Con l’arrivo della stagione invernale cresce il numero dei contagi dovuti al virus della Covid-19, mentre le campagne vaccinali si scontrano con un’opposizione in alcuni contesti sempre più agguerrita. Un punto sulle prospettive che abbiamo di fronte
A ogni ondata di Covid-19 si accompagna una parallela ondata di timori, incertezze e conflitti sociali. Il nostro paese, ma in generale il mondo intero, sta per entrare in un periodo cruciale della lotta alla pandemia: con l’arrivo delle temperature invernali e l’aumento della compresenza in luoghi chiusi, si registra un netto aumento dei contagi quasi dappertutto. Siamo, sostanzialmente, nel pieno della quarta ondata (o quinta, a seconda di come si voglia conteggiare l’andamento altalenante dello scorso inverno). Ma con uno strumento di contrasto in più: i vaccini.
Nelle prossime settimane, insomma, si potrà capire con maggiore precisione l’efficacia e la tenuta dei farmaci antivirali (il che risulta molto importante per la gestione del meccanismo dei richiami periodici). Ma, soprattutto, quello presente è forse il primo momento in cui si potrà “testare sul campo” l’effettiva percorribilità di una strategia che punti all’endemizzazione e alla convivenza con il virus della Covid-19. Se infatti i contagi sono in risalita, occorre vedere quanto ciò corrisponderà a un aumento dei decessi e dei ricoveri in terapia intensiva.
Fino a ora, le campagne vaccinali hanno consentito di mantenere questi indicatori bassi nonostante l’elevata circolazione del virus: in Italia, ad agosto di quest’anno, si sono verificati 1.158 decessi per Covid-19, quasi quattro volte tanto lo stesso periodo dell’anno scorso (quando i decessi furono “solo” 342), ma a fronte di un numero di contagi superiore di più di otto volte (190.152 contro 21.702).
Nel Regno Unito, dove le misure di distanziamento e di protezione individuale sono state tolte molto presto, si registra una diffusione dell’agente patogeno che ha raggiunto quasi i livelli di gennaio: 46.622 casi di media settimanale al 16 ottobre contro i 61.218 al primo dell’anno. Allora, però, verso la fine del mese si ebbero dei picchi di decessi di oltre 9mila morti alla settimana (9.056 il 22 gennaio) mentre ora ci si attesta attorno alle mille (974 al 22 ottobre, con una tendenza che sembra in discesa).
(foto di zhunger da Pixabay)
Si prospetta, perciò, uno scenario che potrebbe essere caratterizzato da una grossa circolazione del virus ma con una situazione sanitaria e di intasamento delle terapie intensive per buona parte sotto controllo. Di fatto, come abbiamo suggerito in precedenza, uno scenario simile agli altri quattro coronavirus ormai diventati endemici (HCoV-229E, Nl63, Oc43 e Hku1), che a ondate causano un’infezione della stragrande maggioranza della popolazione pur lasciando dietro di sé un numero di morti “tollerabile” dal sistema sanitario. Poche decine di decessi a fronte di decine di migliaia di contagi.
D’altronde, è quanto suggeriva uno studio apparso lo scorso marzo su “Science” (molto citato e anche molto travisato) in cui, stabilito che un’eradicazione totale della malattia sarebbe stata pressoché impossibile, si ipotizzavano alcune delle traiettorie della trasformazione della Covid-19 in un “comune raffreddore”.
Semplificando, l’immunità prodotta grazie ai vaccini “accompagna” questa transizione, mitigandone gli effetti in termini di morti nella fascia più debole della popolazione.
Ovviamente, il vaccino non è l’unico fattore determinante. Come sappiamo praticamente fin dall’inizio della pandemia, giocano molte altre variabili che vanno dall’età media della popolazione alla messa in campo delle misure dei lockdown e dei coprifuoco (più o meno estesi), dalla disponibilità dei posti letto in terapia intensiva dei singoli paesi all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale come le mascherine (soprattutto al chiuso) fino alle caratteristiche del tessuto socio-economico territoriale e alla frequenza e alle modalità di spostamento a esso associati.
