Probabilmente l’insegnante che ha chiesto ad una sua allieva di bendarsi gli occhi per evitare qualunque tipo di tentazione nello sbirciare appunti o foglietti da casa, nelle lezioni in didattica a distanza, non ha mai visto né la locandina del film di Marco Bechis “Garage Olimpo” e nemmeno il film stesso. Se l’avesse vista e non le fosse balzato alla mente il tremendo parallelo tra la Maria Fabiani, bendata nell’Argentina di Videla e dei desaparecidos, e la studentessa bendata nella sua camera-studio, allora l’eccesso di zelo richiamato dai dirigenti scolastici per stigmatizzare l’episodio (non unico a quanto pare…) sarebbe caricato di una aggravante.
Si tratta di un paragone puramente “figurativo“, una similitudine quasi artistica, come un quadro richiama una situazione reale, dell’oggi o una immagine qualsiasi nei nostri ricordi ci riporta nella stessa mente a mettere a confronto quasi un déjà vu esclusivamente iconico, eppure accattivante nella sovrapposizione quasi perfetta di figure, di espressioni inespressive come quelle che possono avere due ragazze che vengono anzitutto costrette a fare qualcosa contro la propria volontà, private del diritto alla fiducia da un lato e dei diritti fondamentali umani e civili dall’altro.
Il paragone figurativo tra Maria Fabiani rinchiusa nella prigione dell’Olimpo e la studentessa bendata finisce qui. Ma “Garage Olimpo” va visto e rivisto, partendo dal nome che è già una dicotomia di per sé: un garage, un luogo non certo paradisiaco come quello degli dei ellenici; non in alto, sopra le nuvole del monte sacro, ma nelle viscere profonde del buio di una dittatura militare fascista, che in tanti garage, nascosti da una semplice saracinesca, imprigiona, tortura spietatamente ogni oppositore sociale, politico ed intellettuale per farlo poi sparire nelle fredde acque gelide dell’oceano.
La nostra studentessa bendata, per fortuna, vive altrove, in un altro tempo, nel futuro rispetto all’Argentina di Videla. Può studiarla, magari senza alcuna sciarpa o fazzoletto impostole sugli occhi. Tutti, tutti davvero abbiamo copiato qualcosa nella vita, oltre che a scuola: modi di dire, atteggiamenti, ricette di cucina, pensieri, frasi, comportamenti di ogni tipo. Ogni giorno siamo dei “significanti” che hanno in bocca quel sasso lacaniano detto “significato“, per cui il linguaggio vale prima di tutto in quanto esperienza esterna a noi stessi, che rivolgiamo prima di tutto agli altri e che per noi ottiene lo status di comprensibilità quasi a prescindere dalla nostra volontà di ricerca del sapere e della verità.
E’ una operazione così legata al confronto reciproco che, se letta alla luce dell’episodio di cui qui si tratta, riduce all’essenziale un fatto veramente antipedagogico: non soltanto perché lede i fondamentali diritti di una studentessa di essere creduta quando afferma di sentirsi preparata e di saper rispondere alle domande sullo studio del tedesco, ma prima di tutto perché proprio l’analisi di Lacan sul linguaggio (e sul suo rapporto con l’inconscio) manifesta tutta l’incongruenza della discontinuità anche visiva, ed emozionale quindi, tra i dialoganti. In questo caso tra docente e studente.
Nella costrizione all’essere bendata, per garantire qualunque esclusione del probabile imbroglio nel rispondere alle domande, si annichilisce tutto quello che è scuola oltre una semplice interrogazione, una verifica dell’apprendimento: sull’altare di una fedeltà dello studente alla propria correttezza, si inficia un rapporto di stima, di incontro tra chi insegna e chi apprende, tra chi deve dare un credito di buona fede e chi deve ricevere un debito in tal senso, meritandosi di volta in volta la stima anzitutto di sé stesso (per non aver barato al gioco) e, in questa, quella dei propri amici e compagni e degli insegnanti.
