Andrea D’Atri è una dirigente del PTS (Partido de los Trabajadores Socialistas, in Argentina) e una personalità del movimento internazionale femminista, sia come teorica sia come organizzatrice. È autrice di molti articoli sul femminismo e sul socialismo, nonché del libro “Pan y Rosas. Pertenencia de género y antagonismo de clase en el capitalismo”, pubblicato nel 2016 in italiano per i tipi della Red Star Press come “Il pane e le rose. Femminismo e lotta di classe”. In questa intervista curata da Juan Dal Maso per la nostra rivista gemella argentina Ideas de Izquierda, Andrea ci offre il suo punto di vista sugli attuali dibattiti nel movimento delle donne, sui contributi della tradizione marxista al femminismo, sull’apporto della Teoria della Riproduzione Sociale alla comprensione del rapporto tra oppressione di genere e sfruttamento di classe. Si riflette inoltre sulla relazione tra classe e identità nella lotta contro il capitalismo, da una prospettiva politico-strategica che ci permette di andare oltre le posizioni identitarie o riduzioniste. 

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Come ti sei interessata alle questioni femminili e com’era il dibattito all’epoca in cui ciò è avvenuto? In che misura è cambiato nel corso del tempo?

È stato molti anni fa! Sono una militante trotskista dal 1987, mentre è di poco successivo il momento in cui ho iniziato a leggere con interesse ciò che il marxismo e le correnti trotskiste dicevano sull’oppressione delle donne. Era un po’ controcorrente, perché negli anni ’90 c’era un clima molto reazionario in tutti gli ambiti e, insieme al trionfo del neoliberismo, c’è stata una grande battuta d’arresto per il marxismo, così come per altre correnti di pensiero critiche, femminismo compreso; tutto questo non solo in Argentina, bensì a livello internazionale. Ciò nonostante, come PTS, quando la Chiesa attaccava gli omosessuali in Argentina, abbiamo promosso una campagna in solidarietà con la CHA (Comunidad Homosexual Argentina); quando nella riforma costituzionale concordata tra il PJ (Partido Justicialista) e l’UCR (Union Civica Radical) si voleva introdurre la difesa della vita fin dal concepimento, ci siamo coordinati con un piccolo gruppo di femministe per il diritto all’aborto, promosso dalla leggendaria Dora Coledesky, di cui facevano parte anche Mabel Bellucci, Martha Rosenberg e altre femministe che poi sono confluite nella Campagna nazionale per il diritto all’aborto, al centro delle lotte degli ultimi anni in Argentina. Era tutto molto controcorrente! Era l’epoca della nascita del post-femminismo. Tutto era post, perché secondo gli ideologi neoliberisti eravamo arrivati alla fine della storia con il trionfo assoluto delle democrazie capitaliste, la caduta dell’Unione Sovietica: c’era il post-marxismo, il post-modernismo e il post-femminismo. In quegli anni ho letto molto; ho letto molto di più di quanto avessi mai letto prima sulla questione delle donne. E dopo molti anni di accumulo bibliografico, ho scritto il libro “Pan y Rosas. Pertenencia de género y antagonismo de clase en el capitalismo”, pubblicato per la prima volta nel 2004.

Quello che ho voluto argomentare in quel libro è che non c’è stata un’inevitabile evoluzione graduale sulla strada dell’emancipazione femminile. Ormai un po’ di anni fa, lessi un libro di Göran Therborn intitolato Sesso e potere, in cui si diceva che la rivoluzione femminile era l’unica rivoluzione che avesse trionfato nel XX secolo. Contro questa tesi ho cercato di mostrare come le lotte delle donne siano legate alla lotta di classe, ai suoi progressi e alle sue battute d’arresto, quindi ai periodi di rivoluzione o controrivoluzione, in relazione ai quali la situazione delle donne nelle società è progredita o regredita. A quel tempo, era piuttosto controcorrente sollevare il tema del rapporto tra femminismo e lotta di classe; scrivere in dialogo con le teorie che predominavano nell’accademia, ma allo stesso tempo senza farlo dall’accademia, bensì all’interno di un’attività militante…

In seguito, le esperienze di lotta che si sono aperte con la crisi del dicembre 2001 – alle quali abbiamo partecipato attivamente – ci hanno permesso di spingere i movimenti femministi a unirsi ai lavoratori delle fabbriche occupate, come nell’azienda tessile Brukman, parte del movimento delle fabbriche “senza padrone”. Abbiamo poi partecipato all’Assemblea per il diritto all’aborto, anch’essa promossa da Dora Coledesky e nata nell’ambito della proliferazione delle assemblee di quartiere nella città di Buenos Aires. Da lì abbiamo partecipato all’Incontro Nazionale delle Donne (Encuentro Nacional de Mujeres), che si è tenuto a Rosario nel 2003. Questi sono stati diversi momenti ed eventi che hanno esercitato la spinta finale per dare forma al libro e pubblicarlo.

Vista da oggi, è forse un’opera molto elementare. Ma quando l’abbiamo scritto non si prefigurava ancora la crescita massiva del movimento che abbiamo visto nel 2015 con Ni Una Menos o nel 2018 con la Marea Verde per la legalizzazione dell’aborto.

Le varie edizioni di Il pane e le rose uscite in diversi paesi.

Dici che “è un’opera molto elementare”, ma in realtà direi che è solo perché tutto questo movimento che abbiamo oggi non sembrava ancora prefigurarsi all’epoca. Mi pare tuttavia che ci siano in quel libro una serie di dibattiti ancora molto attuali; attuali, non “nonostante” il fatto che oggi ci sia molto più movimento, ma proprio perché c’è un movimento femminile molto ampio, con molte tendenze coinvolte, molte discussioni. Quindi, mi interesserebbe – per passare ad alcune questioni che hanno a che fare con il femminismo, la lotta di classe e le cose che ha menzionato – se potessi riassumere un po’ quali sono i principali contributi della teoria marxista al problema.

