Uno dei punti di forza del programma meloniano, quindi di Fratelli d’Italia e, storicamente, del Movimento Sociale Italiano, era, è e rimane la repubblica presidenziale. Lo spostamento del baricentro istituzionale e rappresentativo del Paese dal Parlamento alla figura di un Presidente che sia anche un po’ capo del governo e viceversa.

Si tratta di una controriforma costituzionale che, per l’appunto, affonda le sue radici nella notte della Repubblica, quando le trame nere si mischiavano con i servizi deviati e con il tintinnar di sciabole, mentre Licio Gelli e confratelli della loggia massonica Propaganda 2 preparavano una sovversione dello Stato con un “programma di rinascita nazionale”.

Tra le altre misure antidemocratiche contenute in quel piano eversivo, che avrebbero dovuto superare il carattere laico, civile, resistenziale e antifascista, egualitario e equipollente nella suddivisione dei poteri, vi era proprio la trasformazione presidenziale dell’Italia da pochi decenni uscita da una dittatura e una guerra devastante. Neanche a dirlo, i tentativi di colpo di Stato paventati, reali o meno che fossero, hanno in Italia portato tutti il marchio del misconoscimento voluto, ricercato e perseguito della centralità del Parlamento.

Quasi peggio che ai tempi della Restaurazione operata dal Congresso di Vienna nell’Europa post-napoleonica e post-rivoluzionaria, i disegni dei conservatori e dei reazionari moderni miravano alla quasi totale esclusione delle assemblee democratiche dalla vita politica di paesi, proprio come l’Italia, che stavano conoscendo, per la prima volta nella loro storia nazionale (e nei loro rapporti continentali) una affinità con un processo di crescita sociale e liberale al tempo stesso, sintetizzata in quella Costituzione frutto di un patto tra anime così diverse della politica nazionale che avevano concorso, tuttavia, alla liberazione del Paese dal nazifascismo.

La legittimazione a scrivere la Carta fondamentale della nuova Repubblica proveniva, quindi, non solo dall’elezione a suffragio universale maschile e femminile dell’Assemblea costituente, ma più ancora dal marchio infamante dato dalla Storia al ventennio fascista, al regime criminale di Mussolini e a tutte le discendenze possibili che ne sarebbero derivate in chiave nostalgica, col supporto di un trasformismo camaleontico tollerato prima e assimilato poi nella formula dell’esclusione dall’”arco costituzionale” del MSI. Che pure partecipava alla vita democratica del Paese.

Il presidenzialismo era quanto di più vicino potessero immaginare i fascisti riunitisi sotto la fiamma tricolore ad una forma autocratica di Stato, governata da un uomo forte, con un governo altrettanto forte e un parlamento ridotto ad assemblea ratificatrice delle decisioni del capo (del duce).

Coerentemente con questo proposito di riconversione della Repubblica italiana in una specie di esperimento a metà, per la verità veramente tutto e solo italico, tra il semi-presidenzialismo alla francese e il presidenzialismo a stelle e strisce d’oltreoceano, i neo o post-fascisti che dir si voglia, non hanno mai smesso di accarezzarlo come riforma della seconda parte della Costituzione, garantendo, proprio in questi giorni, proprio dalla voce del nuovo Presidente del Senato, l’intangibilità della prima parte della Carta: quella dei diritti fondamentali del singolo e del popolo nella sua interezza.

Una volta cambiata radicalmente la missione della Repubblica, il suo essere espressione della volontà popolare nell’elezione diretta delle Camere e nell’affidare a queste il potere di decidere delle sorti tanto del governo quanto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è del tutto evidente che non servirebbe mettere mano alla prima parte della Costituzione, visto che i diritti che sono riconosciuti (e non concessi!) a ciascuno e a tutti, verrebbero chiaramente influenzati in quello stesso riconoscimento dal comportamento politico delle istituzioni e, conseguentemente, dall’agire istituzionale della politica stessa.

Viste le fibrillazioni di questi giorni all’interno della compagine della destra, dove il centro ha sempre più una funzione ancillare, e viste le contingenze attuali che trattano di congiunture di crisi mai viste, tra pandemia, guerra quasi globale e ricaduta economica sulla sopravvivenza di decine di milioni di italiani, la domanda a questo proposito è: quanto tempo avrà la destra di governo per occuparsi di uno dei cardini della sua proposta storica di modificazione strutturale dello Stato?

