Perché la stampa e in generale i mezzi di informazione fanno così fatica ad individuare l’aggressore e l’aggredito nel conflitto tra Israele e Palestina? E’ una domanda che rischia di essere involutamente retorica, almeno per chi ritiene evidente prima di tutto considerare i rapporti di forza tra le parti entro il contesto tanto storico quanto attuale di una evoluzione (ovviamente in senso negativo) dei fatti. Non dovrebbe sfuggire all’acuta osservazione di nesssuno, ma nemmeno a quella pure leggermente superficiale del cittadino meno interessato possibile al problema palestinese, l’enorme sproporzione che si è via via andata facendo strada dal 1948 ad oggi tra le due parti in causa (o sarebbe meglio dire: in guerra).

Ad iniziare dal reinsediamento ebraico nelle terre del Mandato britannico sulla Palestina, l’espansionismo israeliano ha escluso di fatto qualunque ipotesi di convivenza con gli arabi presenti, autoctoni da millenni ormai; cosicché, nell’impossibilità di riconoscere pienamente e compiutamente a chi debba appartenere quel lembo di terra tra il Libano, la Siria, la Giordania e l’Egitto, l’ONU aveva optato per una soluzione condivisa, creando un mosaico di tessere non contigue tra loro ma tuttavia vicine, estremamente limitrofe e quindi destinate ad un rapporto scambievole.

Non si trattava, infatti, di un territorio immensamente vasto come può essere quello di uno stato dove convivono etnie molto differenti tra loro: un esempio fra tutti, la Russia. Si trattava di una piccola strisca di terra abbarbicata sul Mediterraneo orientale, circondata dagli ex territori ottomani e destinata a diventare uno dei maggiori centri di instabilità della regione.

La sproporzione delle forze tra israeliane e palestinesi ha iniziato a prendere forma ben visibile e distinguibile dopo la fondazione dello Stato ebraico: uno Stato che realizza in parte le aspettative del movimento sionista, tutto proteso a rifare della Palestina la “Terra promessa“, nonostante non si sappia con certezza storica dove si trovasse. I libri di storia, e persino certi atlanti storici, trattano l’Esodo come un fatto, come qualcosa di realmente accaduto nei termini descritti nella Bibbia: eppure quello che chiamiamo Mosé ha la stessa probabilità di essere esistito tanto quanto quella di un Achille o un Patroclo della narrazione epica omerica.

Uno Stato che trae la sua origine storica dal mito, dalla investitura divina di Yahweh che ne avrebbe fatto degli ebrei il “popolo eletto“, superiore quindi a tutte le altre genti della terra per il rapporto privilegiato con la divinità, e che ha permesso alla sua fragile democrazia di impregnarsi di una religiosità che dirige praticamente ogni ambito di una repubblica parlamentare che somiglia molto ad una teocrazia: ad iniziare dalle simbologie che si ripetono in tutte le sedi istituzionali e che sono ben più rimarcanti delle croci cristiane pur impropriamente esposte nelle aule scolastiche e nei tribunali del nostro Stato.

La sproporzione delle forze tra israeliani e palestinesi si tratteggia sempre meglio nei passaggi dalla fase degli “ebrei che tornano in Palestina” a quella della nascita dei cittadini israeliani stessi. E’ la creazione del Medinat Yisra’el, senza la nascita parallela di uno Stato palestinese, a sancire la prima origine di legittimità delle rivendicazioni sioniste nella zona a discapito della parte araba e a inficiare, infatti, in tutto e per tutto il piano di spartizione delle Nazioni Unite che viene superato violando le risoluzioni internazionali.

