Omicron è un termine troppo complicato e poco spendibile politicamente in Europa. Meglio allora definirla “variante sudafricana”, a causa del fatto che ad individuarne specificità, sintomatologia e sottovarianti diverse è stata una dottoressa di Pretoria, Presidente dell’ordine dei medici del Paese, Angelique Coetzee che, intervistata, reagisce infastidita alle reazioni occidentali e del Nord del mondo che hanno chiuso le frontiere a tutta l’Africa australe.
La omicron è stata rivenuta a Gauteng, una delle provincie più ricche e industrializzate del Paese (in lingua sesotho significa “luogo d’oro”, in cui l’alta densità abitativa e la grande attività produttiva facilitano i contagi. Ad oggi sembra che i danni arrecati siano estremamente lievi rispetto al virus originario ma la sua forte capacità di propagarsi rendono omicron un fattore in grado di far crollare le borse. Della serie: il rischio di una nuova ondata nei Paesi ricchi potrebbe sostanzialmente riportare ad ulteriori misure restrittive e ad un nuovo stop alle economie dei singoli Stati considerato un incubo che per nessuna ragione deve trasformarsi in realtà.
Ma chi guarda omicron senza pensare all’Africa è equiparabile allo stolto che guarda il dito invece della luna. Il 24 novembre scorso, Amref, una delle autorità più accreditate per quanto riguarda il continente africano, ha fatto il punto sulla situazione in merito alla pandemia. Dai dati emersi risulta che su una popolazione che già nel 2016 aveva superato il miliardo e duecento mila abitanti, ha avuto 8.609.413 contagi registrati e contato 222.118 decessi legati al Covid. Una percentuale bassissima in rapporto alla popolazione, ma bisogna considerare l’età media degli abitanti, estremamente bassa quanto le altre cause di mortalità considerate quasi inevitabili nell’intero continente. Il Covid ci interroga infatti anche sul continente, anzi per riprendere altre e più corrette definizioni, con un mondo plurale e variegato in cui generalizzare induce all’errore. E i dati Amref aiutano a tracciare un segno. Si pensi solo al fatto che i focolai del virus si sono sostanzialmente concentrati in alcuni Paesi: la Repubblica Sudafricana è stato il Paese più colpito con 2.922.222 casi e 89.179 morti, poi il Marocco, con 946.283 casi diagnosticati e 14.678 decessi, la Tunisia (712.776 contagiati e 25.244 vittime, l’Etiopia, (365.372 con 6467 morti e la Libia, 350.628 casi e 4904 decessi. Quindi circa i 2/3 delle persone contagiate risultano provenienti da soli 5 Paesi sui 56 del continente.
Pesa di sicuro il fatto che soprattutto nell’Africa sub-sahariana i controlli siano stati minori e l’assistenza sanitaria poco funzionante, ancor più bassa l’età media, minori – tranne che a Nairobi o a Lagos – sono le grandi concentrazioni urbane. Ciò non toglie che fino a quando tutto il pianeta non avrà a disposizione sufficienti dosi di vaccino ognuna/o è a rischio. Sempre secondo i dati Amref, al 24 novembre risultava vaccinato il 42,16% della popolazione mondiale. E qui lo squilibrio si vede nella sua drammaticità: il 57,29% della popolazione europea è stato vaccinato completamente, gli Usa sono leggermente più in alto con il 57,83%, l’Italia sfiora addirittura l’85% e già si stanno intasando i centri vaccinali per la terza dose. La media africana è inaccettabile: fallito l’obiettivo di superare il 10% della popolazione nel continente sono giunte in totale 360 milioni di dosi di vaccino, di queste ne sono state somministrate circa 214 milioni e la percentuale di coloro che hanno potuto completare il ciclo è del 7,02%. In sintesi, al di là degli sbraitanti che utilizzano il termine “variante sudafricana” per reiterare come un disco rotto le farneticazioni antimigranti, il dominio imposto con i brevetti, le difficoltà strutturali di molti Paesi africani, rischiano di condurre il continente al collasso. Come insiste Amref, ai 45 milioni di minori già stavano lottando contro fame e malnutrizione, se ne sono aggiunti almeno 9 a causa diretta o indiretta del Covid. Almeno 267 mila rischiano di non superare quest’anno nei Paesi a basso e medio reddito a causa del fatto che il Covid ha come concausa anche in queste terre una profonda crisi economica ancora più devastante che nei Paesi ricchi.
L’intero continente ospita il 17% della popolazione mondiale ma affronta il 24% del carico globale di malattie avendo solo il 3% del personale sanitario. I programmi Onu di assistenza ragionano su come scegliere criteri di ammissibilità e “prioritizzazione indefiniti per garantire che le popolazioni più vulnerabili ricevano l’accesso il prima possibile”. Ovvero, si parte dal presupposto che l’intero continente non potrà essere vaccinato e che, in Africa, si sceglierà chi vaccinare e chi dovrà attendere una maggiore disponibilità di dosi. Un problema che non attanaglia i Paesi ricchi, un problema che non esisterebbe se Big pharma non potesse più continuare a detenere i brevetti per la produzione e la vendita dei vaccini. E invece si ragionerà secondo la logica della “riduzione del danno” sviluppando una strategia di distribuzione del vaccino; identificando dove e da chi verrà somministrato; sviluppando un piano di sostenibilità per garantire disponibilità e accesso continuo ai vaccini. Sempre a detta del rapporto Amref, “per raggiungere l’obiettivo di vaccinare almeno il 60% della popolazione (circa 780 milioni di africani) l’Africa avrà bisogno di circa 1,5 miliardi di dosi di vaccino che, secondo le stime attuali, potrebbero costare tra gli 8 miliardi e i 16 miliardi di dollari, con costi aggiuntivi del 20-30%, per il programma di distribuzione dei vaccini”.