Laddove per “tempo“, ovviamente, si intende la sintetizzazione della capacità politica di equilibrio in merito tra le diverse pulsioni delle forze politiche che compongono la maggioranza parlamentare. Le priorità, è fuori di dubbio, sono oggettivamente altre e non riguardano soltanto la impellenza con cui si dovrebbero mettere al lavoro questi conservatori e reazionari sulle faccende più problematiche dell’intero Paese che si inseriscono nel complesso quadro internazionale, ma pure gli interessi di partito e personali dei singoli leader.

Per non inimicarsi così presto i favori dell’elettorato conquistato a milioni, oppure quello di chi ancora non ha deciso di abbandonare le scialuppe di Lega e Forza Italia, Meloni, Berlusconi e Salvini devono, proprio attraverso l’azione di governo, mettere al lavoro i loro ministri per privilegiare quelle tematiche un po’ storiche che ne hanno, alla fine, permesso l’ascesa fino a Palazzo Chigi (e non certamente soltanto da oggi…).

In questo senso, il presidenzialismo potrebbe, nonostante l’affastellarsi preoccupante di tanti problemi di natura economica e sociale, essere un collante per tutti e tre i partiti storici dell’ormai ex centrodestra nella via tortuosa di quelle riforme istituzionali che vengono sempre ipotizzate e posticciamente realizzate con clamorosi inciampi o, peggio, con il rischio di far cadere i governi stessi che le propongono.

Tutto ciò a meno che la Lega non sia spinta a riabbracciare in parte la sua vena originariamente autonomista (dell’indipendentismo della fantasiosa “Padania” ormai non parla più nessuno), anche attraverso un Calderoli al Ministero degli Affari regionali e un Bossi che rinverdisca il “vento del nord” con la sua corrente interna al partito salviniano. E tutto ciò anche ammesso che, per la Forza Italia dilaniana in queste ore dal dualismo tra Berlusconi e Tajani sui rapporti con Putin, questo sia sopportabile in termini di prevalenza programmatica, di valenza delle caselle ministeriali, di relazioni tutte interne tanto alla coalizione quanto all’esecutivo.

In fondo, il partito di Berlusconi, da sempre favorevole all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, non ha mai condiviso la storia tutta missina della visione apotropaicamente antidemocratica di un presidenzialismo sovraordinante sul Parlamento, in aperto e diretto contrasto con i fondamentali dello Stato rinato dalla Resistenza.

Qui rimane, altro tema non inesprimibile, quell’ambiguità tutta evidente, che tuttavia lambisce meno Forza Italia, e che riguarda la professione aperta di antifascismo da parte tanto di Giorgia Meloni quanto di Matteo Salvini. Il Presidente del Senato, oltremodo, ha sempre affermato di non essere antifascista, rimanendo, come tanti altri esponenti del MSI prima, di AN poi e di Fratelli d’Italia oggi in un limbo di voluta ambiguità che permetta di stare tanto legittimamente nelle istituzioni quanto di rimanere empaticamente legato agli ambienti di destra estrema delle origini.

Non sarebbe affatto un cattivo segnale se tutte le opposizioni facessero un fronte comune contro ogni ipotesi di stravolgimento istituzionale in chiave presidenzialista dela Repubblica. Parliamo di almeno tre grandi gruppi che dovrebbero trovare un minimo comune denomiatore nell’intesa anti-autoritaria che una torsione antidemocratica del genere avrebbe nel nostro Paese.

Perché il presidenzialismo non equivale, indubbiamente, ad una mutazione di questa natura, ma, vista la storia passata e soprattutto quella recente, dal ventennio berlusconiano in avanti, sarebbe bene mettersi al riparo da qualunque esagerazione maggioritaria, da qualunque tentazione di stabilizzare la regola dell’uomo (o della donna) forte al comando.

L’equipollenza dei poteri deve restare un cardine fondante della intangibilità degli stessi e dell’uguaglianza che è alla base di tutti i princìpi costituzionali. Evitare un primus inter pares, di questi tempi, non è un argomento di secondo piano ma è un riconoscimento al Parlamento del suo ruolo fondativo e tutt’ora fondante della Repubblica, della sua eco laica e democratica che proviene dalla sua storia non dimenticabile e non superabile con slanci presuntamente “modernisti” in salsa sovranista.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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