La corsa a chiudere in tempo Legge di bilancio e altri decreti “urgenti”, la trasversalità di una destra post-draghiana, l’imbarazzante evanescenza o acquiescenza delle opposizioni

Buon 2023!

Ci sono animali selvatici e bestie immonde. Con i primi si può convivere, in campagna e in città, con le opportune precauzioni e con rispetto. Le bestiacce vanno invece contrastate con ogni mezzo e sono, per esempio, gli autori ed emendatori della Legge di bilancio 2022 testé approvata dopo molte ridicole convulsioni. Se l’impianto di fondo è nella sostanza draghesco ed europeo, mantiene cioè la gabbia tecnocratica del precedente governo con le strette della recente fase neo-austeritaria, sono le aggiunte a basso costo che denunciano l’ottusità ideologica e la ferocia anti-poveri della nuova coalizione e dell’underdog-in-chief della muta abbaiante. Se la sinistra tradizionale e semi-tale ha perso l’immeritata fama di superiorità morale e ogni prestigio culturale, si conferma in modo spettacolare la mediocrità culturale e morale della destra – non il lagnoso complesso di inferiorità, ma proprio l’inferiorità.

I famosi tratti “identitari”  – cioè le cattiverie senza costi aggiuntivi — svelano, nella loro coerenza con l’agenda Draghi, la volontà punitiva e selettiva implicita e mascherata di tecnocratica oggettività nella prima, ma la raddoppiano con variazioni adottate o temporaneamente rimangiate destinate ai medio-piccoli evasori fiscali (Pos, tetto all’uso del contante, assaggi di flat tax, annullamento di cartelle esattoriali, condoni sparsi) o trovate cervellotiche per ingraziarsi ottusi cacciatori di cinghiali, sacche di no vax e aspiranti rieducatori di fannulloni. Ma, per l’essenziale, il trattamento fiscale differenziato per lavoratori dipendenti e partite Iva (strutturali o fasulle) e la tolleranza per il nero e l’evasione ed elusione ci stavano con il governo dei migliori e pure prima, quando la sinistra stava in posizioni di forza. Certo, ora il tutto si aggrava per venire incontro a fasce di elettori che se ne avvantaggiano, ma la grande evasione industriale e lo scandalo del catasto immobiliare non aggiornato è di lunga data. Neppure i condoni sono un inedito. 

Che la scuola e la sanità siano sottofinanziate è poi addirittura una tradizione, non sarà l’allarme per una pandemia o la presa d’atto del degrado culturale o formativo (“corretto” con gli inviti a “umiliare” chi protesta e la brillante prospettiva per i laureati di fare il cameriere o raccogliere pomidori) riproduce la struttura ordinaria dei bilanci nazionali al punto da rendere difficoltosa la spesa straordinaria con i fondi del Pnrr. In quali condizioni affronteremo l’incombente recessione europea e globale è superfluo pronosticare.

Ma il punto cruciale è la demolizione del reddito di cittadinanza, avviata nella Legge di bilancio con la riduzione prima a otto poi a sette mesi della sua erogazione per il 2023.

E l’introduzione di ulteriori limitazione per gli occupabili che non hanno completato l’obbligo scolastico e soprattutto con l’eliminazione della congruità della prima offerta di lavoro – il cui rifiuto comporta la decadenza del beneficio. Il proponente l’emendamento, il ben noto filantropo Lupi (quello che aveva tolto la residenza e i benefici connessi agli occupanti abusivi) ha sbagliato la formulazione e quindi l’articolo in questione resta al momento ineffettuale, ma ci si propone di reintrodurlo in una nuova legge che dovrà sopprimere radicalmente ogni forma e persino la dicitura del reddito di cittadinanza. Abolire la congruità dell’offerta, unito all’impegno (contenuto in una mozione di maggioranza) a non concedere mai un salario minimo, significa non solo cancellare la clausola di una distanza minima fra domicilio e luogo di lavoro – a danno soprattutto del Sud e delle isole dove offerte di lavoro davvero non ci sono – ma consegnare gli “occupabili”, mani e piedi legati, agli imprenditori ed esercenti del Nord, liberi di proporre loro salari di fame e orari da schiavi. 

La punizione è destinata non solo ai pochi occupabili richiesti a centinaia di chilometri dalla loro abitazione, ma anche alle loro famiglie, visto che la formulazione del RdC è familiare più che individuale.

Certo, la nuova legge è ancora da venire e quella in via di cancellazione aveva magagne e vuoti considerevoli, ma il fatto è che, in piena recessione 2023, pioverà sul mercato del lavoro quasi un milione di poveri assoluti (e “cronicizzati”) che, a parte il morire di fame, calmiereranno verso il basso i salari di tutte le categorie. Ulteriore raffinatezza. Si cercherà di detrarre gli occupabili dalle quote destinate ai flussi di immigrazione “regolare”, dimostrando in un sol colpo che gli italiani possono benissimo fare i lavori di merda e che non c’è bisogno di immigrati. Naturalmente gli occupabili resteranno disoccupati o in nero a casa loro e gli immigrati continueranno ad arrivare in nero, vessati dai nuovi decreti Sicurezza e dopo aver attraversato a proprio rischio e pericolo il Mediterraneo, sgombrato dalle Ong con persecuzioni prefettizie insindacabili, multe elevate, sequestri, fermi amministrativi e confische nonché improbabili “porti sicuri” a quattro giorni di navigazione. Il tutto condito da gradevoli esternazioni sull’ozio divanesco (scopiazzate dai neoliberisti d’antan, specie di sinistra) e sul fatto che non sempre il lavoro sarà quello dei nostri sogni, ma fa bene lo stesso al carattere.