Beh, partendo dai classici del marxismo, per esempio, secondo me è molto importante il rapporto che Engels stabilisce tra l’origine della famiglia, la proprietà privata e lo Stato. Pur contenendo errori nella descrizione delle società preistoriche, dovuti soprattutto ai limiti della ricerca antropologica dell’epoca, “L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” di Engels è un’opera che ci permette di riflettere su come la divisione sessuale del lavoro tra produzione e riproduzione sia associata alla divisione sociale tra classi produttrici e non produttrici. Quel testo, in particolare, ci dà uno spunto su come il diritto di famiglia, ad esempio, a Roma, si sia sviluppato con l’obiettivo di perpetuare la proprietà privata degli uomini della classe sfruttatrice attraverso l’eredità e, quindi, nell’ottica di stabilire il controllo sulla capacità riproduttiva delle donne, al fine di garantire la trasmissione dell’eredità stessa ai figli. Così Engels rivela, in un certo senso, il rapporto tra l’imposizione della monogamia (che è monogamia solo per le donne, perché erano loro a dover controllare la sessualità per garantire la legittimità della prole), la comparsa delle classi sociali e l’affermarsi dello Stato, quindi della proprietà privata. Engels lo dice chiaramente: l’imposizione della monogamia alle donne è stata la grande sconfitta del sesso femminile.

Ebbene, molti secoli dopo, nel capitalismo, la famiglia sarà un’istituzione che avrà un ruolo anche nella classe lavoratrice (non solo nella classe sfruttatrice per garantire l’eredità), perché sarà la famiglia a permettere la riproduzione della forza lavoro, senza che questo significhi una spesa aggiuntiva per i capitalisti. Dico questo, segnalando come una tesi del genere sia stata interpretata in modi diversi dalle femministe marxiste. Non esiste una teoria univoca in merito, ma ci sono diverse letture con divergenze e similitudini tra le femministe marxiste che hanno contribuito al dibattito.

Uno degli apporti più importanti del marxismo, almeno per me, e forse il meno conosciuto o il meno riconosciuto dal femminismo, è però la Teoria della Rivoluzione Permanente di Trotsky, che, tra le altre cose, spiega come la rivoluzione non sia un fenomeno che, in un solo atto, in un solo evento, risolva tutte le contraddizioni sociali, per esempio quella esistente tra i generi. In altre parole, la presa del potere o la socializzazione dei mezzi di produzione non pongono fine in un colpo solo a millenni di oppressione patriarcale. In questo senso, la rivoluzione è anche permanente, cioè una rivoluzione che continua nella rivoluzione.

Da questa definizione molto semplice (o almeno io l’ho detta in modo estremamente schematico, ma è un po’ più complessa), si possono trarre varie conclusioni che ci permettono di pensare alla lotta contro l’oppressione in modo molto più ricco di quello che di solito viene trasmesso quale posizione del marxismo classico; posizione che, in realtà, riflette piuttosto la caricatura stalinista del marxismo. Quella di Trotsky è una visione totalmente opposta all’idea secondo cui con la presa del potere il socialismo fosse già costruito ‘per nove decimi’. In base a tale assunto, le donne dovevano schierarsi dalla parte della “contraddizione principale” (tra virgolette) che era la contraddizione di classe, in una forzata unità di tutti contro il capitale, perché una volta fatta la rivoluzione socialista, tutte le forme di oppressione, che esistono anche tra persone della stessa classe, sarebbero state annullate.

C’è una frase di Trotsky che ripeto spesso nelle conferenze e in ogni articolo che scrivo: “se vogliamo trasformare la vita, dobbiamo imparare a guardarla con gli occhi delle donne”. È una frase molto poetica, molto letteraria; ma non era intenzione di Trotsky, immagino, fare letteratura. Piuttosto, questa citazione segnala come per Trotsky, i rivoluzionari debbano sviluppare il loro programma politico e fare affidamento sui settori più oppressi della classe operaia e non sui settori privilegiati, sull’aristocrazia del lavoro, sui settori burocratizzati, sui settori assimilati al regime. Credo che qui ci sia un importante bagaglio di contributi marxisti. Ciò che ho appena detto a proposito di Trotsky può essere apprezzato in un’opera intitolata “Problemas de la vida cotidiana”1, che invito tutti coloro che ci stanno leggendo a sfogliare.

Questo, solo per citare alcuni contributi teorici che attestano come il marxismo, in quanto movimento rivoluzionario, abbia contribuito alla storia del femminismo e alla storia del socialismo. Questo è avvenuto anche con grandi personalità femminili come Clara Zetkin, Rosa Luxemburg, Sylvia Pankhurst, Alexandra Kollontai, Inessa Armand, solo per citare alcune delle più note, ma ci sarebbero da elencare molte altre eccezionali organizzatrici di partiti rivoluzionari, leader operaie e politiche, intellettuali, ecc.

Torneremo più avanti agli aspetti storici a cui hai appena accennato; ora volevo portare l’intervista verso un tema più attuale, quello delle destre “trumpiste”, che seguono l’agenda di Trump, di Steve Bannon, i quali emergono come marcatamente anti-femministi. Oltre questi personaggi si potrebbero citare Yon Suk-Yeol, che ha vinto le elezioni in Corea del Sud, con una campagna fatta di frequenti attacchi alle donne. La domanda che sorge spontanea è: si tratta di misogini che sono sempre esistiti, ma che solo ora hanno iniziato a raggrupparsi? Si tratta di un fenomeno più fondamentale? Che significato si può dare all’emergere di queste correnti di estrema destra, che pongono molta enfasi sul rifiuto dei diritti delle donne?

Sì, le nuove destre, i post-fascismi o come vogliamo chiamarli sono profondamente antifemministi. Cioè, come hai sottolineato, non solo sono misogini, ma hanno elaborato discorsi contro i femminismi e parlano, in modo molto dispregiativo, di “ideologia di genere”, che è un’espressione usata anche dal Vaticano. Elaborano persino articoli pieni di fallacie logiche e argomentative cercando di dimostrare che non esiste una specifica violenza di genere, all’interno dei comportamenti violenti generali; sono loro i bersagli dello slogan dei social media #NiUnoMenos [contrapposto a Ni Una Menos, “Non una di meno”, ndt], perché credono che tutto sia uguale. Sostengono inoltre che la loro estrema difesa dell’individuo e della sua inalienabile libertà di decidere non sia in contraddizione con la loro posizione contraria alla legalizzazione dell’aborto; sostengono che lo Stato non dovrebbe intervenire nel sanare situazioni di disuguaglianza, quindi sono anche contrari a tutti i diritti democratici delle persone LGBT+.