Certo è, però, che esiste una correlazione molto stretta fra percentuale di persone vaccinate e lo scenario che si prospetta, soprattutto in termini di letalità della malattia e rischio di intasamento delle Ti: in Romania (dove il tasso di vaccinazioni è al 37%, al penultimo posto in Europa) si è toccato un paio di giorni fa il record di morti legate al Covid (591 con oltre 11mila contagi), mentre la Bulgaria (24,7% di popolazione vaccinata) registra ogni giorno oltre 300 decessi (entrambe le nazioni hanno inoltre due delle mortalità per Covid più alte al mondo, anzi considerando l’ultima settimana addirittura le più alte: 136,85 ogni milione di abitanti la Romania e 123,28 ogni milione di abitanti la Bulgaria). In generale la situazione nell’est europeo, ovvero dove i tassi di vaccinazione scendono, sembra sempre più fuori controllo: dalla Russia che si aggira attorno ai 40mila casi giornalieri con oltre mille morti (meno del 40% di popolazione vaccinata) alla Serbia in cui si parla di “catastrofe sanitaria”.
Al contrario, laddove negli ultimi due mesi c’è stato un massiccio ricorso ai vaccini (anche in quei paesi, come il già citato Regno Unito, in cui la circolazione del virus è molto elevata) l’incidenza delle terapie intensive è crollata, nonostante l’ingresso nella stagione autunnale e una generale ripresa delle attività al chiuso.
Il che non significa che tanti governi abbiano deciso di dismettere del tutto le precauzioni, anzi: in vista dell’inverno e con una tendenziale ripresa dei contagi, l’Olanda ha ripristinato l’obbligo della mascherina negli spazi pubblici e ha esteso a diversi luoghi l’uso dei cosiddetti “pass Covid”, mentre il ministro della sanità tedesco ha annunciato nuove restrizioni esprimendo “grande preoccupazione” per la situazione nel paese.
In questo quadro, si aggiungono le controverse strategie di spinta alla vaccinazione come quella del green pass, adottata fra gli altri dall’esecutivo Draghi su una scala molto vasta e causa di forte tensione sociale non solo da noi.
GREEN PASS E DINTORNI
In maniera forse un po’ imprevista, attorno ai vaccini (e al loro “succedaneo” green pass) sta nascendo uno scontro sempre più acceso che dal sanitario arriva al politico, passando per il mediatico. Le ultime settimane sono state caratterizzate da partecipatissime proteste di piazza in varie città italiane (Trieste su tutte, con la mobilitazione dei portuali, Milano, dove la massa di manifestanti ogni sabato supera le diecimila persone, ma anche Bologna, con numeri simili, e altre), che non accennano a smettere e a cui il governo risponde con una repressione crescente: nel capoluogo friulano, per via di una sospetta correlazione fra aumento dei contagi e proteste, il prefetto ha annunciato che saranno vietate le manifestazioni fino a dicembre; il leader dei portuali triestini Stefano Puzzer, inoltre, è stato raggiunto da un foglio di via di un anno dalla capitale dopo che aveva organizzato nei giorni scorsi un sit-in in piazza del Popolo; la trasmissione televisiva “Report”, che ha dedicato le ultime due puntate a presunte inosservanze di alcune case farmaceutiche sugli effetti avversi da vaccino, è stata oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte di esponenti del Partito Democratico; l’ospedale di Novara ha sospeso l’infermiera ideatrice di un corteo “no green pass” in cui i manifestanti si sono vestiti da deportati nei lager nazisti.
La cosiddetta gentle nudge – ovvero quel meccanismo di “spinta gentile” di stampo neoliberale dentro al quale è stata concepita la misura del certificato sanitario, che dovrebbe cioè indurre le persone a vaccinarsi senza che ci sia un obbligo conclamato – sta diventando insomma un vero e proprio “spintone”.
Sia da parte delle piazze sia da parte dell’esecutivo, la direzione sembra dunque essere quella di una “radicalizzazione dello scontro” il cui esito appare incerto. Tuttavia, si potrebbe quasi affermare che non ci sia “nulla di nuovo sotto al sole”.