Tradotto in parole non povere ma semplici, quindi sintetiche, l’umiliazione dettata dal principio aprioristico del «Potresti anche copiare, barare, ingannare» diventa un modus operandi che squalifica il metodo dell’insegnamento e svaluta pregiudizialmente la potenzialità di qualunque apprendimento, la voglia e il desiderio di conoscenza di qualunque studentessa o studente.
Per quanto possa essere spiacevole che si bari al tavolo da gioco della scuola, che non è e non deve essere mai un azzardo, è sempre meglio imparare meno copiando qualcosa piuttosto che imparare ad essere umiliati dimenticando, per contrasto rabbioso, quasi completamente ciò che si era appreso con interesse e passione.
La pandemia ha giocato brutti scherzi ad istinti ancestrali di ogni tipo, rendendo evidenti molte nostre incertezze, spogliandole degli ipocriti abiti del benessere apparente e della tollerabilità di tutta una serie di ingiustizie che albergavano nell’orlo esterno di una coscienza acriticamente addormenta dalle effimere conquiste che il mercato e il liberismo avrebbero guadagnato a vantaggio di tutti.
Anche la scuola è rientrata a pieno titolo in questo processo di disvelamento progressivo delle fragilità che occultava, quelle meno evidenti si intende. La carta igienica mancante, i fogli per le fotocopie portati da casa, gli episodi di bullismo e la precarietà estrema di tanta parte del corpo docente erano e rimangono problemi strutturali, che domandano alle istituzioni una risposta che non viene, perché oggi la concentrazione è tutta sull’emergenza pandemica. Più che giustamente, ma questo non può essere un alibi per dimenticarsi delle lacune pregresse di una scuola pubblica troppo spesso subordinata ad interessi privati, quando non surclassata in finanziamenti e sostegni da quella privata e confessionale.
Se ti trovi in mezzo ad uno scenario così desolante, anche e soprattutto in tempo di pandemia, la didattica a distanza ti può sembrare quasi un dono dato dal cielo: quanto meno dai satelliti che gestiscono i collegamenti internettiani. Ma poi, dopo qualche settimana, scopri tu insegnante, tu studente, che la tecnologia non risolve ogni problema ma, se utilizzata impropriamente e quindi anche abusata nei tempi oltre che nei modi, può ritorcersi contro l’apprendimento stesso e mettere in pericolo qualcosa di più importante del nozionismo spicciolo troppe volte snocciolato a scuola come unico metodo di apprendimento.
La didattica a distanza ha risposto insufficientemente ad una emergenza veramente inaspettata, facendo i conti con il disagio sociale di milioni di famiglia che potevano dare ai figli non un tablet o un computer, ma solo un cellulare per potersi collegare con la classe virtuale e poter studiare. E’ ovvio che nulla giustifica le assenze arbitrarie, il cazzeggio durante la lezione, facendo finta di non avere abbastanza banda larga per poter attivare la modalità video o inventandosi chissà quali altri stratagemmi.
Ma se oggi leggiamo dati che ci dicono di uno studente su quattro che abbandona la scuola, il problema non è la probabilità che qualcuno copi dal libro di testo che ha davanti, dal fogliettino appiccicato allo schermo del computer. Ha la stessa funzione delle formule di chimica o di trigonometria che si scrivevano sulle mani gli studenti oggi quarantenni e trentenni quando la scuola era tutta “in presenza” e nessuno avrebbe mai immaginato l’esistenza della pandemia e tanto meno della didattica a distanza.
Il rimedio alle copiature e ai trucchi nelle interrogazioni non può essere una benda sugli occhi imposta dall’insegnante, un esigere che lo studente stia rivolto verso il muro di casa propria mentre viene esaminato oppure sia costretto ad avvicinarsi tanto alla videocamera del computer da inquadrargli praticamente solo il naso. Il rimedio è la messa in stato di priorità della riapertura progressiva delle scuole, con buona pace di discoteche, bagni marini, esercizi commerciali… Tutto è necessario, ma la scuola deve poterlo essere di più.
MARCO SFERINI