Queste nuove destre politicizzano i pregiudizi patriarcali e il maschilismo che esistono a livello sociale, indirizzandoli contro il femminismo. Ma per fare questa operazione e presentare il femminismo come un nemico, invariabilmente lo riducono a quel femminismo istituzionalizzato, relativamente nuovo, che è il femminismo dell’era neoliberista, a cui Nancy Fraser fa spesso riferimento nei suoi scritti. È il femminismo istituzionalizzato di una casta politica del neoliberismo “progressista” che, come dice la giornalista madrilena Nuria Alabao, usa il “femminismo” per legittimare ogni tipo di politica. Quindi, se il femminismo è associato alla casta politica o alle élite accademiche, in un momento di profonda crisi sociale come quello che stiamo vivendo, è facile che questi discorsi anti-femministi della destra trovino un’eco in settori delle masse che vedono come le loro condizioni di vita si stiano deteriorando, mentre il ‘femminismo’ sembra occuparsi di tutt’altro. Così, presentando un’immagine semplificata del femminismo, identificando il tutto con la parte istituzionale, le nuove destre possono porsi come ribelli “antisistema”. Paradossalmente, un movimento sociale che nasce dalla lotta contro l’oppressione e la discriminazione strutturale delle donne nel sistema capitalista, viene presentato dalla nuova destra, attraverso questa operazione ideologica, come parte dello Stato con cui il movimento stesso si confronta.

Credo sia importante ritornare su un punto che la giornalista americana Susan Faludi ha sollevato in un libro degli anni ’90, in cui parla del femminismo degli anni ’70, e dice che i media e la pubblicità lo hanno trasformato in uno “stile di vita” e, attraverso questa operazione, lo hanno neutralizzato politicamente e trasformato in una merce, in un oggetto di consumo. Credo che dovremmo riflettere sul ruolo svolto dal femminismo istituzionale in questi decenni. Penso che i femminismi popolari, i femminismi anticapitalisti, i femminismi di sinistra e, naturalmente, quelle di noi che si considerano femministe socialiste rivoluzionarie dobbiamo evitare questa dinamica e denunciare la trappola del femminismo neoliberista che, da un lato celebra come se fosse femminista ogni conquista di una quota di potere da parte delle donne nella politica tradizionale o delle imprenditrici (il famoso “soffitto di cristallo”), dall’altro si veste di radicalità appropriandosi di un’agenda minoritaria, facendolo in termini culturali e identitari ed evitando, ovviamente, di porre il problema del perseguimento di trasformazioni strutturali radicali. Il femminismo istituzionale può fare una grande campagna pubblicitaria per la carta d’identità non binaria, ma non una sola azione per trasformare radicalmente la situazione occupazionale e le condizioni di vita di quei giovani che si definiscono non-binari e che, molto probabilmente, devono affrontare più difficoltà degli altri per trovare un lavoro, per avere una casa, per migliorare le proprie condizioni di vita, quando l’estrema precarietà del lavoro tra i giovani, nel complesso, raggiunge il 64%.

Josefina Martínez, Andrea D’Atri, Pastora Filigrana e Nuria Alabao, evento “El movimiento de mujeres ante el ascenso de la nueva derecha” (Il movimento delle donne di fronte all’ascesa della nuova destra), Madrid 2019.

Mi sembra molto chiaro quello che hai detto. Penso che si tratti di un argomento da seguire molto da vicino. Anche se non dovremmo buttarci a terra gridando “Il fascismo sta arrivando!”, come fanno molti settori del centro-sinistra, è vero che le nuove destre stanno guadagnando peso e che abbiamo bisogno di una risposta politica adeguata. In questo senso, quando hai parlato delle diverse varianti di femminismo popolare, mi hai fatto venire in mente che continuano ad emergere questioni niente affatto nuove, ad esempio ci sono settori del movimento femminista che non sono molto contenti della partecipazione delle organizzazione partitiche di sinistra al movimento, come se un raggruppamento o un movimento fosse meno legittimo perché è legato a un partito. Ma per non rispondere io stesso alla domanda che pongo, quello che vorrei che tu commentassi un po’ è l’idea secondo cui le nuove sinistre che sono emerse in Argentina dopo il 2001 avrebbero spinto la sinistra tradizionale – alcune pubblicazioni includono anche noi del PTS in questa definizione – a dare più importanza alla questione femminile e ad altre lotte che non hanno a che fare direttamente con il proletariato industriale, inteso in senso stretto e immaginato come maschile, ecc. 

Sebbene settori della cosiddetta sinistra “sinistra indipendente” emersa dopo il 2001 non abbiamo avuto posizioni di governo, gran parte di essa ha fatto parte della coalizione di maggioranza per diversi anni. La cosa singolare è che queste ‘nuove’ tendenze hanno subito un processo di istituzionalizzazione dopo soli vent’anni dal loro sviluppo… Il trotskismo, invece, è una corrente con una tradizione nazionale che risale all’Argentina degli anni ’30 e che si inserisce in una più ampia tradizione di marxismo rivoluzionario a livello internazionale, la quale trova radici nella metà del XIX secolo. In questo senso, siamo eredi di una tradizione che ha sempre rivendicato la riflessione, la militanza e l’organizzazione delle donne nella lotta per la loro emancipazione. E non solo la questione femminile: il marxismo rivoluzionario ha assunto posizioni relative alla sessualità e al genere molto avanzate per il suo tempo. Ad esempio, nel processo contro lo scrittore Oscar Wilde (che nel 1895 fu processato per comportamenti indecenti e sodomia, perché aveva una relazione con un giovane aristocratico), il Partito Socialdemocratico Tedesco fu l’unico partito europeo ad alzare la voce in sua difesa, con argomenti molto avanzati per l’epoca. Lo stesso vale, ad esempio, per l’eliminazione di ogni forma di criminalizzazione dell’omosessualità nel codice civile stabilito dal governo sovietico dopo la rivoluzione russa del 1917, misura ampiamente riconosciuta dalle associazioni e dagli attivisti che si battevano contro la persecuzione degli omosessuali nei Paesi europei più avanzati all’inizio del XX secolo.

