Non è quello di Silvio Berlusconi l’intervento che più attira l’attenzione al Senato della Repubblica il giorno della fiducia al governo Meloni. L’attesa per quanto avrebbe detto il Cavaliere nero di Arcore era stata caricata del necessario pathos, come se ci si trovasse davanti al secondo episodio di uno sceneggiato lasciato per nove anni nelle teche, ad obliare sé stesso e a lasciarci un po’ di respiro in più nella sopravvivenza quotidiana alla tenzone politica italiana.

Alla fine no, non è quello l’intervento che più colpisce e fa ipotizzare chissà quali scenari di resistibilità alle scosse telluriche che non mancheranno durante il cammino dell’esecutivo di destra-destra. La vera sorpresa (si fa per dire, ovviamente, ma certamente inaspettata nei termini in cui si è espressa) è Matteo Renzi: che i senatori del neocentrismo liberista a tutto tondo avessero dato una mano ad Ignazio La Russa ad essere eletto Presidente del Senato, quando i voti di Forza Italia vennero a mancare, era un po’ il segreto di Pulcinella delle ore che seguirono quel voto travagliato.

Ma che Renzi, da sempre comunque favorevolissimo all’ipotesi della trasformazione presidenzialistica della Repubblica (con la formula infelicissima del “Sindaco d’Italia“, già tanto cara a Mariotto Segni), fosse addirittura disposto, nella dichiarazione di voto sulla fiducia al nuovo governo, a proferirsi in tanto ardore per una condivisione delle riforme istituzionali («Se c’è un’apertura sulle riforme costituzionali, un ‘No’ a prescindere per me è sbagliato», ipse dixit), ha lasciato un po’ stupiti.

Est modus in rebus. Poteva andarci più cauto, essere meno evidente: ma, probabilmente, sia Renzi sia Calenda sanno che il loro elettorato non disdegna quel tipo di dichiarazioni, così come non è contrario ad una correlazione stretta tra parti dell’opposizione liberista e di centro con una destra estrema che intende governare il Paese con un profilo economico draghiano ed uno di politica interna ed estera più marcatamente sovranista e nazionalista.

Non fosse che la Lega fa parte a pieno titolo della maggioranza di governo, l’intervento di Romeo, che nel finale avvisa Meloni di essere una sorvegliata speciale, oltre che della Francia, anche del Carroccio («Il governo durerà cinque anni se si saprà fare squadra»), parrebbe quasi più critico di quello renziano.

Il presidenzialismo (o il semi-presidenzialismo rivendicato dalla Presidente del Consiglio nei programmi di Fratelli d’Italia, prima ancora di Alleanza Nazionale e, ingrandendo un po’ la fiamma tricolore, già nei propositi del Movimento Sociale Italiano) è quindi uno dei punti di politica delle riforme contro-costituzionali che le destre intendono portare avanti pur in un contesto nazionale, continentale e globale molto mutato rispetto a quando gli Stati lo adottavano come elemento di stabilità non solo istituzionale ma anche prettamente governativa.

Oggi la società in cui viviamo è sempre meno aggregata intorno a grandi ideali, a grandi prospettive: la disperazione crescente, per una indigenza che si allarga a macchia d’olio, è la pietra angolare di una estremizzazione del pensiero e della visione di insieme che si concretizza nell’esercizio del voto.

Il successo delle destre è fondamentalmente legato alla sempre più evidente crisi della democrazia che, pur con tutti i distinguo del caso, non ha nulla da invidiare a quei primi decenni del Novecento quando proprio la fragilità del sistema liberale crollò capitolando sotto la spinta eversiva del fascismo nascente, considerandolo un fenomeno gestibile istituzionalmente, controllabile parlamentarmente e, quindi, non una improvvida mutazione veramente profonda e radicale dello Stato borghese.

Per questo, considerando la congiuntura di crisi dell’oggi, tra coda pandemica, guerra continua e instabilità economica e sociale, non è avventato affermare che ci troviamo nelle vicinanze di una “tempesta perfetta” affinché possa prendere corpo l’ipotesi di regalare al liberismo la sua più rimarchevole recriminazione: uno Stato forte nella gestione del dissenso, della critica, dell’avanzamento di proposte alternative a quelle di una ridefinizione dei presupposti (e dei preconcetti) del mercato globale declinati sul piano nazionale.