Sarà solo la prima di una lunga serie di violazioni su cui Israele costruirà la sua “sicurezza” nell’area mediorientale. Senza uno status giuridico-istituzionale, privati della maggior parte delle loro terre, i palestinesi vivono alla mercé di Israele ieri come oggi: con enormi differenze, perché nel frattempo la situazione generale e quella singolare degli abitanti della Cisgiordania e di Gaze si è fatta notevolmente più dura per il passaggio della politica israeliana dalla fase di contenimento a quella di un vero e proprio dispiego di operazioni atte a cancellare la presenza palestinese fisicamente.

In questo scenario preoccupante, denunciato dalle organizzazioni umanitarie come Human Rights Watch come un vero e proprio apartheid di Israele nei confronti del popolo palestinese, dove i più elementari diritti umani sono completamente disattesi e l’umiliazione psicologica e fisica è continua, dove la privazione di fondamentali beni come l’acqua è un prolungamento della guerra contro Cisgiordania e Gaza, dove una parte stessa delle istituzioni palestinesi è compromessa con il governo di Tel Aviv (o sarebbe meglio dire Gerusalemme Ovest), in tutto ciò la stampa e i media italiani (ma non solo loro) ritengono Israele l’aggredito.

Si vedono i razzi lanciati da Hamas e non si vede l’aviazione israeliana che bombarda Gaza, che rade al suolo un palazzo di dieci piani, che uccide donne e bambini, mentre l’esercito israeliano invade la Spianata delle Moschee, provocando nuovi scontri, alimentando volutamente la tensione ed esacerbando gli animi che stanno in quei corpi frapposti a difesa di case, vie e palazzi da cui si vorrebbero cacciare famiglie che vi abitano da oltre sessant’anni. Per ripulire Gerusalemme Est, per annetterla con un atto di vero e proprio imperialismo e di pulizia etnica.

I giornali e le televisioni vedono molto bene ciò che avviene in Palestina in queste ore e scelgono di dare un taglio filo-israeliano alle cronache per presentare l’amico dell’Occidente come l’aggredito e i palestinesi come terroristi cui piace – evidentemente – farsi massacrare, bombardare, arrestare… Così, senza alcun motivo. Se proprio se ne deve trovare uno, basta fare come il Presidente israeliano che, facendo del revisionismo attualistico, parla di “pogrom” nei confronti degli israeliani ebraici da parte degli arabo-israeliani e – naturalmente – dei palestinesi che sono terroristi per antonomasia…

La verità è la prima vittima – si dice – di ogni guerra: non fa eccezione nemmeno il conflittto israelo-palestinese. Per ristabilirne un poco già andrebbero sfatati molti miti (a cominciare da quelli religiosi…): primo fra tutti il diritto divino degli ebrei di essere gli unici abitanti della Palestina trasformata in “Terra promessa” dopo essere stata “Terra santa” per i crociati e terra di conquista per i musulmani (che la chiamano comunque al-Quds (la “città santa“). Gerusalemme è lì a dimostrare la tripartizione che vive e subisce da duemila anni: le tre religioni monoteiste lì si incontrano e si scontrano edificando monumenti che altri distruggono, erigendo templi che altri profanano, sostenendo la sacralità di un luogo che è di tutti e di nessuno.

Non è una “città aperta” se non per gli israeliani che fingono una assoluta convinzione democratica solo per la presenza del dibattito parlamentare nella Knesset e che, nei fatti, controllano ogni centimetro di suolo e ogni minuto della vita dei palestinesi. Tutto il restante pullulare propagandistico viene di conseguenza: così in Italia quasi la totalità delle forze politiche si stringe attorno al paese aggredito, capovolgendo la realtà dei fatti. Il copione si ripete da decenni: la destra israeliana oggi al potere, quella più estrema e intransigente, porta avanti una politica di provocazione quotidiana che non può essere ghandianamente accettata con un martirio del popolo palestinese.