Le persecuzioni e persino le esecuzioni di omosessuali perpetrate, in generale, dalle leadership degli eserciti guerriglieri nella rivoluzione cubana e in altri processi rivoluzionari, non hanno nulla a che fare con la tradizione del marxismo rivoluzionario. Piuttosto, sono legati all’ideologia stalinista che risponde all’arretratezza culturale dei contadini, classe soggetta alle tradizioni arcaiche del patriarcato, della Chiesa e dell’oppressione feudale. Stranamente, queste correnti della cosiddetta sinistra indipendente tendono a simpatizzare più con queste correnti politiche populiste che con il marxismo rivoluzionario, con il trotskismo. Questa è una grande contraddizione, come quella che affligge il peronismo. Ad esempio, sulla rivista Anfibia è apparso recentemente un articolo di Martha Rosenberg e María Alicia Gutiérrez, “Si Evita viviera” (Se Evita vivesse), uno slogan diventato popolare nel femminismo della Marea Verde. Ebbene, le autrici del pezzo sottolineano che se Evita fosse vissuta non sarebbe stata favorevole all’aborto. Ma al di là di questo, voglio dire, il peronismo ha prodotto grandi personalità politiche femminili, questo è indiscutibile, come l’opposizione di destra non ha mai fatto, ma con una marcata ideologia antifemminista e una particolare vocazione ai valori della famiglia tradizionale.

Possiamo modestamente affermare di provenire da una corrente politica che, qui in Argentina, per citare un fatto storico, è stata la prima a proporre la legalizzazione dell’aborto in campagna elettorale, nel 1973. Mentre il presidente Juan Domingo Perón, nel 1974, firmò il decreto 659 che proibiva la distribuzione gratuita di contraccettivi e chiudeva 60 servizi ospedalieri che si occupavano della “pianificazione familiare”. La “sinistra indipendente” ha fornito all’attuale governo il primo Ministro delle Donne, del Genere e della Diversità, che è stato messo in discussione dal movimento femminile per la sua inazione. Noi, invece, possiamo rivendicare orgogliosamente, grazie all’intervento della nostra corrente femminista Pan y Rosas, di aver paralizzato una delle principali multinazionali alimentari quando un’operaia che aveva denunciato le molestie del supervisore ha subito minacce di punizione da parte dei capi. Oppure, per esempio, siamo orgogliose che le nostre compagne delegate alla multinazionale Pepsico abbiano proposto in un’assemblea che tutti i turni di lavoro si fermassero per aderire allo sciopero delle donne e siano riuscite a ottenere un voto unanime. 

Prima presentazione del progetto di legge della Campaña Nacional por el Derecho al Aborto al parlamento argentino, con Nora Cortiñas, Patricia Walsh, Lohana Berkins e altre compagne, Buenos Aires 2007.

A proposito del tema dei diversi tipi di politica femminista, è importante notare come esse siano legate anche a diverse impostazioni teoriche. Su questo piano ha assunto grande rilevanza, recentemente, la Teoria della Riproduzione Sociale (TRS), avanzata per la prima volta negli anni 70 da Lise Vogel, in una certa misura influenzata dal lavoro di Althusser. Come giudichi questa prospettiva molto legata al marxismo, alla quale però aderiscono anche autori non marxisti? Quale contributo può dare alla riflessione sulle questioni femminili, ma anche sul problema del capitalismo?

Marx sottolinea il ruolo determinante della forza-lavoro nel mettere in moto il processo di produzione e mostra anche che la forza-lavoro è una merce singolare, che produce merci, ma allo stesso tempo non è essa stessa prodotta in modo capitalistico, all’interno dello stesso circuito in cui vengono prodotte le altre merci. Tuttavia, egli non sviluppa tutte le implicazione di questa idea. Ecco perché, negli anni ’70, sono emerse diverse teorie sul lavoro domestico non retribuito, sul lavoro di cura o sul lavoro di riproduzione sociale, da parte di femministe socialiste, marxiste, autonome e persino femministe materialiste radicali non marxiste. Alcune sostenevano l’esistenza di due sistemi (capitalista e patriarcale) e altre insistevano sull’integrazione tra produzione di merci e riproduzione della vita. Quest’ultimo, in particolare, il punto di vista della Teoria della Riproduzione Sociale, la quale apporta contributi fondamentali alla comprensione di come l’oppressione di genere e lo sfruttamento di classe siano intrecciati nel capitalismo. In sintesi, tale approccio sostiene come vi sia un rapporto tra il lavoro destinato a produrre merci e il lavoro destinato a ‘produrre persone’, aspetti che insieme costituiscono la totalità del sistema capitalistico. Quindi, l’economia ‘tout court’ è il luogo di produzione di beni e servizi come merci, mentre le persone che producono queste cose per il mercato, invece, sono a loro volta prodotte al di fuori dell’economia capitalistica, in un ‘luogo’, costruito sulla base della parentela, che è la famiglia.

I dibattiti a cui hanno dato vita queste posizioni sono iniziati negli anni ’70, ma hanno acquisito maggiore risonanza dopo la crisi capitalistica iniziata nel 2008; così, la recente pandemia ha contribuito ad ampliare il pubblico disposto ad accettare questa teoria nei movimenti femministi. Oggi le idee proposte per la prima volta dalla marxista canadese Lise Vogel oltre 40 anni fa sono riprese da Tithi Bathacharya, Cinzia Arruzza e in parte da Nancy Fraser, le quali sono riuscite a diffondere la loro prospettiva facendo da contraltare al femminismo neoliberista e beneficiando della sua crisi. 

