremis per far pesare i rapporti di forza istituzionali.

Socialisti ed ecologisti (EELV) non hanno ancora presentato il proprio, eventuale, candidato. Per i primi è emersa la pre-candidatura della sindaca di Parigi Anne Hidalgo, che governa in alleanza con i comunisti e con i verdi (ultimamente non sono mancate le tensioni con questo partito). I sondaggi la collocano attorno al 7-8%. Ma i socialisti non escludono di convergere su una proposta unitaria che li associ all’EELV. Il nome che circola più ampiamente in questo ambito è quello di Yannick Jadot, anche lui collocato in un range di preferenze non molto diverso da quello della Hidalgo, ovvero il 7-8%.

La somma dei consensi dei candidati che si collocano a sinistra di Macron sarebbe tale da poter competere per arrivare al ballottaggio, ma le differenze politiche sono consistenti e sembra comunque difficile che uno dei candidati attualmente in campo (già formalizzati o meno) possa realmente rappresentare un punto di unione.

Entro giugno (Covid permettendo) si voterà per le regioni e in una circoscrizione di Parigi. Per ora solo la Hauts-de-France ha consentito di arrivare ad una proposta unitaria della sinistra attorno alla candidatura di una ecologista. Per il resto si tende ad andare in ordine sparso anche se qua e là si formano alleanze parziali tra alcune delle quattro formazioni principali della sinistra. Configurazioni spesso pensate in relazione a quella che è considerata la partita vera, le presidenziali del 2022. Nella Hauts-de-France la France Insoumise aveva bloccato un possibile ruolo di capolista del segretario comunista Roussel, per evitare che acquisisse troppa visibilità in vista dell’anno prossimo. A Parigi si voterà in una delle circoscrizioni più orientate a sinistra, quella del quartiere di Belleville e del Pere Lachaise ed ogni formazione presenta un proprio candidato. L’esito di queste sfide potrà determinare una possibile ricomposizione sulla base di rapporti di forza aggiornati.

Al di fuori di queste manovre politiche, resta il problema di fondo che riguarda progetto e identità di una forza di sinistra che possa tornare a competere nel sistema politico rompendo la polarizzazione tra la destra dei quartieri alti e la destra delle zone rurali. Le due tradizioni storiche, quella socialdemocratica come quella comunista sono diventate fortemente minoritarie. Le forze nuove che si sono affermate in alternativa sono quella populista e quella ecologista moderata, ma per il momento nessuna delle due si è dimostrata in grado di affermarsi come forza egemone nel campo della sinistra e di ritornare a radicarsi tra le classi popolari e subalterne.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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