Ci sono Paesi e organizzazioni internazionali interessati a investire risorse di tale livello per salvare almeno il 60% del continente? Intanto, anche a causa di conflitti, tensioni, milioni di rifugiati che sono in continuo spostamento, la somministrazione delle poche dosi è di difficile attuazioni. Solo in Marocco si è giunti ad una vaccinazione massiccia con quasi 64 milioni di dosi che hanno permesso al Paese nordafricano di superare l’Italia con quasi l’87% di persone vaccinate. L’Oms si era ripromessa di raggiungere entro il 2021 il 10% delle persone, oggi solo 14 Paesi hanno raggiunto l’obiettivo. Il 70% del continente ha percentuali minori e questo nonostante accanto ai “vaccini occidentali” siano giunti anche quelli cinesi. Proprio il leader cinese Xi Jinping ha annunciato in una video conferenza, un miliardo di dosi da donare all’Africa. Lo ha fatto in un summit Cina-Africa in corso in Senegal.
Le dosi donate direttamente saranno 600 milioni, altri 400 milioni giungeranno da investimenti in siti di produzione e infrastrutture. E si tenga conto che, nel quadro della sua politica di egemonia sul continente, già altri 200 milioni di dosi sono già state distribuite nei Paesi più in sofferenza. Usa e UE avevano già in passato fatto simili promesse – senza specificare le disponibilità di vaccini e parlando genericamente di “Paesi poveri” – ma nulla è stato ancora mantenuto. C’è sfiducia nel continente. L’African Vaccine Acquisition Trust (Avat), i Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa Cdc) e Covax hanno diranato un documento per fare il punto sulla situazione delle donazioni di vaccini all’Africa e ad altre economie comprese nel Covax, in particolare quelle supportate dal Gavi Covax Advance Market Commitment (Amc). Si pongono un obiettivo più alto dell’Oms, quello di immunizzare almeno il 70% della popolazione e accanto all’importanza delle donazioni sottolineano come debba migliorare la qualità delle donazioni. A detta di queste organizzazioni, le donazioni sono arrivate con scarso preavviso, con dosi in data di conservazione prossima alla scadenza. Questo ha reso praticamente impossibile pianificare le campagne e aumentarne la capacità di somministrazione. Questa “elemosina” di vaccini ha sovraccaricato la scarsa capacità logistica sui sistemi sanitari già sotto sforzo. Mentre le donazioni proseguono, secondo gli autori del documento, queste vanno effettuate in maniera tale da coordinarsi e da poter mobilitare le risorse nazionali – che spesso l’approccio coloniale occidentale tende a sottovalutare- per consentire una pianificazione a lungo termine che permetta di veder crescere i tassi di copertura. Covax e Avat chiedono che, dal primo gennaio 2022 si aderisca ad una serie di standard: rilasciando le dosi donate in grandi quantità e in modo prevedibile per ridurre i costi di transazione; vanno programmate le forniture, tenendo conto della capacità di somministrazione nei singoli Paesi; le dosi debbono avere una validità minima di 10 settimane, accettando eccezioni solo dove i Paesi destinatari dichiarino la capacità di somministrarle con una durata di conservazione più breve; i Paesi destinatari debbono essere informati della disponibilità di tali donazioni almeno un mese prima dell’arrivo in quello di destinazione; le parti interessate devono fornire risposta su informazioni essenziali come fornitura da parte dei produttori (disponibilità, durata di conservazione, sito di produzione), conferma dell’offerta di donazione e accettazione o rifiuto delle assegnazioni dei beneficiari. Da ultimo i proponenti informano che la maggior parte delle donazioni non include le forniture per la vaccinazione, dalle siringhe ai diluenti, né i costi di trasporto. Questo causa costi maggiori, difficoltà e ritardi. “Le dosi donate devono essere accompagnate da tutti gli accessori essenziali per garantire una rapida allocazione e assorbimento”. Si tratta di una forte strategia di cooperazione che migliorerebbe, se attuata, notevolmente la situazione ma che non permetterebbe di uscire da una logica assistenziale da modificare radicalmente per il futuro. Un ultimo dato, ricordato anche in questo caso da Amref: “l’84% delle donne ha affermato che la violenza domestica è aumentata durante la pandemia e quasi l’88% delle donne ha riferito di aver subito abusi da una a tre volte alla settimana”. È questa la luna a cui dobbiamo guardare con attenzione, non la nuova paura di una delle tante varianti dei virus che, grazie alla distruzione ambientale, faranno sempre più parte costante della vita nel pianeta.
Omicron, il dito e la luna