Il problema che trovo nella TRS non è teorico, ma nelle possibili interpretazioni politiche dei suoi postulati. Il fatto che la “produzione” di questa particolare merce, la forza lavoro, avvenga nella sfera differenziata della casa familiare e per mezzo di uno specifico lavoro non retribuito, peraltro svolto per lo più da donne, permette di ricavare, ad esempio, l’esistenza di un nuovo soggetto rivoluzionario? Oppure, in tal modo si equipara strategicamente le lotte sociali e identitarie alla lotta di classe in termini di potenza di fuoco per lo smantellamento del sistema capitalistico? Questo non è un argomento che le autrici della TRS avanzano esplicitamente, ma poiché non siamo interessati a dibattiti accademici, ma piuttosto a mettere in discussione le teorie da un punto di vista militante, vediamo nella pratica che alcuni settori – compresi quelli che non si rivendicano marxisti, come fanno le teoriche della TRS – che si richiamano alla Teoria della Riproduzione Sociale la mobilitano per sostenere politiche riformiste sotto discorsi apparentemente radicali. 

Gli scioperi delle donne ne sono un esempio. La femminista britannica Lorna Finlayson riconosce il ruolo dello sciopero del lavoro di cura, sostenendo che serve a rivelare l’importanza del lavoro riproduttivo, che è visibile solo quando non viene svolto. Tuttavia ella contesta l’idea che l’abbandono del lavoro riproduttivo abbia la stessa capacità di danneggiare il capitalismo dello sciopero tradizionale, l’abbandono dei luoghi di produzione. Lorna sostiene che mentre l’abbandono del lavoro retribuito colpisce il capitalista con la perdita di profitti, l’abbandono del lavoro riproduttivo è meno diretto. Dice anche che se le donne non fanno il bucato o non puliscono la casa quel giorno, lo faranno più tardi o, eccezionalmente, qualcun altro lo farà per loro. Oppure nessun altro lo farà e tutto sarà disordinato. Ma il capitalista, ella dice, “non soffre, non se ne accorge nemmeno”.

In Argentina, ad esempio, gli scioperi delle donne sono stati promossi – in questo senso stretto di sciopero del lavoro di cura – da settori del femminismo legati al peronismo, mentre da sinistra abbiamo sempre sostenuto la necessità di chiedere alle centrali sindacali uno sciopero generale per le rivendicazioni del movimento femminile (all’epoca: il diritto all’aborto e contro il femminicidio). Questo è il modo in cui abbiamo portato avanti lo scioperi femminista nella pratica, in quelle parti del movimento sindacale in cui abbiamo conquistato posizioni a scapito della burocrazia sindacale, facendo votare lo sciopero nelle assemblee dei lavoratori. Al contrario, alcuni settori sindacali che si dichiarano femministi hanno promosso arresti parziali o a fine turno nei luoghi di lavoro, ma solo per le donne, il che ha raso l’azione puramente simbolica, perché i compagni di lavoro si sono assunti un maggior carico di lavoro produttivo (non riproduttivo) per “coprire” l’assenza delle colleghe.

In altre parole, la Teoria della Riproduzione Sociale analizza in modo profondo come il capitalismo tragga vantaggio dalla subordinazione delle donne nella riproduzione della forza lavoro. Ma da qui a interpretare il capitalismo come dipendente dalla subordinazione delle donne per la sua esistenza è un salto teorico che ha conseguenze politiche. Forse il problema sta nel pensare che solo se il capitalismo dipende dall’oppressione di genere vale la pena essere anticapitalisti. Ma, come dice Finlayson, “la questione importante non è se sia possibile che il capitalismo esista senza discriminazioni di genere, ma se sarebbe un’uguaglianza per cui vale la pena lottare”.

Sto continuando a pensare a quello che stavi dicendo, al possibile uso che si può fare di certe riflessioni per spostare il problema dello sfruttamento capitalistico e mettere lo sfruttamento del lavoro di cura non retribuito sullo stesso piano dell’estrazione del plusvalore, detto in termini un po’ schematici. La comprensione della centralità strategica della classe è complicata però anche dalla proliferazione di posizioni identitarie multiple nei movimenti. Nel tuo libro hai questionato le idee di Judith Butler, la quale sosteneva che ogni identità è oppressione. Oggi non ci sono molte posizioni di questo tipo, al contrario ci si concentra molto sulla costruzione di identità. Per dirla con una battuta: nei movimenti in generale c’è uno stato d’animo a favore di tutte le identità oppresse… tranne i marxisti! Scherzi a parte: si tende a concepire i movimenti come definiti da richieste molto specifiche, quasi da proteggere rispetto al rischio di contaminazione con altre istanze. Tuttavia il tema di come affrontare questa esplosione di identità per me è molto mal posto, ad esempio, nella sinistra nordamericana, tra coloro che dicono “questo è movimentismo”, “questa è politica identitaria, dovremmo parlare solo di rivendicazioni economiche”. Altri rispondono: “ah, questo è riduzionismo di classe”. Entrambi i poli sostengono, in buona sostanza, che le diverse dimensioni dell’oppressione e dello sfruttamento non possano essere articolate all’interno di una visione più globale di ciò che è il capitalismo e di ciò che è necessario fare per affrontarlo. Detto questo è vero che oggi non ci troviamo di fronte allo stesso quadro di un paio di decenni fa, bensì ci sono queste molteplici forme di identificazione e di mobilitazione, che rendono il discorso più complesso. Come vedi questo scenario? Come pensi si possa sviluppare la polemica, comprendendo la necessità di dialogare in maniera critica con questo stato d’animo oggi più presente che un tempo?

Mi hai ricordato un aneddoto accaduto in un’università di Barcellona, dove si stava svolgendo un evento in solidarietà con il popolo siriano. E una giovane donna ha chiesto chi fosse il siriano: siccome non c’era nessuno di origine siriana, se ne è andata dall’evento. Come se, non essendo siriani, gli astanti non potessero essere solidali con quel popolo che veniva massacrato. L’identitarismo portato a certi estremi può essere piuttosto ridicolo.

Il dibattito classe/genere attraversa la storia del femminismo socialista e marxista. Da quando Flora Tristan sosteneva – nel XIX secolo – che “la donna è il proletario del proletario”, ai giorni nostri in cui alcuni settori della sinistra trovano nella rivendicazione della diversità una trappola neoliberista per frammentare la classe operaia. Ma negli ultimi quattro decenni di sviluppo del neoliberismo, questo dibattito sulle identità è stato riportato sulla scena dalle enormi trasformazioni subite dalla classe operaia con la sconfitta dell’ultima ondata globale di lotta di classe negli anni settanta.

