Gli anni ‘90 sono stati un decennio di cambiamenti radicali per la Russia. In “L’epoca di Berezovskij. La Russia degli oligarchi?” (Sandro Teti Editore, 2022), Pëtr Aven ripercorre le vicende di questo periodo storico attraverso la travagliata vita di uno dei suoi principali protagonisti, Boris Berezovskij.

La fine dell’Unione Sovietica nel 1991 rappresentò un evento storico di vastissima portata a livello mondiale, tanto che molti storici utilizzano questa data per indicare la fine del “secolo breve”. In Russia, il decennio degli anni ‘90 vide l’esplosione dell’inflazione, l’acuirsi delle diseguaglianze e della povertà, unitamente all’emergere di una nuova classe economicamente dominante, presa dall’euforia di poter diventare come i capitalisti occidentali, all’interno della quale presto si distinsero diverse figure di spicco.

Tra queste, si staglia quella di Boris Berezovskij, forse la più rappresentativa di questo periodo storico, almeno secondo il parere di Pëtr Aven, autore de L’epoca di Berezovskij. La Russia degli oligarchi? (Sandro Teti Editore, 2022). Lo stesso Aven, del resto, fa parte di questi parvenus, e oggi viene considerato come uno dei più stretti collaboratori del presidente Vladimir Putin, dopo una lunga carriera come banchiere alla guida di Alfa-Bank, la maggiore banca commerciale privata russa.

Non deve dunque sorprendere che il tono del libro sia prevalentemente celebrativo nei confronti del periodo degli anni ‘90, che Aven vede come la grande occasione che alcuni uomini sono riusciti a cogliere, suscitando “l’enorme tentazione di raggiungere tanto la ricchezza, quanto il potere, in breve tempo da parte di coloro che il giorno prima non avrebbero potuto nemmeno sognarlo” (p. 10). Sebbene il nostro punto di vista sia molto diverso, vista la tragedia che la fine dell’URSS ha rappresentato per le classi popolari russe, il libro, attraverso numerose interviste a importanti personalità russe, ripercorre i principali avvenimenti della storia di quel Paese tra gli ultimi anni dell’epoca sovietica e l’inizio della presidenza di Vladimir Putin, mettendo in evidenza intrighi e diatribe i cui dettagli spesso non sono noti ai lettori italiani e occidentali in generale.

Boris Berezovskij, il protagonista del libro, non ha mai avuto realmente nelle mani le redini del potere russo, eppure ha giocato un ruolo fondamentale nel determinare la direzione della storia del suo Paese. Dopo la fine dell’URSS, divenne un grande sostenitore del sistema liberista, tanto che sul finire della propria vita scrisse anche un “Manifesto del liberalismo russo”. Ma Berezovskij non era un uomo di solidi ideali, bensì uno che perseguiva il successo personale, come molti degli oligarchi emersi nel decennio degli anni ‘90 in Russia. Michail Denisov, scienziato e imprenditore, afferma a tal proposito: “Pensava solo a sé, non aveva alcun ideale. Che ci fosse il socialismo o il capitalismo, per lui non faceva alcuna differenza. Tutto ciò che voleva era guadagnare denaro da investire” (p. 81). Anche lo stesso autore ammette: “Boris senza dubbio non credeva nella democrazia. Aveva cara la propria libertà, ma non credeva affatto nei diritti altrui” (p. 152).

Pëtr Aven, che come Berezovskij ha approfittato del periodo delle privatizzazioni per creare la sua fortuna, sembra essere un sostenitore più ideologico del liberismo, tanto da vedere degli esempi da seguire nei Paesi occidentali, ma persino lui formula alcune critiche sul modo in cui sono state gestite le privatizzazioni in Russia: “Credo che in quella situazione concordare su una tale concentrazione di capitali sia stata una mossa tattica, che strategicamente ha comportato grandi perdite. La suddivisione arbitraria delle proprietà ha portato con sé conseguenze che si avvertono ancora oggi” (p. 199), ammette nella sua conversazione con Anatolij Čubajs, l’economista considerato come il padre di quelle tragiche riforme economiche che portarono alla nascita della potente oligarchia russa. Egli stesso confessa: “Sapevamo che la disoccupazione sarebbe cresciuta a livelli esorbitanti, sapevamo che non c’era budget, quindi non ci sarebbero stati ordini e una parte significativa dell’hi-tech sarebbe andata in frantumi, insieme all’intelligencija tecnico-scientifica. Sapevamo molte cose, ma molte altre non le vedemmo, non le intuimmo” (p. 201).

A metà degli anni ‘90, il potere di Berezovskij era divenuto tale da poter giocare un ruolo fondamentale nel determinare il risultato delle elezioni presidenziali russe: “Nel 1996 aveva giocato un ruolo cruciale nel mobilitare gli oligarchi pro El’cin, rendendo possibile la successiva vittoria di quest’ultimo alle elezioni” (p. 25), scrive l’autore. Nel corso del libro, Aven ed i suoi interlocutori spiegheranno come Berezovskij manipolò i media e l’opinione pubblica per favorire la rielezione di Boris El’cin – convincendolo a ricandidarsi contro la sua stessa volontà – al fine di evitare il ritorno dei comunisti al potere, in un momento in cui tutti i sondaggi davano per certa l’elezione di Gennadij Zjuganov, leader del Partito Comunista, alla presidenza della Federazione. A tal proposito, ancora Čubajs dichiara: “Oggi la nostra comunità liberale ritiene quasi all’unanimità che la campagna elettorale di El’cin sia stata integralmente falsificata” (p. 264). E successivamente aggiunge: “Il governo e gli industriali hanno lottato insieme contro i comunisti. Credo che senza il sostegno del grande business il governo di allora non avrebbe avuto risorse sufficienti per vincere. Sì, è stata una decisione strategica che ha definito il destino del Paese” (p. 365).