Attenzione: Stato forte non significa per i liberisti uno Stato che sia sinonimo di “pubblico” e che, pertanto, eserciti la sua forza nella presenza costante nei settori dirimenti della vita economica e sociale del Paese. Non significa “stato-sociale forte“, ma istituzione al servizio del capitalismo che si deve aggiornare ai tempi, diventando resiliente nei suoi stessi confronti.

La democrazia costituzionale, non quella troppo spesso accomunata ad esperienze di gestione del potere con metodi oligarchici o autocratici, è in pericolo proprio quando la saldatura tra crisi economica e crisi politica si traduce in una soluzione di tipo semplificazionista, con l’uomo o la donna soli al comando pur dentro la cornice formale del rispetto di una sempre meno presente equipollenza dei poteri.

Il presidenzialismo, di per sé, non è una garanzia di passaggio meccanicistico ad una dittatura o ad un regime autoritario anche meno evidente; così come non è nemmeno, però, uno sviluppo in positivo delle potenzialità democratiche perché ha, certamente molto più del parlamentarismo in cui la Repubblica sopravvive oggi, quelle particolari propensioni endogene ad essere il prodromo per una involuzione autoritaria che possa esistere nell’ambiguità stagnante di un non disfacimento totale del sistema precedente.

In sostanza, se una controriforma costituzionale semi o esclusivamente presidenziale dovesse arrivare a compimento, significherebbe anzitempo che le condizioni per una torsione autoritaria della politica e delle istituzioni italiane è già avvenuta e ha tutte le potenzialità per dare corso ad un consolidamento dell’erosione antidemocratica, del logoramento progressivo delle fondamenta social-liberali dell’Italia che, nel bene e nel male, abbiamo sino ad oggi conosciuto dopo la Seconda guerra mondiale.

Il fatto che dai banchi dell’opposizione della camera alta si alzino preventivamente delle voci convinte su un futuribile patto di revisione costituzionale in questo senso, è oggettivamente allarmante.

Intendiamoci: tutto sta nella normale dialettica parlamentare, ma viene da sé che, se non si superano i limiti del protocollo istituzionale, se ci si comporta correttamente sul piano del rispetto delle regole, non è detto che non si vada comunque oltre nel momento in cui il ruolo dell’opposizione scema e somiglia sempre di più ad una diminuzione del ruolo di controllo che la minoranza parlamentare dovrebbe esercitare sulla maggioranza.

Quando destra e centristi di nuova generazione iniziano ad essere concordi su più punti, di politica interna, estera, di riforme economiche, di costituzionalità, la domanda che, paradossalmente e volutamente provocatoria, può sorgere è: ma chi è maggioranza e chi è opposizione?

Se l’indistinguibilità diventasse così prevalente nella normale dialettica parlamentare, molto più rispetto al passato, con tanti cambi di casacca a testimoniare il mai veramente superato trasformismo dell’italica politica, dovrebbe suonare un campanello d’allarme per partiti, sindacati, associazioni che hanno il dovere di porsi come diga ad una deriva che sarebbe qualcosa di più di una “semplice” riforma istituzionale.

E’ proprio per queste ragioni che il discorso più eclatante in Senato lo ha fatto Matteo Renzi a cui va il merito di aver parlato chiaramente, senza infingimenti, senza troppi giri di parole. Sappiamo cosa possiamo attenderci da lui e dalle destre.

Adesso sarebbe bene che si iniziasse a farne tesoro, lasciando i pettegolezzi sulle posture berlusconiane ad altri momenti, ed iniziando a costruire quell’opposizione parlamentare e nel Paese che non deve rischiare di assottigliarsi sempre di più, ma diventare la nuova prima forza politica e sociale per rovesciare quanto prima questo governo e ridare all’Italia una piena identità di vedute tra istituzioni, società, diritto, cultura e, quindi, una prospettiva esistenziale degna di essere considerata tale.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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