Un’idea diffusa nell’attivismo radicale è che, come individui, siamo attraversati da molteplici oppressioni e che queste relazioni oppressive definiscono due campi: quello degli oppressi o dominati e quello degli oppressori o dominanti. Così, mentre nel campo dei dominati ci sono vittime che hanno bisogno di un risarcimento per le loro dolorose e sofferte esperienze personali, nel campo opposto ci sono oppressori che detengono e godono dei loro “privilegi” individuali. Quindi, per quanto questi vantaggi materiali o simbolici siano resi possibili dall’esistenza del razzismo o dell’eterocentrismo, le strutture sociali e storiche che li determinano passano sempre in secondo piano rispetto alla responsabilità individuale. Il problema di questa visione è che se l’oppressione è solo un’esperienza individuale, i progetti politici collettivi sono un’utopia irrealizzabile. È per questo che i gruppi identitari si dissanguano nella purificazione dei loro membri: si verificano ad esempio problemi perché una donna è una donna, ma è bianca, o lesbica, ma studentessa universitaria, e così via… Possiamo sempre essere tutti nel posto di dominati o dominanti, anche contemporaneamente, perché dal punto di vista individuale le posizioni sono sempre relative, su questo piano tutto è sempre relativo a qualcosa. Ebbene, questo ragionamento può essere esteso all’infinito, atomizzando e trovando permanentemente più nemici “naturali” che alleati politici. Inoltre, ciò che è inafferrabile per gli altri, come un’esperienza personale, intima e unica, viene postulato come standard identitario e rischia di essere trasferito sul terreno politico e di diventare una fonte di verità non discutibili. In questo mondo fatto solo di identità la vittima ha sempre ragione. La vittima è l’unica a possedere la verità sulla propria oppressione, sui meccanismi di tale oppressione, e ciò può essere trasferito anche alla verità sulla politica. Una sociologa indiana, Avtar Brah, sostiene che, invece di costruire politiche di solidarietà tra i diversi settori oppressi, si stabiliscono gerarchie di oppressione che, a loro volta, investono alcuni soggetti di autorità morale.

Ciò è molto pericoloso per la politica. La politica dell’identità, da questo punto di vista, viene utilizzata come giustificazione per un atteggiamento che sfocia nella pura e semplice richiesta di leggi più punitive nell’illusione di eliminare le forme di oppressione di cui gli individui sono vittime. La chiave non è quindi trasformare radicalmente la società in cui si riproducono il razzismo, l’eterosessismo e altre strutture di discriminazione e oppressione, ma punire l’individuo che non riconosce o rispetta la mia singolarità, dall’alto dei suoi privilegi. E il problema non è ovviamente la legittima richiesta di giustizia per i crimini razzisti, i femminicidi e altre forme di odio sociale. Piuttosto, viene trasferita a tutte le sfere della vita, con l’illusione che anche le forme più sottili di discriminazione che si riproducono in questa società basata sulla disuguaglianza possano essere eliminate dall’apparato punitivo dello Stato. Il rovescio della medaglia è che, se non possiamo cambiare la società in questo modo, possiamo almeno costruire piccoli circoli privi di differenze, privi di privilegi, sicuri, safe, per pochi, e quando tutti saranno subordinati alla gerarchia stabilita delle oppressioni, allora staremo bene, sicuri di noi stessi. In definitiva, si tratta di un settarismo che non fa nemmeno il solletico al capitalismo patriarcale, razzista e xenofobo, per quanto gli slogan possano essere radicali.

È ovviamente una fallacia liberale quella secondo cui in una democrazia capitalista siamo tutti uguali davanti alla legge. Le identità non sono innocue, segnano le nostre vite, perché finché esisterà il razzismo, le carceri degli Stati Uniti saranno piene di afroamericani; finché esisterà la transfobia, le donne trans continueranno ad avere un’aspettativa di vita non superiore ai 40 anni; e finché esisteranno il maschilismo e la discriminazione contro le donne, continueranno a esistere il divario salariale, la violenza femminile, ecc. Ma se vogliamo porre fine alle oppressioni razziali, eterosessiste, xenofobe e a tante altre che danno forma alle identità oppresse e alle identità opprimenti, non dobbiamo rompere con i bianchi, gli eterosessuali, i nativi, ecc. Quello che dobbiamo proporre è di porre fine al sistema capitalista che stabilisce queste gerarchie razziste e patriarcali per garantire il suo dominio, dividendo gli sfruttati, che sono la grande maggioranza, presi nel loro insieme.

E qui entriamo in un’altra discussione. Da un lato, infatti, non sfugge a nessuno che i rapporti di sfruttamento si siano estesi e che la classe operaia, la classe dei salariati, la classe degli sfruttati, sia aumentata a livello globale. Questo ha fatto sì che oggi, per la prima volta nella storia, i salariati costituiscano la maggioranza della popolazione mondiale e che la popolazione urbana superi quella rurale. Per la prima volta nella storia, la metà, o quasi, della classe operaia è costituita da donne. Ma alla divisione nota fin dall’inizio del capitalismo tra i lavoratori dei paesi imperialisti e delle loro colonie, si è aggiunta la segmentazione tra lavoratori sindacalizzati, lavoratori di “seconda classe” e un enorme esercito proletario di riserva costituito dalle masse che affollano le metropoli e che non sono incorporate dal capitale nei rapporti salariali. E questa massa di “lavoratori di seconda categoria” – che alcuni autori hanno chiamato “il precariato” – è per lo più femminile, razzializzata e migrante. Tali settori costituiscono, attualmente, quasi la metà della classe operaia mondiale. In definitiva, quindi, l’omogeneità della classe operaia non è (e non è mai stata) un dato oggettivo della realtà. È piuttosto una costruzione, il risultato di meccanismi di esclusione e gerarchizzazione dettati dal capitale e riprodotti anche dalla burocrazia sindacale che, oggi più che mai, si oppone all’organizzazione dei settori più oppressi della classe operaia, all’unione delle file degli sfruttati.