Parlando ancora delle cruciali elezioni del 1996, Vladimir Pozner, giornalista e primo presidente dell’Accademia della televisione russa, ricorda: “Quando le elezioni presidenziali del 1996 erano imminenti l’indice di gradimento di El’cin, come sicuramente ricorderà, era estremamente basso. Zjuganov doveva vincere. So che a Davos, se non sbaglio, c’era stato un incontro tra chi di dovere e si era deciso che tale scenario non era ammissibile. Quindi la televisione fece fuori Zjuganov, non gli diede la possibilità di tenere discorsi e sosteneva El’cin con ogni mezzo. E funzionò, alla fine questi vinse” (p. 307). Al che l’autore ribadisce che “le elezioni non furono truccate, i voti furono contati in maniera più o mena corretta. Ma ci fu un’enorme manipolazione della coscienza collettiva” (p. 308).

Secondo alcuni, Berezovskij avrebbe giocato un ruolo importante anche nell’elezione di Vladimir Putin, ma le testimonianze riportate dimostrano come non tutti ne siano convinti. Fatto sta che l’oligarca aveva un rapporto privilegiato con l’attuale presidente russo, fino alla rottura che porterà al suo esilio in Inghilterra fino alla tragica morte, avvenuta probabilmente per suicidio il 23 marzo 2013. Berezovskij, infatti, sperava che favorendo l’elezione di Putin avrebbe mantenuto il suo rapporto e la sua influenza sul Cremlino, come avvenuto all’epoca di El’cin, ma non aveva fatto i conti con il nuovo presidente: “Senza dubbio Vladimir Vladimirovič Putin è molto indipendente, poco incline a lasciarsi influenzare” (p. 435). Aggiunge ancora Aven parlando di Putin: “Sopportare di avere intorno degli uomini ricchi che vogliono indicarti come governare, che riforme attuare, usando per questo quella stessa televisione che avevano avuto dal governo, era per lui assolutamente inammissibile” (pp. 543-43).

Negli ultimi anni della sua vita, autoproclamatosi “l’anti-Putin”, Berezovskij ha tentato di provocare in ogni modo la caduta del presidente russo, senza mai riuscirci. Denisov racconta che l’oligarca gli avrebbe confessato la preparazione di una rivolta militare, che tuttavia non ebbe mai luogo. Secondo Aleksandr Gol’farb, vicino sia a Berezovksij che al magnate statunitense George Soros, con il quale lo stesso Berezovksij aveva legami, quest’ultimo “era convinto che l’Occidente avrebbe sostenuto un cambio di regime in Russia e che, nella stessa Russia, fossero in molti a non concordare con le azioni di Putin” (p. 593).

Berezovksij tentò di influenzare anche la politica dei Paesi limitrofi alla Russia, sempre in funzione antiputiniana. In particolare, tentò prima di allontanare la Bielorussia della Russia e poi di favorire cambi di governo in Ucraina Georgia, finanziando anche la cosiddetta “rivoluzione arancione” in Ucraina ed il movimento della leader nazionalista Julija Tymošenko per favorire l’ascesa del presidente filoccidentale Viktor Juščenko, eventi che avrebbero rappresentato i prodromi della tragica situazione che oggi si vive in quel Paese. Secondo Gol’farb, Berezovksij “credeva che [il presidente bielorusso] Lukašenko dovesse allontanarsi dalla Russia e spostarsi verso l’Europa, era un interesse oggettivo di tutti gli ex Paesi satellite. Il progetto di Borja consisteva nell’aiutarlo a fare questa scelta, in parte convincendolo, in parte facilitandolo”.

Per quanto riguarda l’Ucraina, lo storico russo-statunitense Jurij Fel’štinskij ricorda di aver presentato personalmente Julija Tymošenko a Berezovksij, e spiega: “[Berezovksij] cominciò a fornire denaro alla “rivoluzione arancione” quando già conosceva Julija Timošenko”. Ma i piani dell’oligarca russo non andarono come sperato: “Quando la “rivoluzione arancione” vinse non fecero più entrare Berezovskij a Kiev, perché capivano che avrebbe agito proprio come aveva fatto precedentemente a Mosca” (p. 610), ovvero tentando di diventare l’eminenza grigia del governo. “Provò a fare lo stesso, ma senza risultato, in Georgia” (p. 611), aggiunge Fel’štinskij.

La travagliata vita di Berezovskij si concluse con una complicata vicenda giudiziaria che lo vide opposto ad un altro potente oligarca russo, Roman Abramovič. Secondo Elena Gorbunova, una delle tre ex mogli di Berezovskij, dei documenti proverebbero che lo stesso Abramovič ne avrebbe ordinato l’omicidio. Tuttavia, la tesi più accreditata è quella della depressione che colpì Berezovskij dopo la sconfitta giudiziaria, tanto da portarlo a compiere il gesto estremo.

In conclusione, il libro di Pëtr Aven rappresenta un’interessante testimonianza per comprendere, attraverso la vita di Berezovskij, le vicende di trent’anni di storia russa, permettendo di acquisire una visione che in pochi possono dire di avere al di fuori della Russia. Tuttavia, quello espresso dall’autore e da molti dei suoi interlocutori resta quello di coloro che hanno approfittato della fine dell’URSS per il proprio tornaconto personale, e che quindi tessono le lodi di una Russia diseguale che ne ha fatto i propri figli privilegiati a discapito di molti altri.

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Di Giulio Chinappi - World Politics Blog

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, “Educazione e socializzzione dei bambini in Vietnam”, Paese nel quale risiede tuttora. Nel suo blog World Politics Blog si occupa di notizie, informazioni e approfondimenti di politica internazionale e geopolitica.

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