Misure sul RdC e decreti Rave e Sicurezza sono i segnali di una postura identitaria del governo, a bassa incidenza economica, difficile compatibilità con livelli superiori di legislazione e (presunto) alto impatto elettorale. Al contrario, le opposizioni rivelano un desolante difetto di identità nel senso di coerenza organizzativa e strategica.

Il Pd è in pieno marasma di orientamento e di leadership, il M5S si occupa prevalentemente di acquisire pezzi del Pd in libera uscita senza curarsi troppo di definire un’alternativa di sinistra, alla lunga più fruttuosa sul piano elettorale e per contrastare le destre, i neo-centristi alias “terzo pollo” offrono gratis l’appoggio al Governo per fare dispetti a Pd e M5S e per ricavare qualche strapuntino di sottogoverno  (che comunque andrebbe ai renziani, mentre la volpe Calenda resta a bocca asciutta). I quattro candidati alla segreteria del Pd trasformano il “congresso costituente” in una farsa masochista che prelude alla rapida dissoluzione dell’intera tradizione socialdemocratica e progressista. Colpisce infatti l’affollamento di candidati intorno a un vuoto di programma e dentro una formazione troppo facilmente contendibile da destra e da sinistra. Nel medio periodo questa potrebbe essere una tappa inevitabile per sgomberare le macerie e riorganizzare la sinistra, ma nell’immediato significa paralizzare l’opposizione al governo Meloni e favorirne una deriva presidenzialistica. 

Meloni infatti non vorrebbe impantanarsi in magniloquenti proclami sovranisti e in inconcludenti esercizi di cattiveria ma punta diritto a consolidare la propria macchina di potere a spese della democrazia parlamentare

E c’è già riuscita con la gestione dei primi due mesi di governo, al punto da spaventare persino il duttile Sabino Cassese e a spese degli infidi alleati leghisti e forzitalioti. Il (semi-)presidenzialismo blinderebbe a tempo quasi indeterminato (visto lo sfaldamento delle opposizioni) l’attuale maggioranza verificata nei sondaggi e si toglierebbe dalle palle il flebile inciampo dei poteri intermedi e di controllo costituzionale. Insomma, la strada di una democrazia illiberale con caratteristiche italiane. 

Tuttavia il fatto che il programma di fase, bandierine a parte, si concentri sul rilancio del cavallo bolso del presidenzialismo dice molto sulla strategia della destra estrema. Dice, in primo luogo, che alla riforma costituzionale si affida, in assenza di una progettualità economica e sociale autonoma, il futuro della destra in Italia. L’adozione senza se e senza ma del neoliberalismo, blindato con una canina fedeltà atlantica, segna la rinuncia a un proprio progetto egemonico sul piano della coesione sociale (quello che, bene o male, aveva tentato Mussolini con il poi fallito corporativismo). Il fatto che Meloni goda nei sondaggi e nella composizione del voto (vedi l’ultima analisi di Pagnoncelli) di un’ampia trasversalità, che somma al proprio elettorato borghese tradizionale e a quello sempre più sedotto della Lega e FI il 39% dei lavoratori dipendenti (contro il misero 9% del Pd) indica un consolidamento del volatile voto di opinione più che la costituzione di un blocco sociale organico.

Ciò che corrisponde alla fluidità post-fordista e al collasso dei partiti italiani ma non garantisce una svolta di regime – improbabile anche per il quadro internazionale. 

Il fatto di essere in pratica l’unico partito rimasto in qualche modo strutturato (il “leninismo“ della Lega salviniana è ormai un’ombra e sulla tenuta partitica del Pd è meglio astenersi dal dileggio) conferisce un temporaneo vantaggio ai Fratelli d’Italia, che sta meglio dei suoi rivali e dei suoi alleati. Allo stesso modo l’egemonia della destra si regge in negativo sullo sfascio del Pd e sulle difficoltà strutturali e, nel migliore dei casi, sui tempi lunghi che si richiedono al M5S di Conte per diventare un’alternativa sociale e non solo parlamentare, una rappresentanza plausibile dei ceti subalterni e non solo dei fruitori dei RdC e di larga parte dei “poveri” e del Sud.

Il 2023 parte così con auspici incerti, anche a prescindere dalle grandi incognite che incombono dall’esterno su un governo velleitario, semi-europeista e ni-vax: la guerra, la ripresa della pandemia, i loro effetti combinati sulla globalizzazione e la recessione. 

Passeggere: Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
Venditore: 
Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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