Credo quindi che sia anche qui che possiamo trovare le ragioni per cui le donne (lavoratrici), le e gli immigrati (lavoratori), le persone razzializzate (lavoratori) trovano nei movimenti sociali identitari e policlassisti un canale per le loro richieste contro la discriminazione a cui le loro organizzazioni dei lavoratori non partecipano. Anzi, spesso essere favoriscono una separazione tra rivendicazioni democratiche e diritti civili da un lato, e rivendicazioni economiche e sindacali dall’altro, che appaiono quindi come antagoniste, un antagonismo assolutamente nuovo. Si badi bene: questo non è qualcosa di ‘naturale’ guardando alla storia del socialismo e del movimento operaio, in cui i diritti civili e le rivendicazioni economiche sono sempre stati collegati, fino alla metà del XX secolo. Quindi, questa crescita quantitativa, che ha trasformato la fisionomia della classe operaia, rendendola molto più variegata, non solo ha moltiplicato i volti, la diversità della classe stessa, bensì, accanto questo processo, si è prodotta la più grande frammentazione socio-politica che la classe operaia abbia mai conosciuto nella sua storia e un’enorme crisi della soggettività. E questo è stato causato, in larga misura, dalla sconfitta assestata dalla controffensiva capitalista degli ultimi trent’anni, rispetto alla quale le stesse direzioni politiche e sindacali della classe operaia hanno enormi responsabilità storiche. Non è tanto la diversità in quanto tale, ma soprattutto questa perdita di centralità politica della classe operaia che ha permesso, per molti anni, di proclamarne la scomparsa.

Anche il capitalismo però è entrato in crisi nel 2008, così durante la pandemia è diventato più chiaro agli occhi di milioni di persone che la classe operaia esiste ancora. In questo lungo decennio, dal 2008 in poi, il capitalismo ha perso il prestigio che aveva negli anni Novanta. Insieme a questa crisi e ai cambiamenti nel modo di pensare delle nuove generazioni, anche il femminismo neoliberale comincia a essere messo in discussione. È per questo che si stanno ricreando femminismi popolari, decoloniali, antirazzisti, antimperialisti e anticapitalisti, che denunciano la complicità del femminismo neoliberale alle politiche di aggiustamento, flessibilizzazione e smantellamento dello Stato sociale e la crescente precarizzazione del lavoro e della vita. Credo che questo sia il fenomeno più innovativo di questa nuova ondata femminista, questa critica che inizia a mettere in relazione il problema delle masse femminili con il problema del capitalismo.

Ma il limite di pensare la politica dal punto di vista delle identità, dove l’appartenenza di classe è solo una delle tante identità, è quello di supporre che, poiché siamo tutti o al 99% oppressi dal sistema capitalista, l’unità sia già un dato di fatto, solo perché questa unità è spinta dallo scontro con lo stesso nemico, è introdotta dall’esterno. In realtà, questa unità deve essere costruita su basi più organiche, e l’ ‘identità’ che ha la possibilità di farlo è la classe lavoratrice. Perché? Perché essa detiene le posizioni strategiche al funzionamento della società (non solo le grandi industrie per la produzione di beni, ma anche la logistica per la gestione del loro trasporto, la fornitura di servizi, ecc.) Questo ‘potere posizionale’ – derivato dalla sua situazione oggettiva – che consentirebbe alla classe operaia di interrompere la produzione e la circolazione del valore, o, in altre parole, di paralizzare i profitti capitalistici, è probabilmente aumentato negli ultimi decenni. Ed è una potenzialità che non si fonda su alcun essenzialismo identitario. Si basa sul posto che occupa la classe operaia nel funzionamento del sistema capitalistico. Questo potenziale può essere realizzato solo se la classe operaia sostiene una politica che, come affermava Lenin contro gli economicisti, faccia proprie tutte le istanze dei gruppi, delle classi e degli strati sociali oppressi dal capitale e che colleghi le loro rivendicazioni alla prospettiva di una lotta politica rivoluzionaria contro lo Stato e il regime, per rovesciare definitivamente il capitalismo.

Quindi, sostenere che esiste già un’unità popolare basata sul fatto che il 99% di noi sono lavoratrici, neri, lesbiche, trans, popoli nativi, ecc. oppressi dal capitale è un modo per evitare il compito strategico di costruire una reale alleanza, perché ciò implica la lotta politica dei settori più oppressi tra gli sfruttati contro le burocrazie sindacali e le burocrazie dei movimenti identitari policlassisti, che rafforzano la divisione e cercano anche di limitare il radicalismo esplosivo dei settori più oppressi dei movimenti per addomesticarli e assimilarli al regime politico. Finché la proprietà privata non viene presa di mira, i movimenti possono essere assimilati dalle democrazie capitaliste, dove l’estensione dei diritti di identità può coesistere con una gerarchizzazione identitaria sempre più marcata della classe sfruttata, come controparte di tali diritti. Stavo dicendo che il potenziale della classe operaia (femminilizzata, razzializzata, migrante, ecc.) che deriva dal suo posto nei rapporti sociali di produzione è solamente una disposizione vantaggiosa che deve essere messa in atto. Perché per sconvolgere il funzionamento dell’economia e intaccare i profitti capitalistici come primo colpo contro lo sfruttamento e le oppressioni, la classe operaia non deve solo confrontarsi con i padroni, ma deve anche liberarsi delle burocrazie sindacali che limitano il suo potenziale alle trattative aziendali, salariali, tra capitale e lavoro. Ma dovrà anche confrontarsi con lo Stato capitalista e con i partiti politici del regime democratico borghese. Non solo le nuove destre trumpiane, ma anche le destre tradizionali, i neoliberali progressisti, che si presentano sempre come il male minore contro le destre tradizionali e trumpiane, e anche coloro che, con un discorso di sinistra, si offrono di gestire la decadenza capitalistica e si rassegnano a subordinarsi a questo “male minore”. Abbiamo l’esempio di Podemos, che è emerso dalle mobilitazioni degli indignados e si è poi trasformato in un partito di regime e di co-governo con nientemeno che il tradizionale partito progressista neoliberale spagnolo, il PSOE.