Fin dalla loro introduzione come strumento di profilassi di massa, infatti, i vaccini hanno quasi sempre prodotto reazioni molto accese all’interno della popolazione: nel Regno Unito, la legge del 1853 che prescriveva di immunizzare tramite inoculazione tutti i bambini e tutte le bambine contro il vaiolo suscitò una forte opposizione (ben descritta nel libro della ricercatrice Nadja Durbach The Anti-Vaccination Movement in England), in seguito alla quale fu poi consentito attraverso altre leggi di multare ripetutamente chi si opponeva fino alla confisca dei beni oppure alla prigione. Come esito di questa controversia, però, si arrivò all’inserimento di una clausola di obiezione di coscienza (molto faticosa da ottenere) in merito al vaccino.
(da commons.wikimedia.org)
È vero: le proteste attuali vertono più specificamente sulla misura del green pass, e non sulla vaccinazione in sé, arrivando a coagulare tutta una serie di “attori” e di istanze eterogenee, che vanno dalla semplice avversione ai farmaci antigenici spesso condita di “complottismi” a interessi di classe di un segmento minoritario di lavoratori e lavoratrici, da una generica insoddisfazione per la gestione pandemica da parte del governo fino al “revanscismo politico” di alcune aree della cosiddetta “sinistra sovranista”.
È però altrettanto vero che esiste una forte continuità fra gli eventi delle ultime settimane e le piazze “no vax” che già avevano caratterizzato le fasi precedenti della pandemia e che, soprattutto, la manifestazione di un’opposizione irriducibile alle misure vaccinali non è un fenomeno solo italiano.
Oltre alla Francia e alla Germania, dove il “movimento” è molto agguerrito (e, a grandi linee, ha caratteristiche simili a quello italiano), se rivolgiamo lo sguardo ad alcuni dei paesi est-europei già citati in precedenza vediamo come la scarsa percentuale di persone vaccinate non risiede certo in una carenza di dosi ma in una forte “esitazione” da parte della cittadinanza, quando non in un’aperta contrarietà: in Romania così come in Serbia quasi ogni tipo di misura di contenimento ha suscitato mobilitazioni di piazza; in Romania, tra l’altro, un calo sensibile nelle vaccinazioni per altre malattie infettive come il morbillo si registrava già in periodi precedenti alla Covid-19 e pare essere legato – secondo alcuni studi – a un incremento di disinformazione tramite i social media e all’influenza della Chiesa Ortodossa.
Ma, più in generale, è chiaro che – sia per chi vi si oppone sia, in una certa misura, per i governi che caldeggiano l’applicazione su vasta scala – il vaccino è una sorta di “significante vuoto”: al di là di alcuni giustificati timori, la coercizione a inocularsi “parti di Dna” nel proprio corpo diventa un simbolo attorno a cui convogliano contenziosi di diversa natura, dal ruolo che lo stato debba avere nel gestire la salute pubblica, alla quantità di rischi che è lecito chiedere di assumersi a un individuo per tutelare l’interesse collettivo fino alla generale sfiducia nei confronti delle istituzioni e, soprattutto, nei grandi gruppi di potere come Big Pharma o – a seconda dei contesti “geopolitici” – dell’“Occidente”.
Giusto un aneddoto su quest’ultimo punto: nel 2011, nell’ambito delle operazione per la cattura di Osama Bin-Laden, la Cia organizzò una finta campagna vaccinale in una città del Pakistan in cui si riteneva che potesse nascondersi il leader di Al-Qaeda al fine di ottenere informazione sul corredo genetico della sua famiglia. In seguito si verificarono assassini nei confronti di personale sanitario “regolare” che si occupava di vaccinare la popolazione e prevenire malattie altamente dannose come la poliomielite.
(da commons.wikimedia.org)
VIE DI MEZZO
Eppure, come sintetizza la scrittrice statunitense Eula Biss nel suo libro Immunità, «l’idea che esista una via di mezzo nel campo della vaccinazione è suggestiva, ma inafferrabile». Al di là dei metodi con cui raggiungerla, ogni campagna vaccinale per essere efficace deve raggiungere una certa percentuale di popolazione, che varia chiaramente a seconda delle caratteristiche virus che si sta cercando di contenere, della situazione della sua diffusione e degli equilibri fra diritto, salute pubblica e rapporti di forza all’interno dei differenti contesti. In un certo senso, ogni azione di immunizzazione collettiva è per sua natura coercitiva, almeno in una certa misura.