Esiste ancora una famiglia di Nablus o di Gaza che non abbia avuto dei morti causati dal conflitto con Tel Aviv? Nella storia della lotta per l’indipendenza della Palestina è ormai indelebilmente scritta ogni azione compiuta da Israele per limitare sempre più la vita di ogni singolo palestinese. Definire tutto questo “apartheid” è riduttivo perché non circostanzia abbastanza tutte le vessazioni subite, la spregiudicatezza di una politica governativa che mira al suo scopo senza alcun discrimine e che utilizza persino il paravento della Storia per farsi scudo delle accuse che le giungono quando si assiste impotenti al genocidio di un popolo, al suo (nemmeno poi tanto) lento sterminio quotidiano.

Se ti attaccano, ti difendi. Non fosse altro, per istinto di sopravvivenza. Se ti vogliono scacciare da casa, tu quella casa la difendi. Se ti vogliono togliere l’acqua dai campi tu quegli impianti li proteggi, così come l’albero, l’ultimo rimasto in mezzo ad un deserto di desolazione, con attorno ruspe e truppe coloniali che vogliono abbattarlo per costruire nuove case, nuovi insediamenti.

Eppure, giornali e televisioni vedono nel potente Israele, tutto vaccinato e pronto alle movide estive, la vittima e nei palestinesi senza protezione dal Covid-19, senza una vita minimamente degna di essere vissuta i terroristi sanguinari che vogliono spazzare via dal Medio Oriente l’unica democrazia riconosciuta dall’Occidente e che qualcuno voleva persino candidare all’ingresso nell’Unione Europea.

La narrazione che si è andata consolidando nel tempo ormai parla di Israele come la “parte giusta” da cui stare, facendo soprattutto leva su un giustificazionismo storico che tira ammezzo la immane tragedia dell’Olocausto per evitare una operazione sia autoanalisi sia di critica generale per le politiche criminali dei governi israeliani che si sono succeduti nel corso degli ultimi trent’anni. Non si può diventare “popolo” a scapito di altri popoli. Che indipendenza è quella di Israele che esiste solo in contrapposizione alle altre nazioni? Del resto, non potrebbe essere altrimenti se si è fatto di tutto per diventare una potenza così grande da rappresentare per i propri vicini una costante minaccia.

Politici, giornalisti e intellettuali, che richiamano lo sterminio degli ebrei da parte del Terzo Reich per affermare che Israele ha diritto di esistere, non sono migliori di coloro che fanno l’odiosa equiparazione tra ebrei e nazisti. Non stanno in piedi similitudini strampalate, accomunate soltanto da una tensione ideologica che scivola pericolosamente dal giusto antisionismo al pericoloso crinale dell’antisemitismo.

Se sono ammessi parallelismi storico-attualistici, allora andrebbero considerati sulla base della coscienza e della conoscenza storica, della propria storia di popolo, comprendendo cosa significa essere circondati, perseguitati e annientati. Invece l’Olocausto viene tirato in ballo esclusivamente come alibi di esistenza, trascinato prepotentemente nella stretta quotidianità di una carneficina che finisce per contraddire chi lo utilizza a mal partito, evidenziandone tutta la strumentalità e la cattiva fede (cattiva in tutti i sensi, come il dio del Vecchio Testamento).

E’ una partita questa dove ci si deve schierare per battere anzitutto le tante verità bugiarde seminate sulla strada della lotta impari dei palestinesi per la libertà, l’indipendenza e la vita.

Non è ammessa equidistanza, perché la ragione non sta da entrambe le parti. Una ha torto e l’altra ha ragione: il torto della potenza coloniale militare contro la ragione di un popolo che combatterà fino all’ultima kefiah e che, se sarà così, sarà il peggiore marchio di infamia per quello che si reputa il “popolo eletto“, perseguitato da millanta anni, costruttore alla fine di uno Stato “democratico“. Chi è in buona fede nel credere tutto ciò, faccia uno sforzo e trovi le incongruenze macroscopiche tra l’essere degli israeliani e il non essere dei palestinesi. Gli si aprirà innanzi un mondo di crimini che durano da troppo, veramente troppo tempo.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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