È necessario fare quindi una battaglia politica attiva, perché nessuna società egualitaria, tanto meno il comunismo, arriverà automaticamente con l’aggravarsi della crisi capitalistica. In questo senso, l’infinita frammentazione identitaria che porta a una guerra di tutti contro tutti è un vicolo cieco tanto quanto l’unità populista di tutte le identità, dove le alleanze ostacolano la lotta politica delle strategie e addirittura le demonizzano come se fossero attacchi discriminatori. È qui che la politica diventa moralismo.

Un femminismo marxista che aspira a guidare trasformazioni radicali dovrebbe mirare a sviluppare correnti militanti rivoluzionarie all’interno delle organizzazioni di massa della classe lavoratrice. Non come fine in sè stesso, ma per conquistare quei rapporti di forza che gli permettano di articolare la lotta per la leadership della classe, con un programma di unità dei suoi ranghi e con la prospettiva di estendere la sua egemonia. Il contrario di ciò che fa la stessa burocrazia, che è riluttante a organizzare i settori più oppressi della classe, come la maggioranza delle donne, che sono precarie, la maggioranza degli immigrati, anch’essi precari, la maggioranza delle persone razzializzate, altro settore molto precarizzato, e così via. Allo stesso tempo, il femminismo marxista dovrebbe cercare di promuovere i movimenti sociali progressisti – che sono necessariamente policlassisti, anche se la loro composizione è spesso prevalentemente operaia – favorendo l’organizzazione di poli rivoluzionari con l’obiettivo di sviluppare l’indipendenza politica dei movimenti stessi dalle classi dominanti e la convergenza con le lotte della classe operaia, tutto ciò evidentemente in polemica con quelle tendenze che puntano tutto sulla conciliazione con lo Stati, i regimi e\o i governi. 

Se aspiriamo a una società riconciliata, in cui la riproduzione e la produzione si sviluppino armoniosamente con la natura; una società liberata da ogni forma di sfruttamento e oppressione, non possiamo aspettare che essa emerga automaticamente dalla crisi, attraverso un’insurrezione globale spontanea. È necessario prepararsi.

Con Fernande Bagou, lavoratrice di ONET (pulizie) e Francie Foster, del movimento dei gilet gialli, Paris 2019.

Con Fernande Bagou, lavoratrice di ONET (pulizie) e Francie Foster, del movimento dei gilet gialli, Paris 2019.

Ascoltandoti, mi sono ricordato di un’intervista a Filippo Del Lucchese, autore italiano di un ottimo libro su Machiavelli, il quale critica l’idea di “democrazia agonista” di Chantal Mouffe, perché essa non considera i possibili conflitti rispetto al sistema economico, ma solo quelli politici che possono essere risolti all’interno della democrazia. In altre parole, la presunta raffinatezza di denunciare il marxismo come economicista – e non nego, sia chiaro, che esistano marxisti economicisti – nasconde una rassegnazione sulla possibilità di cambiare l’economia, che è – in ultima analisi – il luogo in cui si definisce quale classe governa e come vive la gente. Credo che la separazione a cui facevi cenno prima, quella tra le richieste economiche e le istanze di riconoscimento o di democrazia, per me ha a che fare con questo. C’è un problema politico-ideologico che ha a che fare non solo con l’uso opportunista che il capitalismo può fare della questione della diversità, ma anche con la rinuncia da parte di settori dei movimenti a pensare a qualcosa che vada oltre la situazione attuale. Del resto, tu hai ben descritto come la composizione della classe operaia sia cambiata nella direzione di una molteplicità di figure. Guardano ai recenti processi di lotta di classe che stanno avvenendo ora, quanto sei ottimista sulla possibilità che le diverse forme di identificazione (classe, etnia, genere) possano essere articolate? La strategia che hai proposto come centrale riceverà qualche ‘aiuto’ dalla realtà o è ancora in fase embrionale?

Riguardo a ciò che hai detto sulla democrazia capitalista come luogo di dibattito su diverse cose, ma in cui ciò che non può essere messo in discussione è il funzionamento del sistema capitalista, credo che Terry Eagleton – ora non ricordo – o Slavoj Žižek, abbiano detto che nel postmodernismo si può parlare di tutto ciò che è culturale, ma non si può, è proibito, parlare di economia. Penso che questa fosse un’ideologia della sconfitta, quindi la sconfitta ha provocato anche questi profondi arretramenti ideologici.

Tuttavia mi sembra che ci troviamo in un momento diverso rispetto a quello precedente la crisi capitalistica del 2008, quando è cominciato un periodo di instabilità da cui il capitalismo non sembra riuscire ancora a riassorbirle. Questo spinge nella direzione di importanti trasformazioni nel modo di pensare delle persone. La pandemia ha inoltre messo a nudo il ruolo della classe operaia a livello internazionale, senza i lavoratori ‘essenziali’ non saremmo stati in grado di sopravvivere. Di più: con la pandemia e la crisi, masse sempre più vaste nel mondo stanno sprofondando nella miseria, mentre la classe dominante sta diventando sempre più ricca. Quindi, a crescere non è solo la povertà, ma anche la disuguaglianza. Tutti questi aspetti, insieme ai cambiamenti di cui abbiamo parlato prima relativamente alla classe operaia – sempre più varia, più eterogenea, ma anche più diffusa a livello globale – ci permettono di pensare a un futuro promettente.

Mi hai chiesto se sono ottimista o pessimista. Senza scadere in un ottimismo irrazionale, mi sembra che ci siano migliori condizioni in futuro per portare avanti questa politica di costruzione dell’egemonia della classe operaia e dell’alleanza con i settori socialmente oppressi (che a loro volta compongono questa classe operaia sempre più diffusa) e per pensare che la prospettiva della ‘resistenza infinita’, tipica del movimentismo, non debba essere il nostro unico obiettivo, ma che sia anche possibile pensare a come prepararci a costruire la vittoria.

Corteo dell’8 marzo a Buenos Aires, 2017.

Note

  1. In italiano: Trotsky (1971) Rivoluzione e vita quotidiana. Roma: Samonà & Savelli, disponibile online a: marxismo.net/index.php/autori/lev-trotskij/264-rivoluzione-e-vita-quotidiana-2.

Traduzione da Ideas de Izquierda

Questo articolo fa parte del numero 4, autunno 2022, della rivista Egemonia.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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