Il vero problema, oggi, è che siamo di fronte a una pandemia di livello globale e che non esiste una strategia chiara e condivisa per fronteggiarla, né su un piano delle singole nazioni né su quello di una collaborazione di scala planetaria.
Intanto la Covid-19, con oltre 5 milioni di decessi in tutto il mondo, ha raddoppiato il numero di morti delle due epidemie di metà Novecento (l’asiatica del 1957 e l’influenza di Honk Kong del 1968), collocandosi – per quanto riguarda le malattie influenzali – solo dietro alla Spagnola (che fece dai 20 ai 100 milioni di morti in diverse ondate). Una “piaga” che al momento interessa quasi esclusivamente le fasce più anziane delle popolazione della terra, ma che negli Stati Uniti – stando ai dati del Centers for Disease Control and Prevention – è stata comunque la causa di oltre 200 decessi in bambini di età inferiore agli undici anni e che in Brasile – secondo alcune ricostruzioni – ha portato al decesso oltre mille persone fra i giovanissimi.
In questo senso, l’incertezza dovrebbe essere una delle leve più convincenti per accelerare il contrasto alla Covid-19: le caratteristiche che abbiamo potuto osservare sinora sul virus si riferiscono alle varianti fino a ora maggioritarie, che sono state la “Alfa” durante la prima fase della pandemia e attualmente la “Delta” (che già presenta un tasso di contagiosità di gran lunga più elevato e probabilmente una maggiore letalità, anche se è difficile dirlo per il fatto che la sua diffusione si è sovrapposta a quella dei vaccini che ne hanno mitigato gli effetti).
Per scongiurare la prospettiva di nuove mutazioni ancora più aggressive, servirebbe appunto una strategia di vaccinazione e contenimento concertata a livello globale che preveda inoltre aiuti e facilitazioni (come la sospensione dei brevetti richiesta oramai più di un anno fa da Sudafrica e India) per i paesi a basso e medio reddito che non hanno potuto – come invece hanno fatto Stati Uniti ed Europa – accaparrarsi le dosi di vaccino dalle grandi multinazionali del farmaco tramite accordi dispendiosi e decisamente iniqui.
Non è solo questione di disponibilità di risorse e di personale: come evidenzia un recente studio del “Bjm”, «alcune nazioni a medio e a basso reddito come Cuba o Argentina producono attualmente una grossa quantità di vaccini e hanno un tasso di vaccinazione comparabile ai paesi ad alto reddito».
Inoltre, rilevava l’esperto di epigenetica e biologia molecolare Ernesto Burgio qualche mese fa che «i cubani vaccini proteici a sub-unità […] potrebbero essere più sicuri ed efficaci e […] sono prodotti e distribuiti gratuitamente dallo Stato. […] Qualora si affermasse la consapevolezza che nel mondo attuale le vaccinazioni dovrebbe interessare l’intera popolazione umana la scelta dovrebbe cadere inevitabilmente sulle tipologie di vaccino più sicure, efficaci, facili da produrre e distribuire e meno costose. Il che potrebbe sembrare un’idea utopica, mentre si tratta di una urgente necessità».
(foto di Midia Ninja)
Difficile dire in che modo si possa rendere più concreta questa “idea utopica”. Di fatto, però, è interessante notare come esista un punto di contatto fra chi protesta contro i vaccini e il green pass e chi, invece, come la campagna “Nessun profitto sulla pandemia” si batte invece per rendere l’accesso ai farmaci qualcosa di aperto e rapidamente accessibile (nonché, sostanzialmente, obbligatorio!) per tutti su scala globale: le famigerate Big Pharma, la collusione dei governi con gli interessi capitalistici delle case farmaceutiche, la scarsa trasparenza da parte delle istituzioni sono dei “nemici”. Alcuni li affrontano per tutelare la propria “libertà” individuale, altri per rivendicare diritti collettivi. Capire quale delle due “varianti” riuscirà a prevalere è la sfida della crescente ondata pandemica in cui, che lo si voglia o meno, siamo tutti e tutte coinvolti.